18/2/2013 Art Brut, Outsider Art, Neuve Invention, Marginal Art, Art Singulier, Folk Contemporary Art, Self-Taught Art, Visionary Art, Intuitive Art, Naϊve Art ... = Arte spontaneaRead NowArt Brut, Outsider Art, Neuve Invention, Marginal Art, Art Singulier, Folk Contemporary Art, Self-Taught Art, Visionary Art, Intuitive Art, Naϊve Art ... = Arte spontanea |
L’Advertainment è la tecnica pubblicitaria che usa varie forme di intrattenimento (spettacoli televisivi, spettacoli teatrali, film, concerti musicali, … ) per promuovere prodotti o marchi. Un esempio potrebbe essere l’inserimento, nella struttura narrativa di un film, dell’utilizzo compiuto di prodotti e di servizi; questa declinazione dell’Advertainment nel Cinema prende il nome di Product Placement | Advertainment, is the advertising technique which uses different forms of entertainment to promote products or brands. An example could be the insertion, in the narrative structure of a movie, of the actual usage of products and services; this declination of Advertainment in Cinema is called Product Placement. |
Sebbene sia ancora una tecnica emergente e, quindi, ancora poco valutabile nei suoi effetti e nella sua efficacia, “gli sforzi nell’Advertainment possono ricoprire un ruolo strategico nel cosiddetto IMC mix-Integrated Marketing Communication mix” [1] definito nella sua creatività secondo una linea concettuale trans-mediale e sviluppato nella sua distribuzione secondo i principi del cross-promotion | Even if it is still an emerging technique and, so, still not much assessable in its effects and in its efficacy, “the efforts in Advertainment can cover a strategic role in the so-called IMC – Integrated Marketing Communication”[1] defined in its creativity basing on a conceptual trans-media line and developed in its distribution following the principles of cross-promotion. |
[1] C.Antonia Russel, 2007, “Advertainment: Fusing Advertising and Entertainment, University of Michigan, Yaffe Center for Persuasive Communication.
CREATIVE TECHNOLOGIES, CYBERPSYCHOLOGY & WELLNESS
a cura di Vittorio Dublino
a cura di Vittorio Dublino
<<Future programmers can keep developing PCs which ignore emotions, or can take on the risk of creating machines which recognize emotions, express them, and maybe try them, at least in the ways in which emotions can help in the intelligent interaction and in decision making processes>>
[Picard, 2003]
Negli ultimi anni si cerca di indagare e comprendere il funzionamento del Sistema Uomo con un approccio olistico che ha generato la definizione del modello Bio-Psico-Sociale in sostituzione del vecchio modello riduzionista, cosiddetto Biomedico. In questo nuovo paradigma si inserisce la ricerca applicata vocata alla prevenzione e/o il trattamento di alcune patologie dovute agli stati di ansia e di stress come anche tese a contrastare alcune forme di fobie fino ad arrivare alla sperimentazione di tecniche e tecnologie tese a contrastare il Declino Cognitivo negli anziani, rallentare gli effetti dell’Alzheimer oppure contribuire ad agevolare i processi che regolano l’attenzione e l’autostima negli individui affetti da Autismo. La ricerca sulle tecnologie per sostenere la salute mentale e il benessere emotivo sta assumendo sempre maggiore interesse allo scopo di definire metodologie efficaci ed efficienti per il designing di piattaforme tecnologiche per la salute mentale (Mental Health and Emotional Well-Being) in grado di influire sulle funzioni cognitive tra cui la memoria umana e la reminiscenza, la social connectedness, i processi comportamentali, i sistemi di riflessione e la manipolazione emotiva. All’ultimo congresso “Cyber 18 – Where Healthcare & Technology connect” , le tematiche trattate per quanto concerne le attuali applicazioni in CyberPsichology. Una in particolare rientra nella nostra sfera d’interesse: la prevenzione ed il trattamento dell’Ansia. Le cause dei disturbi dovuti all’Ansia (*) sono i più disparati. Molte persone provano sentimenti di ansia prima di un evento importante: come un esame importante, una presentazione aziendale o un primo appuntamento. I disturbi dovuti all’Ansia sono malattie che affliggono la vita delle persone con sintomi d’oppressione e di paura con manifestazioni che da acute possono diventare croniche, incessanti, potendo crescere progressivamente, peggiorando. Tormentati da attacchi di panico, pensieri ossessivi, flashback di eventi traumatici, incubi, o innumerevoli sintomi fisici spaventose, alcune persone con disturbi d'ansia diventano addirittura costretti a casa. La Scienza sta arrivando a dimostrare l’efficacia dell’uso delle Tecnologie Emotive nel trattamento di questi disturbi alleviandone i sintomi, attraverso l’induzione di stati emozionali positivi. [1] [2] [*] Solo negli Stati Uniti sono stimati circa 19 milioni di individui adulti affetti da disturbi generati da Sindrome da Ansia ogni anno. Anche bambini ed adolescenti possono soffrire di questi disturbi generali dovuti all’ Ansia, tra cui sono incluse: forme di Fobia, Panico, Disordini Compulsivi Ossessivi, Stress post-traumatico. | In the latest years, we’ve been trying to investigate and comprehend the functioning of the Human System with an holistic approach which generated the definition of the BioPsychoSocial model, as a substitute of the old reductionist model, called Biomedical. In this new paradigm we see the insertion of applied researched focused on the prevention and/or the treatment of some diseases caused by anxiety states and stress, and aimed at contrasting some forms of phobias up to the experimenting of some techniques and technologies focused on the contrast of the Cognitive Decline of elders, slowing the effect of Alzheimer or contributing in easing the processes which regulate attention and self confidence in individuals with autism. The research of technologies for the support of mental health and the emotional wellness is assuming more and more interest so to define effective and efficient methods for the mental health technologic platform design (Mental Health and Emotional Wellness), capable of influencing cognitive functions amongst which human memory and reminiscence, social connectedness, behavioral processes, systems of reflection and emotional manipulation. During the last “Cyber18 - Where Healthcare & Technology Connect” conference, the topics for what concerns today’s applications in CyberPsychology, one in particular caught our attention for its presence in our sphere of interest: prevention and treatment of anxiety. The causes of the disorder descending from anxiety are the most disparate. Many people feel anxiety before an important event: an exam, a company’s presentation or a date. Disorders due to anxiety are diseases which affect people’s lives with oppression and fear symptoms, and with manifestations which can increase from acute to chronic, unceasing and continuously growing, worsening. Tormented by panic attacks, obsessive thoughts, trauma flashbacks, nightmares or countless physical symptoms, some people suffering from anxiety disorders my even become housebound. Science is reaching the point of demonstrating the efficacy of its Emotive Technology usage in the treatment of the aforesaid disorders, alleviating symptoms, through the induction of positive emotional states. |
expressive_therapies_history_theory_practice.pdf | |
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References:
SINESTESIA TRA COLORI E MUSICA
di Luigi Siciliano
Il fenomeno della sinestesia, che dal greco syn= unione ed aisthesis= sensazione significa percepire insieme. È un fenomeno non comune, infatti solo in alcune persone, le percezioni provenienti da due o più sensi si mescolano.
È questo il caso di Mozart, che vedeva il colore delle note, assieme al loro suono.
La sinestesia quindi è un fenomeno percettivo che riguarda il nostro modo di interrogare la realtà e di ricevere informazioni. Questo fenomeno è stato studiato nel corso della storia da musicisti, poeti, scrittori, artisti. Tra tutti citiamo Vasilij Kandinskij (1866-1944), universalmente conosciuto come il fondatore dell’arte astratta.
Fu forse colui che ebbe la capacità più penetrante di capire la sinestesia, sia come fusione sensoriale, sia come idea artistica. Egli esplorò le relazioni tra suono e colore tanto da usare termini musicali per descrivere le sue opere, definendole “composizioni” e improvvisazioni ”.
Per Kandinsky i colori divenivano suoni da fissare sulla tela. Egli sperava infatti, che i suoi dipinti potessero essere “ascoltati”, che i fruitori della sua arte potessero avere “la possibilità di entrare nell’opera, diventare attivi in essa e vivere il suo pulsare con tutti i sensi”. Scriveva:
“…Sentivo a volte il chiacchiericcio sommesso dei colori che si mescolavano: era un’esperienza misteriosa; sorpresa nella misteriosa cucina di un alchimista”.
Era affascinato dall’astrazione che poteva raggiungersi tramite l’ascolto musicale.
“…Per noi pittori il più ricco ammaestramento è quello che si trae dalla musica. Con poche eccezioni e deviazioni la musica, già da alcuni secoli, ha usato i propri mezzi non per ritrarre le manifestazioni della natura, ma per esprimere la vita psichica dell’artista attraverso la vita dei suoni musicali…”
E dirà anche:
“In generale il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto sull’anima. Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima il pianoforte dalle molte corde. L’artista è una mano che toccando questo o quel tasto mette in vibrazione l’anima umana.…”
Tra le sue opere troviamo, tra l’altro, un’interpretazione della Quinta sinfonia di Beethoven attraverso forme e linee. Il sogno-programma di Wassilij Kandinskij, era la sintesi delle arti, ossia quell’opera d’arte totale di cui Wagner nel secolo precedente aveva ipotizzato e realizzato nei suoi Melodrammi.
Kandinskij inoltre, nelle sue opere, espone teorie sulla stretta correlazione tra opera d'arte e dimensione spirituale. Il colore può avere due possibili effetti sullo spettatore: un effetto fisico, superficiale e basato su sensazioni momentanee, determinato dalla registrazione da parte della retina di un colore piuttosto che di un altro; un effetto psichico dovuto alla vibrazione spirituale (prodotta dalla forza psichica dell'uomo) attraverso cui il colore raggiunge l'anima. Esso può essere diretto o verificarsi per associazione con gli altri sensi.
L'effetto psichico del colore è determinato dalle sue qualità sensibili: il colore ha un odore, un sapore, un suono. Perciò il rosso, ad esempio, risveglia in noi l'emozione del dolore, non per un'associazione di idee (rosso-sangue-dolore), ma per le sue proprie caratteristiche, per il suo "suono interiore".
Il bello quindi, non è più ciò che risponde a canoni ordinari prestabiliti, il bello è ciò che risponde ad una necessità interiore, che l'artista sente in quel momento come tale.
Sulla base del concetto per il quale il movimento del colore è una vibrazione che tocca le corde dell'interiorità, come Kandinskij sostiene, i colori vengono percepiti in base alle sensazioni e alle emozioni che suscitano nello spettatore. Quindi Kandinskij pensa di stabilire un rapporto armonico tra colori e sensazioni. Addirittura in alcuni studi, lui ed altri come lui, paragonano il colore al timbro di alcuni strumenti musicali.
Di seguito alcuni esempi:
Il giallo è dotato di una follia vitale, prorompente, di un'irrazionalità cieca; viene paragonato al suono di una tromba, di una fanfara. Il giallo indica anche eccitazione quindi può essere accostato spesso al rosso ma si differenzia da quest'ultimo.
L'azzurro è il blu che tende ai toni più chiari, è indifferente, distante, come un cielo artistico; è paragonabile al suono di un flauto.
Il rosso è caldo, vitale, vivace, irrequieto ma diverso dal giallo, perché non ha la sua superficialità. L'energia del rosso è consapevole, può essere canalizzata. Più è chiaro e tendente al giallo, più ha vitalità, energia. Il rosso medio è profondo, il rosso scuro è più meditativo. È paragonato al suono di una tuba.
L'arancione esprime energia, movimento, e più è vicino alle tonalità del giallo, più è superficiale; è paragonabile al suono di una campana o di un contralto.
Il verde è assoluta mobilità in una assoluta quiete, fa annoiare, suggerisce opulenza, compiacimento, è una quiete appagata, appena vira verso il giallo acquista energia, giocosità. Con il blu diventa pensieroso, attivo. Ha i toni ampi, caldi, semigravi del violino.
Il viola, come l'arancione, è instabile ed è molto difficile utilizzarlo nella fascia intermedia tra rosso e blu. È paragonabile al corno inglese, alla zampogna, al fagotto.
Il grigio è l'equivalente del verde, ugualmente statico, indica quiete, ma mentre nel verde è presente, seppur paralizzata, l'energia del giallo che lo fa variare verso tonalità più chiare o più fredde facendogli recuperare vibrazione, nel grigio c'è assoluta mancanza di movimento, che esso volga verso il bianco o verso il nero.
Il marrone si ottiene mischiando il nero con il rosso, ma essendo l'energia di quest'ultimo fortemente sorvegliata, ne consegue che esso risulti ottuso, duro, poco dinamico.
Il bianco è dato dalla somma (convenzionale) di tutti i colori dell'iride, ma è un mondo in cui tutti questi colori sono scomparsi, di fatto è un muro di silenzio assoluto, interiormente lo sentiamo come un non-suono. Tuttavia è un silenzio di nascita, ricco di potenzialità; è la pausa tra una battuta e l'altra di un'esecuzione musicale, che prelude ad altri suoni.
Il nero è mancanza di luce, è un non-colore, è spento come un rogo arso completamente. È un silenzio di morte; è la pausa finale di un'esecuzione musicale, tuttavia a differenza del bianco (in cui il colore che vi è già contenuto è flebile) fa risaltare qualsiasi colore.
Il colore, nonostante nella nostra mente sia senza limiti, nella realtà assume anche una forma (carattere importantissimo per la costruzione compositiva in pittura. Se un colore viene associato alla sua forma privilegiata gli effetti e le emozioni che scaturiscono vengono esaltati e potenziati.
di Luigi Siciliano
Il fenomeno della sinestesia, che dal greco syn= unione ed aisthesis= sensazione significa percepire insieme. È un fenomeno non comune, infatti solo in alcune persone, le percezioni provenienti da due o più sensi si mescolano.
È questo il caso di Mozart, che vedeva il colore delle note, assieme al loro suono.
La sinestesia quindi è un fenomeno percettivo che riguarda il nostro modo di interrogare la realtà e di ricevere informazioni. Questo fenomeno è stato studiato nel corso della storia da musicisti, poeti, scrittori, artisti. Tra tutti citiamo Vasilij Kandinskij (1866-1944), universalmente conosciuto come il fondatore dell’arte astratta.
Fu forse colui che ebbe la capacità più penetrante di capire la sinestesia, sia come fusione sensoriale, sia come idea artistica. Egli esplorò le relazioni tra suono e colore tanto da usare termini musicali per descrivere le sue opere, definendole “composizioni” e improvvisazioni ”.
Per Kandinsky i colori divenivano suoni da fissare sulla tela. Egli sperava infatti, che i suoi dipinti potessero essere “ascoltati”, che i fruitori della sua arte potessero avere “la possibilità di entrare nell’opera, diventare attivi in essa e vivere il suo pulsare con tutti i sensi”. Scriveva:
“…Sentivo a volte il chiacchiericcio sommesso dei colori che si mescolavano: era un’esperienza misteriosa; sorpresa nella misteriosa cucina di un alchimista”.
Era affascinato dall’astrazione che poteva raggiungersi tramite l’ascolto musicale.
“…Per noi pittori il più ricco ammaestramento è quello che si trae dalla musica. Con poche eccezioni e deviazioni la musica, già da alcuni secoli, ha usato i propri mezzi non per ritrarre le manifestazioni della natura, ma per esprimere la vita psichica dell’artista attraverso la vita dei suoni musicali…”
E dirà anche:
“In generale il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto sull’anima. Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima il pianoforte dalle molte corde. L’artista è una mano che toccando questo o quel tasto mette in vibrazione l’anima umana.…”
Tra le sue opere troviamo, tra l’altro, un’interpretazione della Quinta sinfonia di Beethoven attraverso forme e linee. Il sogno-programma di Wassilij Kandinskij, era la sintesi delle arti, ossia quell’opera d’arte totale di cui Wagner nel secolo precedente aveva ipotizzato e realizzato nei suoi Melodrammi.
Kandinskij inoltre, nelle sue opere, espone teorie sulla stretta correlazione tra opera d'arte e dimensione spirituale. Il colore può avere due possibili effetti sullo spettatore: un effetto fisico, superficiale e basato su sensazioni momentanee, determinato dalla registrazione da parte della retina di un colore piuttosto che di un altro; un effetto psichico dovuto alla vibrazione spirituale (prodotta dalla forza psichica dell'uomo) attraverso cui il colore raggiunge l'anima. Esso può essere diretto o verificarsi per associazione con gli altri sensi.
L'effetto psichico del colore è determinato dalle sue qualità sensibili: il colore ha un odore, un sapore, un suono. Perciò il rosso, ad esempio, risveglia in noi l'emozione del dolore, non per un'associazione di idee (rosso-sangue-dolore), ma per le sue proprie caratteristiche, per il suo "suono interiore".
Il bello quindi, non è più ciò che risponde a canoni ordinari prestabiliti, il bello è ciò che risponde ad una necessità interiore, che l'artista sente in quel momento come tale.
Sulla base del concetto per il quale il movimento del colore è una vibrazione che tocca le corde dell'interiorità, come Kandinskij sostiene, i colori vengono percepiti in base alle sensazioni e alle emozioni che suscitano nello spettatore. Quindi Kandinskij pensa di stabilire un rapporto armonico tra colori e sensazioni. Addirittura in alcuni studi, lui ed altri come lui, paragonano il colore al timbro di alcuni strumenti musicali.
Di seguito alcuni esempi:
Il giallo è dotato di una follia vitale, prorompente, di un'irrazionalità cieca; viene paragonato al suono di una tromba, di una fanfara. Il giallo indica anche eccitazione quindi può essere accostato spesso al rosso ma si differenzia da quest'ultimo.
L'azzurro è il blu che tende ai toni più chiari, è indifferente, distante, come un cielo artistico; è paragonabile al suono di un flauto.
Il rosso è caldo, vitale, vivace, irrequieto ma diverso dal giallo, perché non ha la sua superficialità. L'energia del rosso è consapevole, può essere canalizzata. Più è chiaro e tendente al giallo, più ha vitalità, energia. Il rosso medio è profondo, il rosso scuro è più meditativo. È paragonato al suono di una tuba.
L'arancione esprime energia, movimento, e più è vicino alle tonalità del giallo, più è superficiale; è paragonabile al suono di una campana o di un contralto.
Il verde è assoluta mobilità in una assoluta quiete, fa annoiare, suggerisce opulenza, compiacimento, è una quiete appagata, appena vira verso il giallo acquista energia, giocosità. Con il blu diventa pensieroso, attivo. Ha i toni ampi, caldi, semigravi del violino.
Il viola, come l'arancione, è instabile ed è molto difficile utilizzarlo nella fascia intermedia tra rosso e blu. È paragonabile al corno inglese, alla zampogna, al fagotto.
Il grigio è l'equivalente del verde, ugualmente statico, indica quiete, ma mentre nel verde è presente, seppur paralizzata, l'energia del giallo che lo fa variare verso tonalità più chiare o più fredde facendogli recuperare vibrazione, nel grigio c'è assoluta mancanza di movimento, che esso volga verso il bianco o verso il nero.
Il marrone si ottiene mischiando il nero con il rosso, ma essendo l'energia di quest'ultimo fortemente sorvegliata, ne consegue che esso risulti ottuso, duro, poco dinamico.
Il bianco è dato dalla somma (convenzionale) di tutti i colori dell'iride, ma è un mondo in cui tutti questi colori sono scomparsi, di fatto è un muro di silenzio assoluto, interiormente lo sentiamo come un non-suono. Tuttavia è un silenzio di nascita, ricco di potenzialità; è la pausa tra una battuta e l'altra di un'esecuzione musicale, che prelude ad altri suoni.
Il nero è mancanza di luce, è un non-colore, è spento come un rogo arso completamente. È un silenzio di morte; è la pausa finale di un'esecuzione musicale, tuttavia a differenza del bianco (in cui il colore che vi è già contenuto è flebile) fa risaltare qualsiasi colore.
Il colore, nonostante nella nostra mente sia senza limiti, nella realtà assume anche una forma (carattere importantissimo per la costruzione compositiva in pittura. Se un colore viene associato alla sua forma privilegiata gli effetti e le emozioni che scaturiscono vengono esaltati e potenziati.
Synesthesia
Towards an increasingly receptive and multisensorial mind
di Vittorio Dublino
Towards an increasingly receptive and multisensorial mind
di Vittorio Dublino
Sinestesia: verso una mente sempre più recettiva e multisensoriale. La Sinestesia è una condizione neurologica in cui la stimolazione di una via sensoriale o cognitiva porta automaticamente verso esperienze involontarie, che confluiscono in un secondo percorso sensoriale o cognitivo. Le persone che riferiscono di avere tali esperienze sono conosciuti come Sinestetici. Lo studio scientifico della Sinestesia ha iniziato a svilupparsi, con uno studio realmente sistematico, solo da poco più di un decennio, grazie allo sviluppo delle tecnologie per la neuroimaging. Con l’utilizzo di tali tecnologie si ha oggi la possibilità di visualizzare le aree in cui si verifica l’attività cerebrale attraverso una “mappa digitale” delle funzioni cerebrali; ciò ha rappresentato una vera e propria rivoluzione nello studio delle neuroscienze. I ricercatori hanno infatti potuto scoprire che nel cervello di un sinestetico, in risposta a uno stimolo sensoriale, vengono attivati neuroni di diverse aree cerebrali: in seguito ad una percezione proveniente dal mondo esterno, dunque, non si attivano solo quei neuroni specializzati nell’assolvere a quella precisa funzione, che si dovrebbe innescare con quell’ inequivocabile stimolo sensoriale, ma induce anche l’attivazione di quelli localizzati in altre aree, come quella uditiva; stimolo visivo, non interessa solamente i neuroni della corteccia visiva. In questo modo, gli scienziati sono arrivati alla conclusione che, in realtà, in tutti gli esseri umani i neuroni delle diverse regioni cerebrali non “lavorano in maniera isolata”, ma si influenzano, comunicando attraverso una diffusa rete di connessioni. Negli individui Sinestesici accertati, ciò che fa la differenza è la presenza di una rete di connessioni più intricata della media degli individui non sinestetici. Grazie agli studi sulla Sinestesia, pertanto, i neuroscienziati sono giunti a teorizzare che “una corretta comprensione del funzionamento del cervello (e della Mente) non può basarsi su una visione troppo riduzionista”. “L’intero sistema è una grande rete”, spiega David Eagleman, “Non è più sufficiente pensare a singole aree che lavorano in isolamento”. La Sinestesia, quindi, è una condizione neurologica che provoca la “Contaminazione dei Sensi”. Ad esempio, nel caso dell’artista Perry Hall , nei suoi lavori, le forme, i colori e i suoni sono sapientemente miscelati in un’arte “viva” e multisensoriale: in lui uno stimolo visivo (come quello indotto dal paesaggio costiero durante il viaggio in treno) innesca immediatamente anche una risposta di tipo uditivo. E’ stato studiato che, nell’artista, colori e forme producono suoni diversi, ogni musica nella sua mente è contraddistinta da un suo proprio colore. Come spiega la psicologa Darya Zabelina , “la Sinestesia è una dote che sembra essere comune tra gli artisti, con una percentuale che sfiora addirittura il 25%. Nel resto della popolazione il fenomeno della Sinestesia si riscontra più raramente, ma, in effetti, non tutti sono coscienti di esserne in possesso”. Sino a oggi non è stata definita con precisione la causa della Sinestesia; nessun sinestesico, comunque, vorrebbe privarsi di una condizione percepita come un “dono”, piuttosto che come un disturbo. Gli ultimi risultati scientifici stanno orientando la comunità scientifica a riconoscere che forse questa condizione non è tanto rara e circoscritta come si credeva. Alcuni studi suggeriscono che il cervello di tutti gli esseri umani disporrebbe del “kit di base della Sinestesia”: tutti i neonati avrebbero la possibilità di vivere esperienze sinestetiche, capacità che poi perdono con lo sviluppo. Alcune ricerche sperimentali stanno dimostrando che gli Uomini, se adeguatamente stimolati, potrebbero scoprirsi tutti in grado di sperimentare naturalmente esperienze simili alla Sinestesia. Esperienze di tipo Sinestetico possono essere indotte in maniera artificiale, mediante l'uso di sostanze allucinogene come la Mescalina o sostanze stupefacenti come l'LSD, oppure attraverso esperienze di deprivazione sensoriale, meditazione ed in alcuni tipi di malattie che colpiscono la corteccia cerebrale. Questo tipo di sinestesia è detta “Pseudo-sinestesia”, in quanto è indotta o comunque non presente dalla nascita. Esperienze di tipo sinestetico sono state raggiunte recentemente anche attraverso l’applicazione delle nuove tecnologie creative digitali. Le ricerche sulla contaminazione tra i sensi sta portando gli scienziati ad assumere che l’ipotesi che i vantaggi indotti dalle capacità sinestetiche (in grado di sviluppare forme endogene di “realtà aumentata”) starebbero influenzando il cammino evolutivo dell’Uomo, conducendolo verso lo sviluppo di una mente sempre più ricettiva e multisensoriale. Gli scienziati David Brang e Vilayanur Ramachandran affermano in una recente ricerca , infatti, che “la Sinestesia è un fenomeno altamente ereditabile, che è associato a numerosi vantaggi per l'elaborazione cognitiva, sottolineando questa condizione è sopravvissuta alle pressioni evolutive”. Potrà l’uso massivo delle nuove tecnologie digitali facilitare nell’Uomo adulto non solo il mantenimento, ma anche lo sviluppo delle sue innate capacità sinestetiche? Se vogliamo volgere il nostro pensiero ad alcune teorie sui media e le nuove tecnologie forse ciò è possibile. McLuhan afferma: “Tutti i media ci violentano completamente … Alterano l’ambiente, evocano specifici rapporti fra senso e percezione … Quando questi rapporti cambiano, anche gli Uomini si modificano …” | Synesthesia is a neurologic condition in which the stimulation of a sensory or cognitive pathway leads directly towards involuntary experiences which merge in a second sensory/cognitive pathway. People who report such experiences are known as Synesthetes. The scientific study of Synesthesia has developed incredibly, through a real systematic study, from little more than a decade, thanks to the development of technologies for neuroimaging. Through this technique, we are able to view the areas in which cerebral activity is happening, on a digital map; this represents a real revolution in neurosciences. Researchers have in fact discovered that in the brain of a Synesthete, as an answer to a sensorial stimulation, neurons of different areas are activated: following a perception coming from the external world, so, not only the neurons specialized in performing the specific function are activated, which should be unequivocally triggered by the sensorial stimulus, but that single perception also induces the activation of the ones localized in other areas (for example: the auditory); a visual stimulation, for instance, doesn’t only interest the neurons of the visual cortex. In this way, scientists got rapidly aware of the fact that actually in all of the human beings the neurons of the different cerebral regions are not isolated, but communicate in a wider network of connections. The difference in the found Synesthetes, is the presence of a thicker network that the average. Thank to the development of Synesthesia, therefore, neuroscientists have reached the knowledge that a correct comprehension of the brain cannot be based on a reductionist vision. “the whole system is a big network”, explains David Eagleman, researcher of the Baylor College of Medicine. “It is no longer enough to think about the single areas as isolated”. So, synesthesia is a neurologic condition, which provokes the “contamination” of senses. For instance, in the case of Perry Hall (american artist known for the suggestive special effects of his artworks), shapes, colours and sounds of his works are wisely mixed in a “living” and multi-sensorial art: to him, a visual stimulus (as the one provoked by a coastal route during a train journey) immediately triggers also an auditory response. It has been studied that, in the artist colours and shapes produce differents sounds, each music in its brain is highlighted by specific color. According to what has been explained by the psychologist Darya Zabelina of the Northwestern University, “Synesthesia is a gift which seems to be common among artists, with a percentage which is even about the 25%”. In the rest of the population we see it more rarely, but practically, not all of the people are aware to possess it. Until today, the cause of Synesthesia hasn’t been defined with precision; but none of the Synesthetes, however, would rather deprive of a condition seen as a “gift” more than an ailment. The latest scientific results are orienting the scientific community to recognize that, maybe, this condition isn’t as rare as it seems. From the moment that some studies suggest that the brain of all the human beings is equipped with the “basic kit” of Synesthesia, some experimental researches are demonstrating that, if adequately stimulated, we could all be capable of experimenting naturally something similar to Synesthesia. Synesthetic experiences can be induced artificially, through the usage of hallucinogenic substances such as Mescaline, or narcotics such as LSD, experiences of sensorial deprivation, meditation, and in some types of diseases which act on the cerebral cortex. This type of Synesthesia is called pseudo-synesthesia, as it is induced or not present from birth. Synesthetic experiences has been reached recently also through the application of new creative digital technologies. The research on the contamination between senses is bringing the scientists to gain the advantages induced by this form of “endogenous augmented reality”, and are influencing the evolutionary path of Men, leading him towards a development of a much more receptive and multi-sensorial mind, which can be eased by the massive use of new digital technologies. The research over senses contamination is bringing the scientists to assume the hypothesis that the advantages induced by the synesthetic capacities (capable of developing endogenoud forms of “augmented reality”) are influencing the evolutionary path of mankind, leading toward the development of an increasingly receptive and multisensorial mind. The scientists David Brang and Vilayanur Ramachandran, in a recent research, state that “Synesthesia is a highly heritable phenomenon, which is associated to numerous advantages in cognitive elaboration, highlighting that this condition survived to evolutionary pressures”. Will the massive usage of new technologies ease the development and subsistence of innate synesthetic capacities in the adult Man? If we want to move our mind towards some theories about media and new technolgoeis maybe this might be possible. McLuhan states that “All the media totally violate us [...] they alter environment, evoke specific relations between sense and perception [...] when these relations change, also Men change ..." |
References:
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- Taylor R.P., Spehar B., Donkelaar P. V. & Hagerhall C.M., (2011), Perceptual and physiological responses to Jackson Pollock’s fractals, Frontiers in Human Neuroscience - June – Volume 5 - Article 60
- Zabelina D. L., (2011), Are You a Synesthete?, Psychology Today
Cognitive Sciences
EMOTIVE TECHNOLOGIES
di Vittorio Dublino
EMOTIVE TECHNOLOGIES
di Vittorio Dublino
Possono i nuovi media, le tecnologie creative digitali essere impiegate per supportare nuove forme di esperienze emozionali? La ricerca scientifica ci apre prospettive e visioni futuristiche sorprendenti. Come suggerisce Brenda K. Wiederhold [1], le ricerche in questo nuovo campo delle Neuroscienze e della Psicologia Cognitiva chiamata “CyberPsichology” dimostrano sperimentalmente che le tecnologie digitali e i nuovi media hanno in effetti un grande potenziale quali strumenti di “Induzione emotiva” aprendo la possibilità “di una diffusione planetaria di tecnologie emotive in grado di migliorare la Qualità della Vita” [3]. La ricerca scientifica ha dimostrato che, nel perseguimento di un buono stato psicofisico (condizione tra l’altro determinante nel rendere un individuo socialmente attivo nello stabilire buone relazioni con gli altri individui) lo stress e le emozioni sono fattori critici che prendono un ruolo determinante nel raggiungimento di una condizione di buona o scarsa Qualità di Vita. Il ruolo delle emozioni e il controllo dello stress, quindi, negli ultimi anni stanno assumendo sempre più importanza nella ricerca scientifica applicata alla comprensione e alla definizione dei meccanismi neurofisiologici, biochimici e psichici in grado di influenzare positivamente o negativamente lo stato di salute generale dell’Individuo. “Una delle teorie dominanti che cerca di spiegare i meccanismi per cui le emozioni positive sono importanti per la sopravvivenza è la Broadenand- Build Theory of Positive Emotions (Fredrickson, 1998; 2001). La flessibilità cognitiva, evidente durante gli stati emozionali positivi, risulta nella creazione di risorse che diventano utili in ogni momento. Anche se uno stato emozionale positivo è solo momentaneo, i benefici durano e hanno un impatto sulle dimensioni di tratto, sui legami sociali e sulle abilità che resistono nel futuro (Fredrickson, 2009).” [3] Un sempre maggiore interesse da parte della scienza che si occupa di questi problemi si sta rivolgendo verso lo studio dell’influenza delle “Emozioni positive” nei processi di regolazione dello stress. In campo medico i risultati di numerose ricerche svolte sembrano confermare come il “buon umore” [4] possa influire sullo stato generale del paziente e favorire l’organismo nella guarigione da una patologia, non solo contribuire a mantenerlo sano. Recenti studi in Neurofisiologia chimica hanno dimostrato, infatti, che alcune parti del Cervello, come il Locus Coeruleus [5], opportunamente stimolate da fattori ambientali esterni “positivi” per la sfera psichica dell’Uomo (come ad esempio fattori agenti che provochino la “risata”) siano in condizione di contrastare gli stati depressivi enfatizzando il rilascio di particolari sostanze chimiche a scapito di altre . Le discipline medico-scientifiche che studiano questi fenomeni sono la PsicoNeuroImmunologia[6] e la NeuroPsicoEndocrinologia che si occupano di definire le interazioni circolari che intercorrono tra la chimica dell’organismo umano e le neuroscienze in funzione degli stati emotivi dell’Uomo. Queste aree di ricerca stanno indagando sulla concreta possibilità che le “Emozioni negative” abbiano effetti immuno-depressivi, mentre, al contrario, le “Emozioni positive” risultino avere effetti benefici sull’intero stato generale di salute psico-fisica degli individui contribuendo a mantenere un sistema immunitario efficiente. Sono state messe a punto diverse tecniche di controllo delle emozioni in grado di regolare lo stress negativo (distress). Ovviamente, nello sviluppo della nostra ricerca di base applicata allo sviluppo del nostro progetto, il nostro interesse si focalizza su quelle tecniche che rientrano nell’area cognitivo-comportamentale. In particolare, raccordandoci a quanto già trattato più sopra, ci soffermiamo sulle cosiddette Tecniche di visualizzazione: che si basano sulla concezione multidimensionale dell’Intelligenza umana che definisce l’esistenza di diverse “Intelligenze specializzate” [7]. L’intelligenza visiva, definita da Ian Robertson [8] è una di quelle abilità cognitive correlata alla capacità di Immaginazione, più o meno sviluppata in ogni Individuo. Le esperienze, quindi, possono essere “immaginate” , raggruppandole in tre categorie: quelle relative alle “Percezioni sensoriali” (indotte da uno o più dei 5 sensi); quelle connesse con le capacità “Propriocettive” e le “Cinestesiche”. L’intelligenza visiva può essere potenziata (in particolare lungo le fasi dello sviluppo) e mantenuta attraverso un allenamento indotto da stimoli adeguati tra cui si evidenziano quelli che afferiscono alle arti visive, la musica e lo sport. I recenti studi che si sono attivati dopo la scoperta dei “Neuroni Specchio” ci stanno offrendo l’opportunità di progettare e sperimentare opportune tecniche tese al perseguimento di questi scopi, è stato dimostrato che tali tecniche di visualizzazione possono aiutare a contrastare esperienze ed emozioni negative (quindi causa di “distress”) fornendo all’individuo il vissuto di esperienze positive. | Scientific research opens surprising perspectives and future visions. As suggested by Brenda K. Wiederhold , the researches in this new field of Neurosciences and Cognitive Psychology called “CyberPsychology” demonstrate, experimentally, that the digital technologies and new media have perhaps a great potential as instruments of “Emotional Induction” , opening the possibility “of a planetary diffusion of emotional technologies capable of improving the Quality of Life” . Scientific research has demonstrated that, in the pursue of a good psychophysical condition (determining factor in making an individual socially active in the creation of good relationships with other individuals) stress and emotions are critical factors, which play a leading role in reaching a good or bad Quality of Life. The role of emotions and stress control, in the latest years, is gaining more and more importance in the scientific research applied to comprehension and definition of neurophysiological, biochemical and psychic mechanisms capable of influencing positively or negatively the state of general health of an individual. More and more interest by the portion of the scientific community which works in this field is being put in the study of the influence of “Positive Emotions” in the processes of stress regulation. As theorized by Prof. Pressman and Cohen , “Positive emotions can play a protective role towards physical and mental health" . One of the dominating theories which tries to explain the mechanisms for which "Positive emotions" are important for survival, is the "Broadenand-Build Theory of Positive Emotions" developed by Prof. Barbara Friedrickson; she assume that "Cognitive flexibility", clear to see during the positive emotional states, results in the creation of resources which become useful every moment. Even if a positive emotional state is only momentaneous, the benefits last long and have an impact also on the dimensions of stretch, on social connections and on the abilities which resist in the future” . In the medical field, the result of many researches seem to confirm how “good mood” can affect on the general state of the patient and support the healing of an organism after a disease, not only contributing in keeping it healthy. Recent studies in "Chemical Neurophysiology" have demonstrated, in fact, that some parts of the Brain, as the Locus Coeruleus , if appropriately stimulated by “positive” external environment factors for the psychic sphere of Men (as for example factors which provoke laughter) are capable of contrasting depressive states, emphasizing the release of particular chemical substances over others. Medical disciplines which study these phenomena are "PsychoNeuroImmunology" and the "NeuroPsychoEndocrinology" which deal with the circular interactions which come between the chemistry of an human organism and neurosciences, in function of the emotional state of Men. These areas of research are investigating for the actual possibility that the “Negative Emotions” have immunosuppressive effects, while, on the contrary, the “Positive emotions” have benefic effects on the whole state of psychophysical health of individuals, contributing to keep and efficient immunity system. Different techniques of emotion control have been developed, capable of regulating negative stress (distress). Obviously, in the development of base research applied to the development of Emotional Technologies , the interest is focused on those techniques which fall in the cognitive-behavioral area. Particularly, they focus on the so-called "Visualization Techniques": the ones based on the multidimensional conception of the Human Intelligence which defines the intelligence which defines the existence of different “Specialized Intelligences” . The visual intelligence, defined by Ian Robertson is one of those cognitive abilities connected to the capacity of Imagination, more or less developed in an individual. Experiences, so, can be “imagined”, and grouped in three main categories: the ones related to “sensory perceptions” (induced by one or more of the 5 senses); the ones connected to the “proprioceptive” and “kinesthetic”. Visual intelligence can be enhanced (in particular during the stages of development) and kept through a training induced by adequate stimuli amongst which we highlight the ones related to visual arts, music and sports. Recent studies, activated after the discovery of “Mirror Neurons” have offered the possibility of planning and experimenting the right techniques aimed to the pursue of the aforesaid aims, it has been demonstrated that those techniques of visualization can help contrasting negative experiences and emotions (which cause, so, “distress”) supplying the individual the experience of positive background. |
[1] Wiederhold B.K. : Direttore Virtual Reality Medical Institute, Belgio
[2] L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la Qualità della vita come uno stato multidimensionale dell’Individuo in cui il Benessere viene raggiunto non solo per l’assenza di malattie, piuttosto attraverso il perseguimento di un complessivo stato soggettivo di buona salute fisica, buono stato psicologico e buone relazioni sociali.
[3] Villani D., Grassi A. & Riva G. (2011), Tecnologie Emotive, Edizioni Universitarie LED.
[4] come riscontrato dagli esiti della ricerca empirica sulla “terapia del sorriso”.
[5] Un nucleo situato nel Tronco encefalico tra il Mesencefalo e ponte di Varolio. E’ stato osservato che questa parte del Cervello si attiva in modo particolare prima di ogni guarigione. Questo centro viene inattivato da stimoli monotoni e viene attivato da stimoli insoliti. È dimostrato che la stimolazione del Locus Caeuleus inneschi nell’organismo reazioni antidepressive. Locus coeruleus rilascia noradrenalina quando una serie di cambiamenti fisiologici sono attivati da un evento. La noradrenalina dal Locus coeruleus ha un effetto eccitatorio sulla maggior parte del cervello, attivando l'eccitazione e l'innesco dei neuroni. Le connessioni nervose di questo nucleo raggiungono il midollo spinale, il tronco cerebrale ,il cervelletto, l'ipotalamo, i nuclei relay del talamo, l'amigdala, la base del telencefalo, e la corteccia cerebrale. Attraverso le connessioni con la corteccia frontale e la corteccia temporale, il talamo e l'ipotalamo il Locus Coeruleus è coinvolto nella regolazione dell'attenzione, ciclo sonno-veglia, nell'apprendimento e nella percezione del dolore, nella genesi dell'ansia e nella regolazione dell'umore. Sono stati osservati altissimi addensamenti di Recettori oppioidi nel locus coeruleus, ed è stato studiato come sostanze psichedeliche ne potenzino l'eccitazione. Le sostanze allucinogene non fanno comunque eccitare spontaneamente i neuroni del locus coeruleus in assenza di stimoli sensoriali, per cui si può supporre che esse interagiscano con un insieme differente di neuroni che stabiliscono un contatto diretto con il locus. Poiché il locus coeruleus è un meccanismo a “imbuto” che integra tutti i messaggi sensoriali provenienti dagli organi di senso in un sistema unico di eccitazione generalizzato, la sua alterata eccitazione farà provare sensazioni che travalicano i confini delle differenti modalità percettive caratterizzando il fenomeno cosiddetto: Sinestesia.
[6] PNI: PsicoNeuroImmunologia. What is PsychoNeuroImmunology? It is the interaction between psychological process, nervous system and immune system, the interaction can occur 2 directions: psychology can affect immune system and immune system can affect psychology too; it is the interaction between body, brain and environment and the interaction between immune molecules, neuroendocrine and neurochemistry. “Research has indicated that an inextricable chemical link exists between our emotions, which includes all stress in our lives, both good and bad, and the regulatory systems of the endocrine and immune systems through the central nervous system. This research emphasises the importance of expressing our emotions both verbally and physically in an appropriate way. When strong emotions generate fear, anger or rage and these are not expressed in a healthy way then the body's natural response is that of the sympathetic nervous system as demonstrated in Cannon's research on homeostasis and the fight or flight syndrome. At this point, inappropriate storing of these stressful emotions produces an excess of epinephrine. This excess of epinephrine causes a chemical breakdown, resulting in internal weakening of the immune system and an increased potential for disease. “Negative emotions can intensify a variety of health threats. Research provide a broad framework relating negative emotions to a range of diseases whose onset and course may be influenced by the immune system; inflammation has been linked to a spectrum of conditions associated with aging, including cardiovascular disease, osteoporosis, arthritis, type 2 diabetes, certain cancers, Alzheimer's disease, frailty and functional decline, and periodontal disease. Production of proinflammatory cytokines that influence these and other conditions can be directly stimulated by negative emotions and stressful experiences. Additionally, negative emotions also contribute to prolonged infection and delayed wound healing, processes that fuel sustained proinflammatory cytokine production. Accordingly, “we argue [Kiecolt-Glaser J.K., McGuire L., Robles T.F., Glaser R. (2002) in “Emotions, morbidity, and mortality: new perspectives from psychoneuroimmunology”] that distress-related immune dysregulation may be one core mechanism behind a large and diverse set of health risks associated with negative emotions. Resources such as close personal relationships that diminish negative emotions enhance health in part through their positive impact on immune and endocrine regulation. It is reviewed [Guidi L., Tricerri A., Frasca D., Vangeli M., Errani A.R., Bartoloni C. (1998) in “Psychoneuroimmunology and aging”.] “the relationships between psychological stress and depression and immunological functions, with particular regard to those aspects pertinent to the aging process. The clinical relevance of these interactions remains to be elucidated, but the high frequency in the aged of autoimmune, infectious, and neoplastic diseases suggests to focus on the psychoneuroimmune interactions in the old age.” PNI, A scientific discipline which sees the human organism as a "whole", a network of connected processes, and not an ensemble of separated parts. Body and soul, an unique ensemble which can be influenced by the individual psychic identity and from the surrounding social, natural and cultural environments, activating biochemical processes which regulate the function of the organism, giving a state of comfort or discomfort. Inter alia, it has the merit of integrating a coherent vision with all of the latest scientific discoveries in the medical field. It is a continously and quickly evolving science, which discorvers more and more therapeutic tools. It is presenting, to the scientific community, incredible discoveries up to the possibility of motivating (for the agnostic) "miraculous healing". And behind these, which can appear as strangeness, we see the birth of more and more effective therapies, which are more and more often "natural". The PNI deals with a wide range view, it aims to analyze those phenomena, integrating the details of wider overview. Not only in the relations among system, cells and elctric and chemical messages, but also in the interactions between and the environment, It studies the healthy organism before it gets the disease, because the aim is to restore health.
[7]
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[2] L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la Qualità della vita come uno stato multidimensionale dell’Individuo in cui il Benessere viene raggiunto non solo per l’assenza di malattie, piuttosto attraverso il perseguimento di un complessivo stato soggettivo di buona salute fisica, buono stato psicologico e buone relazioni sociali.
[3] Villani D., Grassi A. & Riva G. (2011), Tecnologie Emotive, Edizioni Universitarie LED.
[4] come riscontrato dagli esiti della ricerca empirica sulla “terapia del sorriso”.
[5] Un nucleo situato nel Tronco encefalico tra il Mesencefalo e ponte di Varolio. E’ stato osservato che questa parte del Cervello si attiva in modo particolare prima di ogni guarigione. Questo centro viene inattivato da stimoli monotoni e viene attivato da stimoli insoliti. È dimostrato che la stimolazione del Locus Caeuleus inneschi nell’organismo reazioni antidepressive. Locus coeruleus rilascia noradrenalina quando una serie di cambiamenti fisiologici sono attivati da un evento. La noradrenalina dal Locus coeruleus ha un effetto eccitatorio sulla maggior parte del cervello, attivando l'eccitazione e l'innesco dei neuroni. Le connessioni nervose di questo nucleo raggiungono il midollo spinale, il tronco cerebrale ,il cervelletto, l'ipotalamo, i nuclei relay del talamo, l'amigdala, la base del telencefalo, e la corteccia cerebrale. Attraverso le connessioni con la corteccia frontale e la corteccia temporale, il talamo e l'ipotalamo il Locus Coeruleus è coinvolto nella regolazione dell'attenzione, ciclo sonno-veglia, nell'apprendimento e nella percezione del dolore, nella genesi dell'ansia e nella regolazione dell'umore. Sono stati osservati altissimi addensamenti di Recettori oppioidi nel locus coeruleus, ed è stato studiato come sostanze psichedeliche ne potenzino l'eccitazione. Le sostanze allucinogene non fanno comunque eccitare spontaneamente i neuroni del locus coeruleus in assenza di stimoli sensoriali, per cui si può supporre che esse interagiscano con un insieme differente di neuroni che stabiliscono un contatto diretto con il locus. Poiché il locus coeruleus è un meccanismo a “imbuto” che integra tutti i messaggi sensoriali provenienti dagli organi di senso in un sistema unico di eccitazione generalizzato, la sua alterata eccitazione farà provare sensazioni che travalicano i confini delle differenti modalità percettive caratterizzando il fenomeno cosiddetto: Sinestesia.
[6] PNI: PsicoNeuroImmunologia. What is PsychoNeuroImmunology? It is the interaction between psychological process, nervous system and immune system, the interaction can occur 2 directions: psychology can affect immune system and immune system can affect psychology too; it is the interaction between body, brain and environment and the interaction between immune molecules, neuroendocrine and neurochemistry. “Research has indicated that an inextricable chemical link exists between our emotions, which includes all stress in our lives, both good and bad, and the regulatory systems of the endocrine and immune systems through the central nervous system. This research emphasises the importance of expressing our emotions both verbally and physically in an appropriate way. When strong emotions generate fear, anger or rage and these are not expressed in a healthy way then the body's natural response is that of the sympathetic nervous system as demonstrated in Cannon's research on homeostasis and the fight or flight syndrome. At this point, inappropriate storing of these stressful emotions produces an excess of epinephrine. This excess of epinephrine causes a chemical breakdown, resulting in internal weakening of the immune system and an increased potential for disease. “Negative emotions can intensify a variety of health threats. Research provide a broad framework relating negative emotions to a range of diseases whose onset and course may be influenced by the immune system; inflammation has been linked to a spectrum of conditions associated with aging, including cardiovascular disease, osteoporosis, arthritis, type 2 diabetes, certain cancers, Alzheimer's disease, frailty and functional decline, and periodontal disease. Production of proinflammatory cytokines that influence these and other conditions can be directly stimulated by negative emotions and stressful experiences. Additionally, negative emotions also contribute to prolonged infection and delayed wound healing, processes that fuel sustained proinflammatory cytokine production. Accordingly, “we argue [Kiecolt-Glaser J.K., McGuire L., Robles T.F., Glaser R. (2002) in “Emotions, morbidity, and mortality: new perspectives from psychoneuroimmunology”] that distress-related immune dysregulation may be one core mechanism behind a large and diverse set of health risks associated with negative emotions. Resources such as close personal relationships that diminish negative emotions enhance health in part through their positive impact on immune and endocrine regulation. It is reviewed [Guidi L., Tricerri A., Frasca D., Vangeli M., Errani A.R., Bartoloni C. (1998) in “Psychoneuroimmunology and aging”.] “the relationships between psychological stress and depression and immunological functions, with particular regard to those aspects pertinent to the aging process. The clinical relevance of these interactions remains to be elucidated, but the high frequency in the aged of autoimmune, infectious, and neoplastic diseases suggests to focus on the psychoneuroimmune interactions in the old age.” PNI, A scientific discipline which sees the human organism as a "whole", a network of connected processes, and not an ensemble of separated parts. Body and soul, an unique ensemble which can be influenced by the individual psychic identity and from the surrounding social, natural and cultural environments, activating biochemical processes which regulate the function of the organism, giving a state of comfort or discomfort. Inter alia, it has the merit of integrating a coherent vision with all of the latest scientific discoveries in the medical field. It is a continously and quickly evolving science, which discorvers more and more therapeutic tools. It is presenting, to the scientific community, incredible discoveries up to the possibility of motivating (for the agnostic) "miraculous healing". And behind these, which can appear as strangeness, we see the birth of more and more effective therapies, which are more and more often "natural". The PNI deals with a wide range view, it aims to analyze those phenomena, integrating the details of wider overview. Not only in the relations among system, cells and elctric and chemical messages, but also in the interactions between and the environment, It studies the healthy organism before it gets the disease, because the aim is to restore health.
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Reference:
- Fredrickson B. L. (2001), The Role of Positive Emotion in Positive Psycology , The Broaden-and-Build-Theory of Positive Emotions; University of Michigan
- Fredrickson B. L. (2002), How Does Religion Benefit Health and Well-Being? Are Positive Emotions Active Ingredients?; Department of Psychology, University of Michigan
- Fredrickson B. L. (2009), Positivity; Crown Publisher New York
- Pressman, S. D. & Cohen, S. (2005), Does positive affect influence health?; Psychological Bulletin
- Pressman, S. D. & Cohen, S. (2006), Positive affect and health?; Current Direction in Psychological Science
- Villani D. , Grassi A., Riva G. (2011) , Tecnologie Emotive; Edizioni LED
- Wiederhold B. K. (2011), Preface Toward Emotional Technologies; edizioni LED
Neuroscienze Sociali
a cura di V.Dublino
La Neuroscienza Sociale è il campo accademico a carattere interdisciplinare dedicato a comprendere come i sistemi biologici implementano i processi sociali e del comportamento, e come queste strutture sociali e i processi sociali impattano il Cervello e la biologia dell’Organismo.
Un presupposto fondamentale alla base delle Neuroscienze Sociali è che tutto il comportamento sociale è implementato biologicamente.
Con il termine “Biologia della Socialità” ci si vuole riferire, dunque, a quelle teorie e a tutto ciò che emerge da quel nuovo campo di studi scientifici interdisciplinari che va sotto il nome di “Neuroscienze sociali”.
Poiché è un nuovissimo campo di studi, i campi d’interesse e i limiti delle Neuroscienze sociali non sono state ancora ben definiti. In linea di massima, la Società per le Neuroscienze Sociali (fondata nel 2010), definisce le "Neuroscienze Sociali come lo studio interdisciplinare dei meccanismi neurali, ormonali, cellulari e genetici alla base delle strutture emergenti che definiscono le Specie Sociali."
Questa nuova disciplina viene istituita nel campo delle Neuroscienze (finalmente diventata una disciplina matura), poiché sta diventando sempre più evidente che il sistema nervoso non può essere considerato come un'entità isolata, e i suoi meccanismi di funzionamento non possono essere studiati e compresi senza tenere in considerazione i contesti sociali in cui gli esseri umani e molte specie di animali vivono .
Oramai viene sempre più riconosciuto il notevole impatto del cervello e la funzione del corpo di strutture sociali che vanno dalle coppie, le famiglie, i quartieri e gruppi di città , le civiltà e le culture, le alleanze internazionali .
Questi fattori operano sull’Individuo attraverso un continua sollecitazione dei fattori neurali e neuroendocrini, sul metabolismo e su sistema immunitario che agiscono sul Cervello e sull’Organismo, in cui il Cervello è l' organo regolatore centrale dell’Organismo, ma anche un Soggetto influenzabile da questi fattori .
Per questo motivo, le Neuroscienze Sociali, indagano il sistema nervoso e le sue manifestazioni ai molti livelli che interagiscono con e su di esso: dalle molecole della Chimica organica alle Società. Le neuroscienze sociali riuniscono ed incrociano gli esiti di molteplici discipline e metodologie per definire le strutture emergenti che definiscono le specie sociali , in generale , e che sono alla base della salute umana e del comportamento , in particolare . Si sta assumendo che tali Studi sono essenziali per svelare questa complessità e potrebbero fornirci in futuro strumenti per contemplare il benessere futuro della vita sulla terra .
La missione della Società per le Neuroscienze Sociali, è quello di servire come luogo interdisciplinare ed internazionale di raccolta e di distribuzione delle Informazioni scientifiche in questo campo, avanzare e promuovere la formazione scientifica, la ricerca e le applicazioni sul campo per il bene del Genere Umano.
Un presupposto fondamentale alla base delle Neuroscienze Sociali è che tutto il comportamento sociale è implementato biologicamente.
Con il termine “Biologia della Socialità” ci si vuole riferire, dunque, a quelle teorie e a tutto ciò che emerge da quel nuovo campo di studi scientifici interdisciplinari che va sotto il nome di “Neuroscienze sociali”.
Poiché è un nuovissimo campo di studi, i campi d’interesse e i limiti delle Neuroscienze sociali non sono state ancora ben definiti. In linea di massima, la Società per le Neuroscienze Sociali (fondata nel 2010), definisce le "Neuroscienze Sociali come lo studio interdisciplinare dei meccanismi neurali, ormonali, cellulari e genetici alla base delle strutture emergenti che definiscono le Specie Sociali."
Questa nuova disciplina viene istituita nel campo delle Neuroscienze (finalmente diventata una disciplina matura), poiché sta diventando sempre più evidente che il sistema nervoso non può essere considerato come un'entità isolata, e i suoi meccanismi di funzionamento non possono essere studiati e compresi senza tenere in considerazione i contesti sociali in cui gli esseri umani e molte specie di animali vivono .
Oramai viene sempre più riconosciuto il notevole impatto del cervello e la funzione del corpo di strutture sociali che vanno dalle coppie, le famiglie, i quartieri e gruppi di città , le civiltà e le culture, le alleanze internazionali .
Questi fattori operano sull’Individuo attraverso un continua sollecitazione dei fattori neurali e neuroendocrini, sul metabolismo e su sistema immunitario che agiscono sul Cervello e sull’Organismo, in cui il Cervello è l' organo regolatore centrale dell’Organismo, ma anche un Soggetto influenzabile da questi fattori .
Per questo motivo, le Neuroscienze Sociali, indagano il sistema nervoso e le sue manifestazioni ai molti livelli che interagiscono con e su di esso: dalle molecole della Chimica organica alle Società. Le neuroscienze sociali riuniscono ed incrociano gli esiti di molteplici discipline e metodologie per definire le strutture emergenti che definiscono le specie sociali , in generale , e che sono alla base della salute umana e del comportamento , in particolare . Si sta assumendo che tali Studi sono essenziali per svelare questa complessità e potrebbero fornirci in futuro strumenti per contemplare il benessere futuro della vita sulla terra .
La missione della Società per le Neuroscienze Sociali, è quello di servire come luogo interdisciplinare ed internazionale di raccolta e di distribuzione delle Informazioni scientifiche in questo campo, avanzare e promuovere la formazione scientifica, la ricerca e le applicazioni sul campo per il bene del Genere Umano.
Source of information
http://s4sn.org/
Resources
- Vuoi sapere di più sulle Scienze Sociali nell'interesse Pubblico?
https://ccsn.sites.uchicago.edu/page/ccsn-resources
Narcissism on Facebook: Self-promotional and anti-social behavior
by Christopher J. Carpenter (*)
Abstract
A survey (N = 292) was conducted that measured self-promoting Facebook behaviors (e.g. posting status updates and photos of oneself, updating profile information) and several anti-social behaviors (e.g. seeking social support more than one provides it, getting angry when people do not comment on one’s status updates, retaliating against negative comments). The grandiose exhibitionism subscale of the narcissistic personality inventory was hypothesized to predict the self-promoting behaviors. The entitlement/exploitativeness subscale was hypothesized to predict the anti-social behaviors. Results were largely consistent with the hypothesis for the self-promoting behaviors but mixed concerning the anti-social behaviors. Trait self-esteem was also related in the opposite manner as the Narcissism scales to some Facebook behaviors.
1. Introduction
Facebook is one of the most popular websites in the world with over 600 million users (Ahmad, 2011). Those who use Facebook enjoy many benefits. Some college students use Facebook to seek and receive social support when they feel upset (Park et al., 2009 and Wright et al., 2007). Toma and Hancock’s (2011) recent experiments found when individuals are feeling distressed, they turn to Facebook to feel better. On the other hand, DeAndrea, Tong, and Walther (2011) argue that although online interaction provides opportunities for positive social interaction, some users abuse the affordances of social networking sites like Facebook to behave in anti-social ways. They argue that researchers need to move past seeking to determine if computer-mediated communication (CMC) has positive or negative effects as a whole but to determine why people use websites like Facebook in ways that promote or harm interpersonal relationships.
This study sought to take a step in that direction by examining one possible predictor of anti-social Facebook use: trait narcissism. The narcissistic personality type will first be briefly explicated. Then the existing research on the relationship between narcissism and Facebook use will be explored to develop hypotheses.
Investigating the relationship between narcissism and Facebook behavior is important because Facebook is becoming an increasingly important part of people’s lives. Several researchers have found a relationship between narcissism and frequency of using Facebook (Buffardi and Campbell, 2008, Mehdizadeh, 2010 and Ong et al., 2011). Other researchers found that narcissism is associated with the number of friends their participants have on Facebook (Bergman, Fearrington, Davenport, & Bergman, 2011). If these findings are accurate, it suggests that when people are interacting with others on Facebook, they are more likely to be interacting with individuals who are high in trait narcissism than in other contexts. If Facebook users are likely to be engaging in negative behaviors, the quality of the interpersonal interactions people experience on Facebook will be reduced. Furthermore, some research suggests that people are evaluated not just by their own profiles but by the comments others make on their profiles (Walther, Van Der Heide, Kim, Westerman, & Tong, 2008). The negative behavior of narcissists on Facebook may reflect poorly on the innocent friends of those narcissists. If the relationship between narcissism and various kinds of behaviors can be uncovered, perhaps interventions can be designed to improve the Facebook social skills of trait narcissists.
2. Narcissism
When they developed the narcissistic personality inventory (NPI), Raskin and Terry (1988) found a great deal of ambiguity in the personality literature concerning the primary aspects of narcissism. They therefore included a variety of heterogeneous traits in their conceptualization of narcissism. These included aspects such as “a grandiose sense of self-importance or uniqueness”, “an inability to tolerate criticism”, and “entitlement or the expectation of special favors without assuming reciprocal responsibilities” (p. 891).
This definition covers a constellation of concepts and the NPI sought to measure all of them as aspects of a single personality trait.
In contrast, Ackerman et al. (2011) argue that the NPI is really measuring three different traits. They claim that one of the aspects of narcissism measured by the NPI is leadership ability and that aspect is often associated with positive interpersonal outcomes. The leadership aspects of narcissism were not the focus of this investigation as they are associated with pro-social behavior. On the other hand, they argue that the NPI also includes two other aspects of narcissism that they discovered drive the relationship between narcissism and anti-social behavior. These traits were the focus of this investigation.
Ackerman et al. (2011) labeled the first socially toxic element, “Grandiose Exhibitionism” (GE). This aspect of narcissism includes “self-absorption, vanity, superiority, and exhibitionistic tendencies” (p. 6). People who score high on this aspect of narcissism need to constantly be at the center of attention. They say shocking things and inappropriately self-disclose because they cannot stand to be ignored. They will take any opportunity to promote themselves. Simply gaining the interest and attention of others satisfies them.
Attention is not enough for those who possess the other negative aspect of narcissism labeled, “Entitlement/Exploitativeness” (EE). Ackerman et al. (2011) argue this aspect includes “a sense of deserving respect and a willingness to manipulate and take advantage of others” (p. 6). This tendency goes beyond the need for attention associated with GE as people high in this trait are those who will feel they deserve everything. More importantly, these people do not let the feelings and needs of others impede their goals. Ackerman et al. (2011) found that participants with higher EE scores were increasingly likely to have negative interactions reported by their roommate and their roommate was more likely to be dissatisfied with their relationship.
3. Narcissism and Facebook
Examination of the interpersonal possibilities offered by Facebook as well as the limited extant research suggests several tentative hypotheses about Facebook behaviors and the two aspects of narcissism under investigation. Initially, individuals who are high in GE will want to gain the attention of the widest audience possible (Ackerman et al., 2011). Therefore, they are predicted to have a high friend count given their drive to seek attention from as many people as possible. If they are seeking a wider audience, they are also predicted to accept friend requests from strangers because they would be seeking an audience rather than using Facebook to engage in social interaction with existing friends. They may also attempt to gain the attention of their audience by frequently offering new content. Posting status updates, posting pictures of themselves, and changing their profile are all methods of using Facebook to focus attention on the self. These different aspects of providing content will be labeled self-promotion and as a group they are predicted to be positively associated with GE.
On the other hand, Ackerman et al. (2011) found that EE tended to be associated with anti-social behaviors that indicate that others should cater to the narcissist’s needs without any expectation of reciprocity. In the offline world, people high in EE might expect favors such as time, money, social support, and indications of respect from others. Although time and money might be harder to demand on Facebook, those high in EE should expect social support and respect. Some research suggests that many individuals who gain social support on Facebook feel less stress (Wright et al., 2007). Facebook users who are high in EE would be predicted to demand social support but be unlikely to provide it to others. They feel that others should support them when they are distressed, but they feel no duty to reciprocate.
There are several ways that those high in EE might expect to receive respect from their social network on Facebook. Those high on EE would be likely to use Facebook to determine what others are saying about them. They would be more likely to focus on the status updates from their network for the purpose of determining if their network is speaking as well of them as their inflated sense of self-importance would demand. Some research suggests that when someone high in trait narcissism is slighted, they aggressively retaliate (Bushman and Baumeister, 1998 and Twenge and Campbell, 2003). Ackerman et al. (2011) argue that EE is the subscale is the aspect of narcissism most associated with socially disruptive behaviors such as aggression. Therefore, EE is predicted to be associated with responding to negative comments from others with verbally aggressive responses. Finally, if the EE subscale is tapping into a trait that demands respect from others, they would also be predicted to become angry when they do not get the respect they feel they deserve. One way this might be expressed on Facebook would be becoming angry when others do not comment on their status updates. When people post status updates on Facebook, others have the opportunity to indicate agreement or praise their comments. Someone high in EE would become angry when they did not get this attention. These hypotheses were tested using a survey of Facebook users.
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A survey (N = 292) was conducted that measured self-promoting Facebook behaviors (e.g. posting status updates and photos of oneself, updating profile information) and several anti-social behaviors (e.g. seeking social support more than one provides it, getting angry when people do not comment on one’s status updates, retaliating against negative comments). The grandiose exhibitionism subscale of the narcissistic personality inventory was hypothesized to predict the self-promoting behaviors. The entitlement/exploitativeness subscale was hypothesized to predict the anti-social behaviors. Results were largely consistent with the hypothesis for the self-promoting behaviors but mixed concerning the anti-social behaviors. Trait self-esteem was also related in the opposite manner as the Narcissism scales to some Facebook behaviors.
1. Introduction
Facebook is one of the most popular websites in the world with over 600 million users (Ahmad, 2011). Those who use Facebook enjoy many benefits. Some college students use Facebook to seek and receive social support when they feel upset (Park et al., 2009 and Wright et al., 2007). Toma and Hancock’s (2011) recent experiments found when individuals are feeling distressed, they turn to Facebook to feel better. On the other hand, DeAndrea, Tong, and Walther (2011) argue that although online interaction provides opportunities for positive social interaction, some users abuse the affordances of social networking sites like Facebook to behave in anti-social ways. They argue that researchers need to move past seeking to determine if computer-mediated communication (CMC) has positive or negative effects as a whole but to determine why people use websites like Facebook in ways that promote or harm interpersonal relationships.
This study sought to take a step in that direction by examining one possible predictor of anti-social Facebook use: trait narcissism. The narcissistic personality type will first be briefly explicated. Then the existing research on the relationship between narcissism and Facebook use will be explored to develop hypotheses.
Investigating the relationship between narcissism and Facebook behavior is important because Facebook is becoming an increasingly important part of people’s lives. Several researchers have found a relationship between narcissism and frequency of using Facebook (Buffardi and Campbell, 2008, Mehdizadeh, 2010 and Ong et al., 2011). Other researchers found that narcissism is associated with the number of friends their participants have on Facebook (Bergman, Fearrington, Davenport, & Bergman, 2011). If these findings are accurate, it suggests that when people are interacting with others on Facebook, they are more likely to be interacting with individuals who are high in trait narcissism than in other contexts. If Facebook users are likely to be engaging in negative behaviors, the quality of the interpersonal interactions people experience on Facebook will be reduced. Furthermore, some research suggests that people are evaluated not just by their own profiles but by the comments others make on their profiles (Walther, Van Der Heide, Kim, Westerman, & Tong, 2008). The negative behavior of narcissists on Facebook may reflect poorly on the innocent friends of those narcissists. If the relationship between narcissism and various kinds of behaviors can be uncovered, perhaps interventions can be designed to improve the Facebook social skills of trait narcissists.
2. Narcissism
When they developed the narcissistic personality inventory (NPI), Raskin and Terry (1988) found a great deal of ambiguity in the personality literature concerning the primary aspects of narcissism. They therefore included a variety of heterogeneous traits in their conceptualization of narcissism. These included aspects such as “a grandiose sense of self-importance or uniqueness”, “an inability to tolerate criticism”, and “entitlement or the expectation of special favors without assuming reciprocal responsibilities” (p. 891).
This definition covers a constellation of concepts and the NPI sought to measure all of them as aspects of a single personality trait.
In contrast, Ackerman et al. (2011) argue that the NPI is really measuring three different traits. They claim that one of the aspects of narcissism measured by the NPI is leadership ability and that aspect is often associated with positive interpersonal outcomes. The leadership aspects of narcissism were not the focus of this investigation as they are associated with pro-social behavior. On the other hand, they argue that the NPI also includes two other aspects of narcissism that they discovered drive the relationship between narcissism and anti-social behavior. These traits were the focus of this investigation.
Ackerman et al. (2011) labeled the first socially toxic element, “Grandiose Exhibitionism” (GE). This aspect of narcissism includes “self-absorption, vanity, superiority, and exhibitionistic tendencies” (p. 6). People who score high on this aspect of narcissism need to constantly be at the center of attention. They say shocking things and inappropriately self-disclose because they cannot stand to be ignored. They will take any opportunity to promote themselves. Simply gaining the interest and attention of others satisfies them.
Attention is not enough for those who possess the other negative aspect of narcissism labeled, “Entitlement/Exploitativeness” (EE). Ackerman et al. (2011) argue this aspect includes “a sense of deserving respect and a willingness to manipulate and take advantage of others” (p. 6). This tendency goes beyond the need for attention associated with GE as people high in this trait are those who will feel they deserve everything. More importantly, these people do not let the feelings and needs of others impede their goals. Ackerman et al. (2011) found that participants with higher EE scores were increasingly likely to have negative interactions reported by their roommate and their roommate was more likely to be dissatisfied with their relationship.
3. Narcissism and Facebook
Examination of the interpersonal possibilities offered by Facebook as well as the limited extant research suggests several tentative hypotheses about Facebook behaviors and the two aspects of narcissism under investigation. Initially, individuals who are high in GE will want to gain the attention of the widest audience possible (Ackerman et al., 2011). Therefore, they are predicted to have a high friend count given their drive to seek attention from as many people as possible. If they are seeking a wider audience, they are also predicted to accept friend requests from strangers because they would be seeking an audience rather than using Facebook to engage in social interaction with existing friends. They may also attempt to gain the attention of their audience by frequently offering new content. Posting status updates, posting pictures of themselves, and changing their profile are all methods of using Facebook to focus attention on the self. These different aspects of providing content will be labeled self-promotion and as a group they are predicted to be positively associated with GE.
On the other hand, Ackerman et al. (2011) found that EE tended to be associated with anti-social behaviors that indicate that others should cater to the narcissist’s needs without any expectation of reciprocity. In the offline world, people high in EE might expect favors such as time, money, social support, and indications of respect from others. Although time and money might be harder to demand on Facebook, those high in EE should expect social support and respect. Some research suggests that many individuals who gain social support on Facebook feel less stress (Wright et al., 2007). Facebook users who are high in EE would be predicted to demand social support but be unlikely to provide it to others. They feel that others should support them when they are distressed, but they feel no duty to reciprocate.
There are several ways that those high in EE might expect to receive respect from their social network on Facebook. Those high on EE would be likely to use Facebook to determine what others are saying about them. They would be more likely to focus on the status updates from their network for the purpose of determining if their network is speaking as well of them as their inflated sense of self-importance would demand. Some research suggests that when someone high in trait narcissism is slighted, they aggressively retaliate (Bushman and Baumeister, 1998 and Twenge and Campbell, 2003). Ackerman et al. (2011) argue that EE is the subscale is the aspect of narcissism most associated with socially disruptive behaviors such as aggression. Therefore, EE is predicted to be associated with responding to negative comments from others with verbally aggressive responses. Finally, if the EE subscale is tapping into a trait that demands respect from others, they would also be predicted to become angry when they do not get the respect they feel they deserve. One way this might be expressed on Facebook would be becoming angry when others do not comment on their status updates. When people post status updates on Facebook, others have the opportunity to indicate agreement or praise their comments. Someone high in EE would become angry when they did not get this attention. These hypotheses were tested using a survey of Facebook users.
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References
- Ackerman, R. A., Witt, E. A., Donnellan, M. B., Trzesniewski, K. H., Robins, R. W., & Kashy, D. A. (2011). What does the narcissistic personality inventory really measure? Assessment, 18, 67–87.
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PERFORMANCE MUSICALE E RISONANZA EMPATICA di Alessandra Seggi L’intento di questo articolo è riflettere intorno al problema della performance musicale e di come questa attivi tanto nell’ascoltatore quanto nell’interprete una risonanza che coinvolge entrambi in una risonanza di tipo empatico. Questo processo d’interrelazione è stato ampiamente studiato ma in questa sede s’intende osservare la relazione interprete-ascoltatori seguendo i contributi offerti dalle recenti ricerche neuroscientifiche. L’espressione musicale ha da sempre fatto parte della comunicazione umana attraversando nei secoli modalità sonore socialmente e culturalmente condivise sia nelle forme che nelle specificità linguistiche. Fin qui niente di nuovo ma ciò che oggi le nuove ricerche scientifiche chiariscono è che non solo il prodotto musicale parla dell’epoca che lo ha prodotto ma rappresenta un punto importante di convergenza nella relazione umana intersoggettiva e sociale. Ciò che appare chiaro è la capacità della musica di evocare risonanze affettive e sensomotorie simili sia in chi ascolta che in chi suona. In quest’ottica fare così come ascoltare musica rappresentano due tipologie d’esperienza molto più simili fra loro di quanto si sarebbe potuto pensare. Perché si attiva questa risonanza fra interprete ed ascoltatore? La nostra condizione umana ci predispone alla necessità di stabilire relazioni con l’altro sia per confermare il nostro stesso esistere quanto per attivare una costruzione di sé che non potrebbe essere di natura autosufficiente. Così come il nostro essere sociale ci spinge a stabilire relazioni interpersonali positive promuovendo comportamenti prosociali in grado di rispondere a bisogni di tipo relazionali. Nel corso della propria esistenza l’uomo è insieme costruttore di un’identità collettiva quanto individuale all’interno della quale ritrovare una condivisione in grado di distinguerci in quanto esseri unici ma allo stesso tempo assimilarci agli altri come esseri appartenenti ad una comunità. La storia dell’evoluzione umana mostra come l’imitazione è il prerequisito di base per lo sviluppo di abilità sociali come comprendere l’emozioni esperite da altri proprio in virtù della capacità di rispecchiamento reciproco. Oggi sappiamo che il merito di queste straordinarie capacità risiede nel sistema dei neuroni specchio. Questi di fatto ci aiutano a ricostruire nel nostro cervello le intenzioni dell’altro permettendoci una comprensione profonda degli stati d’animo altrui. Questa modalità così connaturata con il nostro essere che si pone in continuo ascolto di sé e proiezione fuori da sé facilita notevolmente il comportamento sociale dell’essere umano. Ciò che si crea è un’interdipendenza del proprio sé con quello dell’altro in un rispecchiamento reciproco che costituisce il presupposto indispensabile alla costituzione di un processo d’ empatia. Ma cosa ha a che fare tutto questo con l’espressione musicale? Immaginiamoci una scena. Sono ad un concerto. Le luci si abbassano, in sala scende un silenzio carico di attesa, entra il direttore d’orchestra , applausi e poi di nuovo un silenzio ancora più denso; il direttore alza le braccia, respira ed in quell’attimo di grande concentrazione anche il mio respiro è sospeso fino all’attacco del suono. Perché tutto questo accade all’ascoltatore? E perché non accade solo agli interpreti? Ogni opera musicale si esprime sempre attraverso il corpo in azione è la dinamica del gesto che produce il suono coerente alla valenza espressiva manifesta. Proprio questa gestualità rappresenta il fulcro intorno al quale si costruisce una sintonizzazione capace di attivare anche in chi ascolta una condivisione simulata dell’esperienza stessa. Dagli studi compiuti in questi ultimi anni emerge chiaramente che la gestualità ed il linguaggio fanno parte di un unico sistema coerente. Del resto la gestualità precede lo sviluppo del linguaggio ed acquista una specifica valenza proprio nell’atto imitativo che rappresenta una prima forma di condivisione con l’altro. Gli studi sul sistema dei neuroni specchio hanno chiarito l’esistenza di un meccanismo neurale che mappa direttamente l’espressione delle azioni altrui sulla rappresentazione motoria delle stesse azioni presenti nel cervello dell’osservatore. I dati che emergono da questi studi mettono in evidenza la nostra capacità di entrare in risonanza con le azioni compiute dagli altri proprio perché i neuroni specchio si attivano sia quando compiamo un’azione sia quando la vediamo compiere da altri. Questo meccanismo di rispecchiamento, che coinvolge anche il nostro sistema motorio, dimostra che noi non solo vediamo con la parte visiva del cervello ma anche conil sistema motorio. “I neuroni specchio mappano in modo costitutivo una relazione tra agente e un oggetto: la semplice osservazione di un oggetto che non sia obiettivo di alcuna azione non evoca in essi alcuna risposta.” 1 “I neuroni specchio (…) sono alla base, prima ancora che l’imitazione, del riconoscimento e della comprensione del significato degli “eventi motori” ossia degli atti degli altri”. 2 Tali meccanismi di rispecchiamento sono presenti nell’atto musicale in termini di simulazione come al momento dell’apprendimento di tecniche specifiche tipo ditegggiature o articolazioni ma anche durante l’esecuzione di un brano chi ascolta è realmente parte attiva del processo sonoro che si compie nel momento. La base comune è rappresentata dalla capacità di sintonizzarsi empaticamente all’intenzionalità espressiva dell’atto musicale. Un’ espressività mostrata sia nella pratica interpretativa quanto nella gestualità dell’interprete. E’ così che sentirò vivere in me un coinvolgimento fisico quasi come se fossi in prima persona a suonare in quel momento, come se guardare ed ascoltare mi permettesse di esperire fisicamente sensazioni fisiche coerenti a ciò che si mostra. Alla luce di queste premesse è lecito ipotizzare che esista un linguaggio espressivo all’interno del quale esecutore ed ascoltatore generalmente concordano. L’idea sonora espressa dell’interprete prende forma non solo sul piano uditivo ma anche su quello gestuale in una coerenza capace di rinforzare l’idea espressiva nel suo presentarsi. Attraverso l’atto esecutivo il musicista rende leggibili le relazioni che si stabiliscono all’interno di un’ idea musicale. Tali atti sono anche la causa diretta sia della qualità espressiva sia della qualità sonora del risultato acustico nel suo insieme. L’esecuzione è così il risultato di un’interazione tra un piano di pensiero, ciò che si vuole ottenere, e ed un sistema flessibile di programmazione gestuale, atta ad ottenerlo. Alla luce di queste osservazioni possiamo considerare l’oggetto artistico come un atto di natura sociale capace di evocare risonanze di natura senso-motoria ed affettiva in colui che ascolta al pari di colui che realmente suona. La natura intersoggettiva della performance musicale si rivela nella capacità di rappresentazione mimetica di chi ascolta e quindi partecipa, anche involontariamente all’atto musicale nel suo complesso. “L’espressività è un tratto fondamentale dell’immediatezza mediata e corrisponde, tanto quanto la strumentalità o l’obiettività del sapere, alla tensione da compensare continuamente e all’intreccio tra corpo ed essere e corpo e avere. L’espressività è un modo originario per venire a capo del fatto di abitare in un corpo e contemporaneamente di avere un corpo.” 3 Ma allora da dove nasce questa consonanza tra interprete ed ascoltatore? C’è una modalità di risonanza comune tra gli individui nella fruizione artistica? Gli studi di neuroestetica si occupano proprio di indagare in questa direzione individuando possibili standard di percezione universale in grado di svelare la natura dei piaceri estetici che rileviamo davanti ad un’opera d’arte analizzando le conoscenze psicofisiche e neurocognitive proprie della parte visiva del cervello. Oggi questa ricerca è ampliata da studiosi quali V. Gallese e D. Freedberg che propongono di concentrare l’attenzione sui fenomeni che si producono a livello corporeo durante la contemplazione di opere visive. In particolare sull’osservazione dei meccanismi neuronali che assecondano il potere empatico delle immagini. Queste ricerche mostrano come la simulazione incarnata ed i sentimenti empatici generati dalle immagini svolgano un compito molto preciso durante la contepmlazione di opere d’arte. L’idea è che ci sia una sorta d’immedesimazione da parte dell’osservatore nella gestualità propria della produzione di un’opera d’arte, una specie d’imitazione fisica ed interiore della gestualità espressa visivamente. Queste ricerche hanno dimostrato che tanto la simulazione incarnata quanto il sistema senso-motorio risultano coinvolti nel riconoscimento delle emozioni e sensazioni espresse dagli altri proprio perché permettono la ricostruzione di cosa proveremmo in una particolare emozione mediante la simulazione dello stesso stato corporeo. Se questo accade nell’esperienza visiva si potrebbe immaginare uno stesso tipo di rispecchiamento anche nella pratica sonora tra interprete ed ascoltatore. Una simulazione dell’ascoltatore come se lui stesso prendesse parte attiva, fin dai neuroni, nella performance musicale. In parte questo accade già nel momento in cui il pubblico re-interpreta ad ogni ascolto l’opera in oggetto rinnovandone e attualizzandone continuamente il senso ma in questo caso non si tratterebbe di un’operazione squisitamente intellettuale-emozionale ma attraverso la simulazione incarnata si assisterebbe a ben altra tipologia di rispecchiamento. Se queste ricerche troveranno riscontro anche nell’ambito musicale si apriranno nuove prospettive di studio sulla natura del rispecchiamento fra interprete e pubblico e forse potremo guardare, con gli occhi della scienza, alla performance musicale da una prospettiva naturale ed universalmente condivisa tra individui magari non solo della stessa specie. | MUSICAL PERFORMANCE AND EMPATHIC RESONANCE by Alessandra Seggi The aim of this article is to think about the problem of the musical performance and how this can active in such a profound way, either in the listener and in the “actor”, which involves both in an empathic resonance. This interrelation process has been deeply studied but here we want to observe the relation between performer and listener following the contribution offered the recent neuro-scientific research. The musical expression has always been part of the human communication during history, crossing sound modes which have been socially and culturally shared both in their shapes and language specificity. Nothing new up to this point, but what is cleared by the modern scientific research is not only that the music product speaks about the age during which it is produced, but it also represents an important convergence point in the social and cross-subject human relation. What's clear to see is the capability of music to evoke affective and sensorimotor resonances similar to the ones evoked by the ones who play the music. In this view, making and listening to music represent two types of experience which are mutually similar, even more than what could be expected. Why does this resonance amongst player and listener gets activated? Our human condition makes us feel the need to establish relation between each others both to confirm our existence and to activate a self construction which couldn't be naturally self-contained. The same, our social being encourages us to establish positive interpersonal relations promoting pro-social capable of a positive feedback to relational needs. During its own existence, man is the building domain of a collective and meanwhile individual identity inside of which we can find a sharing, capable of underlining our being unique but at the same time assimilating us to other beings belonging to other communities. The history of human revolution shows how imitation is the basic requirement for the development of social abilities such as comprehending the emotions transmitted by others, exactly for this innate mirroring capability. Today we know that all of this extraordinary capacities lays in the system of mirror neurons. These actually help us rebuild in our brain the intentions of others, allowing us a deep comprehension of other people's moods. This mode, tightly connected with our being which is continuously listening and project itself, eases the social behavior of the human being. The result is an interdependence of one's own ego with others', in a mutual mirroring which builds the essential assumption to the built of an empathy process. But what’s the connection between all of this and the musical expression? Let's try to imagine. I'm in a concert. Light go down, the room falls in a waiting silence, the director of the orchestra comes in, applause and then again an even deeper silence; the director raises his arms, breathes and in that moment of great concentration even my own breath is broken until the sound starts. Why all of this happens to the listener and not only to the musicians? Each musical work is always expressed through the acting body, it is the dynamics of the movement which produces the sound, which is coherent to the shown expressive valence. From the studies made on the object in the last years, it clearly emerged that the gestures and the language are part of an unique coherent system. Inter alia the gesture precedes the development of language and acquires a specific valence especially in the imitation act which represents a first form of sharing with others. The study of the mirror neurons system have cleared the existence of a neural mechanisms which directly maps the expression of others' actions over the motor representation of the same actions which are found in the brain of the observer. The data which emerge from these studies show that our capacity of getting in resonance with the actions made by others exactly because the mirror neurons are activated both when we act and when we SEE action. This mirroring mechanism, which also involves our motor system, demonstrates that we not only see with the visual part of the brain, but also with the motor part. "Mirror neurons constructively map the relations between an agent and an object: the simple observation of an object which is not the subject of an action does not evoke any response". "Mirror neurons (...) are the fundament, even before imitation, of the recognition and comprehension of the meaning of 'motor events', which are the actions pf others". The mirroring mechanisms are present in the musical act in terms of simulation as in the moment of the learning of specific techniques such as articulation, but also in the execution of a track, and who listens is really an active part of the sound process which is happening in the specific moment. The common ground is represented by the capacity of empathically tuning to the expressive intentionality of the musical action. An expressivity which is shown both in the interpreting practice and in the gesture of the player. It is in this way that I'll feel a physical involvement as if I were playing the instrument myself, as if looking an listening could allow me to try physical sensations which are coherent with what's shown. It is possible at this stage to hypothesize the existence of an expressive language in which executer and listener generally accord. The sound idea expressed by the executer gets shaped not only on an auditory basis, but also on a gesture one in a coherence which is capable of reinforcing the expressive idea in its unveiling. Through the execution act, the musician makes the relations which happen in a musical idea visible. These acts are the direct cause of either of the expressive quality and of the sound quality of the acoustic result in its ensemble. The execution is the result of an interaction between thought and a flexible system of gesture planning. After these observations, we can consider the artistic object as a social act capale of evoking sense-motor resonances in the people whom listen and in the same way in who produces. The inter-subjective nature of music performance is revealed in the camouflage representation of who listens and, so, participates to the musical act itself. "Expressivity is a fundamental characteristic of the mediated out-rightness and corresponds to the tension to continuously offset and to the interlacement between body-and-being and body-and-wanting. The expressivity is an original way to solve the question of living in a body and having a body". So: where does the consonance between player and listener start from? Is there a common resonance amongst the individuals involved in artistic fruition? The neuro-esthetical studies deal with the detection of possible standards of universal perception, capable of unveiling the nature of the aesthetic pleasure which we feel in front of an artwork analyzing the psychophysical and neurocognitive knowledge own of the visual part of the brain. Today, this research is being expanded by researchers such as V. Gallese and D. Freedberg which propose to focus on the phenomena which are produced on the body during the contemplation of visual artworks. Especially on the observation of neuron mechanisms which accommodate the empathic power of images. These researches show how empathic simulation and feelings generated by the images perform a very specific task during the contemplation of artworks. The idea is there might be a sort of physical involvement from the visually expressed gesture. These researches have demonstrated that both simulation and sense-motor system are involved in the recognition of emotions and feelings expressed by others precisely because they allow the reconstruction of what we would feel in a specific emotion through the stimulation of the body status If this happens in the visual experience, we could imagine a similar mirroring also in the sound practice between interpreter and listener. A simulation of a listener as if he were taking an active part, from the neurons, in a music performance. The already happens partly in the moment in which the audience re-elaborates, during each fruition, the work renewing and actualizing continuously its sense, but in this case it will not only be and exclusively intellectual-emotional operation, but through the incarnated simulation we'll see a brand new type of mirroring. If these researches will be replied also in the music field, we'll attend the opening of new study perspectives about the mirroring between audience and interpreter and maybe we'll be able to see, through the science eyes, the music performance by a natural perspective which will be universally shared between the individuals, whom might not belong to the same species. |
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Notes:
1 Gallese, 2008, p. 21
2 Rizzolati, Sinigaglia,2006, p. 94-96
3 Plessner,2007, p. 78.
11/2/2010
Towards a digital Cinema in Italy. Cinema is essentially an Industry di V.Dublino
Read NowTowards a digital Cinema in Italy
Cinema is essentially an industry
di Vittorio Dublino
Cinema is essentially an industry
di Vittorio Dublino
Cinema was originally created as a technical mean: the cinematographer.
After some time, an artistic intuition was added to the technical side, giving birth to the so-called Seventh Art.
Its dual nature kept going peacefully for some time, although technological innovation wasn't always welcome by its artists and authors. However it is the actual innovation of technology that is a fundamental aspect for the evolution of cinema, sometimes even helping it to reborn after its worst periods of crisis.
Cinema is the only art that constantly changes, because it contains within itself all the other arts (music, painting, writing, etc.), supported by the always growing technology following new scientific discoveries.
Considered by historians as the greatest technical and aesthetic improvements interesting the seventh art, the advent of sound and colour was initially a shock for film workers used to black and white and no sound. However, after a while these new inventions were essential to model what we presently know as the industry of dreams.
The same phenomenon is happening at the present time with digital.
On one hand it is changing the way of shooting, threatening the long life of film stock. On the other hand it supports the film shooting and the artist's creativity by innovating the post-production process up to the point that the two separate phases of production and post-production will be joined together in the near future.
But the future is already the present!
Although post-production is considered as a single process of the whole production, in constant change since the beginning of the digital era, in Italy (and in other culturally outdated countries with no consideration for the digital means) post-production is merely considered as an accessory to complete the work.
Thanks to computer graphics, Cinema began to gain the possibility of going beyond reality, gaining the ability to create “things” that it would normally be possible to achieve with the aid of extremely expensive conventional means, often limiting the authors' creativity.
With the release of James Cameron's “Avatar”, 2010 is the year of the definitive revolution. Digital is officially integrated into Cinema.
Techniques, technology, means and processes involved in production have definitely changed. With the introduction of virtual cameras and simul-cam technology for the application of augmented reality [1], we barely understand the boundaries between production and post-production.
Starting from this point, cinema can gain brand new creative life, bringing into the industry new themes such as the binomial: science fiction and philosophy, as well as impossible and unlikely film characters.
This coincides with the need for a technique for ideas and contents, not the other way round.
But this is only a primordial phase. The concept of post-production, therefore the concept of Cinema, is already moving on.
Almost seventy years ago, René Barjavel, in his essay “Cinéma Total” (1944), theorised about “cinema as a mean capable of introducing us to fully realistic characters entering our homes. A cinema that will not replace traditional arts but instead will use them as communication in which images are transported by waves: this will happen in a world where millions of spectators can enjoy a show of sounds, colours and scents.”
Some statements by Barjavel on Total Cinema, seem to prophesy the path where cinema is heading with the advent of digital: “…it will be completed when it will be able to bring us three-dimensional, coloured and maybe even scented characters; when these characters will step out from the screen and from darkness and will start walking in our own homes and public places.”
This is not about a cinema based on flat realism tending to “represent to perfection a father's moustache”, but it is a sum of all the arts joined together. It is a cinema made of colours and sounds, but not based on dialogues. Words are not the only sounds in Barjavel's point of view. Dialogues destroy the sounds. It is a three-dimensional cinema, even if Barjavel cannot figure out what technology is capable of such skills. He theorises about solid images made of “waves”. He thinks of replacing the screen with a “waves' screen”, and by saying so he is not far from the theory of holographic cinema.
James Cameron will in fact be known as the first screenwriter and director of digital thought! His first creation is totally thought and realised digitally, confirming Barjavel's prophecy.
Barjavel was blamed for emphasising technology's role instead of the work of the author. Instead he criticises those who step back horrific because of “mental laziness” in front of new technological inventions such as colour and three-dimensions. It is not a mere enhancement of technology itself, because the French writer notices the great power that cinema would gain from it.
Power would be the first quality: total cinema, powerful as a “ten ton tractor”, can demolish “the physical world of bodies and things and enter it with its double fantasy”. Total cinema plays with reality. It will make use “of these misleading materialistic appearances in order to carry the spectator into the world of illusion, of absurd, of marvellous”.
It is really worth quoting another paragraph of his essay: “Animals, men, objects, the entire world with all of its creatures, and all of its dreams, all of the wonderful or horrendous living beings that can be generated by the imagination of poets, will come to life in front of the spectator. They will swarm about next to him, around him, shining, making noises, vivacious, real and yet they disappear. Colour will materialise in vortex, in veils, in volumes, in explosions. All the blue from the sky will suddenly slip into the virgin's eye. From the heart of a rose, clouds of spring will rise. Sound will be real, words will explode, trumpets will open galleries made of brass, the nightingale's song will dance in multicoloured flames. Real volume will give to total cinema its last chances, which will go further that the craziest surrealist mind...”
We get the impression that criticisms of Barjavel's theory seem to be present in many people. But we're convinced that this is only due to the cultural gap created by new technologies.
Total cinema takes up again Wagner's concept of the “Gesamtkunstwerk”, which consists in the unification of single arts “in the monadic perfection of an independent language”.
Wagner states that “only revolution (…) can give us back that supreme work of art”, which from his point of view was taken from Greek Theatre, intended as a multimedia example, uniting singing, recital, movements and images. Greek Theatre, which can be defined as 'total', was also one of the first examples of research for interaction, ending in catharsis, in the collective effect of purification.
In cinema “the creation of the image is historically and technically accidental”. Total cinema aims for a complete recreation of sensitive experiences that the spectator has to feel while at the same time changing its role, implying a strong emotional movement: in other words, it is the effort of reaching “Interaction”.
The inevitable advent of digital in both cinema and television, from the first pioneering experiments with holography to the recent commercial achievements with films shot in stereoscopy with 3D cameras, but most of all the other future scientific achievements about to come into the audio-visual in general, are all aiming to the real third dimension, moving us closer to this final goal.
This is another essential aspect of the constant mutation of the technological means, viewed by many experts as: a shift from the two-dimensional recent commercial cinema to three-dimensional technology, could even bring our brain to a more realistic assimilation of images, consequentially amplifying emotions and self-identification.
Today's cinema seems to be at a turning point. Over the last few years cinema is going through a declaration of its own death, or at least of its unease, because of both an economic crisis (caused by the constant threat posed by television, home video and internet) and a lack of contents. This applies in particular to Italian cinema.
Because of this situation, some directors are today hoping in the use of digital technology.
They also wish that the application of digital will help the film industry grow, thanks to a progressive cooperation between cinema and new media. The tendency is leading to a conversion into digital of all phases of film production, also according to many of the production companies with which we are working at the moment.
All hopes and criticisms are related to the use of digital technology in the film shooting and post-production phases.
The boundaries of digital production give us two options: shooting almost in a traditional manner (new means suggest different ways of realising a film), using digital cameras instead of film cameras, or directly creating images on a computer without the need for re-acting real events, using virtual spaces and characters.
The history of the so-called “digital cinema”, a definition which is still hazy, is fairly recent and studies on the subject are currently just a few.
Today's definition of “digital cinema” generically involves all those films produced with digital means such as cameras or computers. Therefore the images that belong to it are virtual. The discussion on digital is therefore a complex theme which needs clarification and differentiation: it has to be kept safe from “misbelief” and stereotypes.
Nevertheless every study on digital is destined to quickly become obsolete.
Supporters and detractors of the new technology are today in favour or against technical, economical and aesthetic innovations brought by it. While those who are engaged in studying its characteristics and evolution are trying to predict, through a more profound analysis, what new scenarios lie ahead for “digital cinema”.
[1] Augmented Reality: definition of emerging applications able to enrich the public's physical space through the mix of virtual images and real footage. The visualised reality will then be “augmented”, through digitally created synthetic data added to real world images. These technologies are used in many other sectors of society such as the Health-care system (e.g. Telemedicine, surgery, radiological), archaeology, aeronautical industry and national defence [e.g. Military training through Virtually Simulated Enviroments (scenarios) played in real life places].
After some time, an artistic intuition was added to the technical side, giving birth to the so-called Seventh Art.
Its dual nature kept going peacefully for some time, although technological innovation wasn't always welcome by its artists and authors. However it is the actual innovation of technology that is a fundamental aspect for the evolution of cinema, sometimes even helping it to reborn after its worst periods of crisis.
Cinema is the only art that constantly changes, because it contains within itself all the other arts (music, painting, writing, etc.), supported by the always growing technology following new scientific discoveries.
Considered by historians as the greatest technical and aesthetic improvements interesting the seventh art, the advent of sound and colour was initially a shock for film workers used to black and white and no sound. However, after a while these new inventions were essential to model what we presently know as the industry of dreams.
The same phenomenon is happening at the present time with digital.
On one hand it is changing the way of shooting, threatening the long life of film stock. On the other hand it supports the film shooting and the artist's creativity by innovating the post-production process up to the point that the two separate phases of production and post-production will be joined together in the near future.
But the future is already the present!
Although post-production is considered as a single process of the whole production, in constant change since the beginning of the digital era, in Italy (and in other culturally outdated countries with no consideration for the digital means) post-production is merely considered as an accessory to complete the work.
Thanks to computer graphics, Cinema began to gain the possibility of going beyond reality, gaining the ability to create “things” that it would normally be possible to achieve with the aid of extremely expensive conventional means, often limiting the authors' creativity.
With the release of James Cameron's “Avatar”, 2010 is the year of the definitive revolution. Digital is officially integrated into Cinema.
Techniques, technology, means and processes involved in production have definitely changed. With the introduction of virtual cameras and simul-cam technology for the application of augmented reality [1], we barely understand the boundaries between production and post-production.
Starting from this point, cinema can gain brand new creative life, bringing into the industry new themes such as the binomial: science fiction and philosophy, as well as impossible and unlikely film characters.
This coincides with the need for a technique for ideas and contents, not the other way round.
But this is only a primordial phase. The concept of post-production, therefore the concept of Cinema, is already moving on.
Almost seventy years ago, René Barjavel, in his essay “Cinéma Total” (1944), theorised about “cinema as a mean capable of introducing us to fully realistic characters entering our homes. A cinema that will not replace traditional arts but instead will use them as communication in which images are transported by waves: this will happen in a world where millions of spectators can enjoy a show of sounds, colours and scents.”
Some statements by Barjavel on Total Cinema, seem to prophesy the path where cinema is heading with the advent of digital: “…it will be completed when it will be able to bring us three-dimensional, coloured and maybe even scented characters; when these characters will step out from the screen and from darkness and will start walking in our own homes and public places.”
This is not about a cinema based on flat realism tending to “represent to perfection a father's moustache”, but it is a sum of all the arts joined together. It is a cinema made of colours and sounds, but not based on dialogues. Words are not the only sounds in Barjavel's point of view. Dialogues destroy the sounds. It is a three-dimensional cinema, even if Barjavel cannot figure out what technology is capable of such skills. He theorises about solid images made of “waves”. He thinks of replacing the screen with a “waves' screen”, and by saying so he is not far from the theory of holographic cinema.
James Cameron will in fact be known as the first screenwriter and director of digital thought! His first creation is totally thought and realised digitally, confirming Barjavel's prophecy.
Barjavel was blamed for emphasising technology's role instead of the work of the author. Instead he criticises those who step back horrific because of “mental laziness” in front of new technological inventions such as colour and three-dimensions. It is not a mere enhancement of technology itself, because the French writer notices the great power that cinema would gain from it.
Power would be the first quality: total cinema, powerful as a “ten ton tractor”, can demolish “the physical world of bodies and things and enter it with its double fantasy”. Total cinema plays with reality. It will make use “of these misleading materialistic appearances in order to carry the spectator into the world of illusion, of absurd, of marvellous”.
It is really worth quoting another paragraph of his essay: “Animals, men, objects, the entire world with all of its creatures, and all of its dreams, all of the wonderful or horrendous living beings that can be generated by the imagination of poets, will come to life in front of the spectator. They will swarm about next to him, around him, shining, making noises, vivacious, real and yet they disappear. Colour will materialise in vortex, in veils, in volumes, in explosions. All the blue from the sky will suddenly slip into the virgin's eye. From the heart of a rose, clouds of spring will rise. Sound will be real, words will explode, trumpets will open galleries made of brass, the nightingale's song will dance in multicoloured flames. Real volume will give to total cinema its last chances, which will go further that the craziest surrealist mind...”
We get the impression that criticisms of Barjavel's theory seem to be present in many people. But we're convinced that this is only due to the cultural gap created by new technologies.
Total cinema takes up again Wagner's concept of the “Gesamtkunstwerk”, which consists in the unification of single arts “in the monadic perfection of an independent language”.
Wagner states that “only revolution (…) can give us back that supreme work of art”, which from his point of view was taken from Greek Theatre, intended as a multimedia example, uniting singing, recital, movements and images. Greek Theatre, which can be defined as 'total', was also one of the first examples of research for interaction, ending in catharsis, in the collective effect of purification.
In cinema “the creation of the image is historically and technically accidental”. Total cinema aims for a complete recreation of sensitive experiences that the spectator has to feel while at the same time changing its role, implying a strong emotional movement: in other words, it is the effort of reaching “Interaction”.
The inevitable advent of digital in both cinema and television, from the first pioneering experiments with holography to the recent commercial achievements with films shot in stereoscopy with 3D cameras, but most of all the other future scientific achievements about to come into the audio-visual in general, are all aiming to the real third dimension, moving us closer to this final goal.
This is another essential aspect of the constant mutation of the technological means, viewed by many experts as: a shift from the two-dimensional recent commercial cinema to three-dimensional technology, could even bring our brain to a more realistic assimilation of images, consequentially amplifying emotions and self-identification.
Today's cinema seems to be at a turning point. Over the last few years cinema is going through a declaration of its own death, or at least of its unease, because of both an economic crisis (caused by the constant threat posed by television, home video and internet) and a lack of contents. This applies in particular to Italian cinema.
Because of this situation, some directors are today hoping in the use of digital technology.
They also wish that the application of digital will help the film industry grow, thanks to a progressive cooperation between cinema and new media. The tendency is leading to a conversion into digital of all phases of film production, also according to many of the production companies with which we are working at the moment.
All hopes and criticisms are related to the use of digital technology in the film shooting and post-production phases.
The boundaries of digital production give us two options: shooting almost in a traditional manner (new means suggest different ways of realising a film), using digital cameras instead of film cameras, or directly creating images on a computer without the need for re-acting real events, using virtual spaces and characters.
The history of the so-called “digital cinema”, a definition which is still hazy, is fairly recent and studies on the subject are currently just a few.
Today's definition of “digital cinema” generically involves all those films produced with digital means such as cameras or computers. Therefore the images that belong to it are virtual. The discussion on digital is therefore a complex theme which needs clarification and differentiation: it has to be kept safe from “misbelief” and stereotypes.
Nevertheless every study on digital is destined to quickly become obsolete.
Supporters and detractors of the new technology are today in favour or against technical, economical and aesthetic innovations brought by it. While those who are engaged in studying its characteristics and evolution are trying to predict, through a more profound analysis, what new scenarios lie ahead for “digital cinema”.
[1] Augmented Reality: definition of emerging applications able to enrich the public's physical space through the mix of virtual images and real footage. The visualised reality will then be “augmented”, through digitally created synthetic data added to real world images. These technologies are used in many other sectors of society such as the Health-care system (e.g. Telemedicine, surgery, radiological), archaeology, aeronautical industry and national defence [e.g. Military training through Virtually Simulated Enviroments (scenarios) played in real life places].
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Le nuove frontiere del marketing relazionale
estratto ed adattamento da: Societing, il marketing nella società post-moderna, G.P. Fabris [*]
II marketing relazionale non e certo nuovo: se ne parla ormai da molti anni.
Il rischio è che, nella traduzione a livello della prassi e nelle finalità che lo ispirano, finisca per assumere i caratteri di una parodia, stravolgendo il modo in cui dovrebbe realmente manifestarsi: per le finalità che si è posto e per i metodi adottati.
Dovrebbe invece costituire il più tangibile attestato di un profondo ripensamento su come rapportarsi al consumatore, del divenire l'impresa soggetto relazionale, dell'emergere di nuovi paradigmi; un ripensamento di come relazionarsi con il consumatore, disincantato ma demanding, della cultura postmoderna.
II marketing relazionale non dovrebbe avere le sembianze di una sorta di ultima spiaggia da presidiare dopo che i canali tradizionali di incentivazione delle vendite cominciano a dare vistosi segni di stanchezza vedi la diffusa convinzione che i media tradizionali, e in particolare le grandi televisioni generaliste che assorbivano tanta parte degli investimenti pubblicitari, non siano in grado di entrare in sintonia con i nuovi scenari.
Ancor meno dovrebbe esaurirsi nel customer care o in attività di cross/up selling o, divenire sinonimo, ma anche degrado, di attività di retention e/o di fidelizzazione.
Gummeson, osserva: «il concetto di marketing e comunemente espresso col "cliente al centro".
Tale espressione è diventata uno slogan diffuso, ma compreso e attuato solo da pochi. A volte viene percepito solo come una moda da seguire o, ancora, come un astuto trucco per ingannare il Consumatore».
La centralità del consumatore, di cui appunto il marketing relazionale dovrebbe rappresentare la più espressiva risposta, è divenuta ormai una sorta di assioma.
Di essa si parla sempre più frequentemente e non c'è ormai evento, in cui si discuta di mercati e strategie, che non vi si faccia riferimento.
E’ ormai, per l'impresa, una sorta di mantra da recitare sempre pia spesso: per autoreferenzialità, perché lo fanno i competitor, perché è comunque considerato doveroso e politicamente corretto.
Eppure è difficile scorgerne poi, a livello della prassi aziendale, contenuti conseguenti, tanto da far pensare, mutatis mutandis, a una versione rivisitata di quella "sovranità del consumatore" che ha popolato tante generazioni di volumi di economia.
Quando, sin dai tempi di Smith e di Ricardo, si proclaamava “the consumer is King”: un ossequio formale, un enunciato nobile da cui non deriva alcuna reale discontinuità con una prassi che, invece, ha sempre considerato il consumatore come suddito.
La differenza però, rispetto al passato, è sostanziale: nella società che si va avviando al postmoderno il Consumatore ha davvero sviluppato un reale potere e, soprattutto, ne va prendendo consapevolezza.
Manifesta una crescente insofferenza nei confronti delle tradizionali pratiche del marketing e della pubblicità e insoddisfazione verso molte delle proposte del mercato.
Per alcune scelte avverte disagio nei confronti della serialità.
La reverenza e subalternità psicologica nei confronti di chi produce e vende appartiene alla cultura della modernità e sempre più il consumatore esprime un'autonomia di giudizio, una competenza, una discrezionalità di scelta the non trovano riscontro nelle sue precedenti biografie.
Il recente emergere di un economia low cost e il grande negozio virtuale che è divenuto Internet hanno probabilmente svolto una funzione maieutica e accelerato la grande trasformazione già in atto.
Un consumatore che ha più potere anche perché ha accesso a canali sempre più diversificati come contenuti, utilizza informazioni in modo nuovo e partecipa alle conversazioni producendo contenuti.
«La centralità del consumatore, scrivono Farinet e Ploncher, dovrebbe, a rigor di logica, tradursi in una costante attenzione della società civile alla realizzazione delle aspettative di quest’ultimo e alla tutela dei relativi interessi... Il consumatore, viceversa, e stato relegato a essere controparte passiva di un gioco condotto dalle imprese attraverso le proprie politiche distributive... Il nuovo consumatore si rende conto di ciò, si riappropria della sua volontà decisionale e rivaluta il potere di cui è depositario... egli quindi non si limita a ricevere in modo passivo quanto le imprese riversano sul mercato, bensì riveste di connotazioni critiche il proprio consumo».
Si ha la sensazione che la grande maggioranza delle imprese non sia ancora culturalmente attrezzata per comprendere il reale nuovo significato e la virtuale discontinuità con il passato, che non abbiano cioè inteso la rivoluzione culturale che implica la transizione da un orientamento al marketing (che caratterizza i comportamenti di impresa nell'epoca della modernità) all'orientamento al consumatore che e coevo alla transizione al postmoderno.
Una rilettura storica dell’evoluzione delle imprese, scandisce il divenire dell'impresa moderna in quattro grandi fasi.
All'inizio vi è l’orientamento al prodotto: la tensione e tutta rivolta a produrre per far fronte a una domanda crescente. Il primato è, fino in fondo, attribuito alla produzione.
A questa fase segue un lungo periodo storico caratterizzato dall' orientamento alia vendita. Si è soliti individuare nella grande crisi del '29 l'ingresso in questa nuova fase, quando, in maniera drammatica, emersero i rischi della sovra produzione e l'esigenza di dedicare alla stimolazione delle vendite non meno energie rispetto a quelle rivolte alla produzione. La provocazione che «è più importante assicurarsi un mercato che possedere una fabbrica» comincia a comparire sul frontespizio dei primi volumi sulla nascente “arte del vendere”.
Se, nella fase precedente, il motto era vendere tutto ciò che si riesce a produrre adesso vi e un capovolgimento di prospettiva: produrre tutto ciò che si riesce a vendere.
Vendere a tutti costi, vendere il più possibile, in una prospettiva temporale tutta rivolta al presente: questo atteggiamento caratterizza una lunga stagione di interventi dell'impresa sui mercati.
Le evidenze della miopia insita nell'assoluto primato delle vendite; il pericolo di pregiudicare successivi riacquisti forzando la mano al consumatore; la prospettiva, tutta azienda/centrica, di questo tipo di approccio introducono quasi fisiologicamente il passaggio a una nuova fase, che, appunto, è detta dell' orientamento al marketing e che comincia a prendere corpo almeno fra i paesi industriali avanzati, di cui allora l'Italia non faceva parte, negli anni Cinquanta.
La vendita rappresenta, naturalmente, ancora un fine ma non può essere che la risultante di un lungo processo. Non e più "l'arte del vendere", ma l'applicazione di una nuova scienza (appunto il marketing codificato dall’economista Kotler) a sollecitare la domanda mediante complessi interventi, che vanno dalla ricerca sul consumatore alle strategie distributive, dalle problematiche del prezzo alla gestione delle moderne tecniche per stimolare le vendite.
Forse, in primis, nella creazione e nel controllo su basi scientifiche della pubblicità.
L'attività di vendita, per essere efficace e per non esaurirsi, come nella precedente fase, nel presente, non può che rappresentare il momento terminale di un'accorta regia che va, appunto, sotto il nome di marketing.
L'orientamento al marketing condiziona l'intero processo produttivo ponendosi soprattutto a valle e solo parzialmente a monte, di questo e utilizza in maniera consapevole tutte le leve di cui dispone il marketing mix: per creare le condizioni più favorevoli e più efficaci per la vendita.
Questa fase (che costituisce tutt’oggi ancora un punto di arrivo, un obiettivo per molte imprese almeno nel nostro paese) viene superata da un'ulteriore evoluzione: quella caratterizzata dall'orientamento al consumatore.
Molti hanno difficoltà a comprenderne la natura perché la considerano sinonimo del precedente orientamento.
Eppure la differenza c'è, ed è profonda!
L'orientamento al marketing è ancora tutto ispirato da una visione endogena all'impresa, tipica della fase della modernità e della cultura industriale.
E’ certamente vero che esistono i consumatori a cui rapportarsi, ma questi sono percepiti più come terra di conquista che come polo dialettico, come reali interlocutori dell'impresa.
L'orientamento al consumatore postula invece il primato della soddisfazione dei bisogni del consumatore, la sua nuova centralità.
Non e una motivazione etica a indurlo e neppure e successo che l'impresa si sia improvvisamente trasformata in una sorta di Fatina dai Capelli Turchini. E’ solo l'unica risposta possibile a fronte di un consumatore che ha ormai terminato il suo periodo di apprendistato e che manifesta una crescente impazienza di vedersi riconosciuto in un nuovo ruolo.
Il marketing, che dovrebbe costituire lo strumento elettivo per adeguarsi al nuovo contesto, appare prigioniero di filosofie e strategie di intervento elaborate nell'epoca che lo ha visto nascere e che ha celebrato i suoi successi.
«Le relazioni tra clienti e fornitori - scrive Gummesson - sono alla base del marketing.
Nell'attuale concezione del marketing management, il marketing e ridotto a scambi impersonali attraverso la produzione e la distribuzione di massa.
Il produttore offre prodotti e servizi tramite un intermediario e il cliente corrisponde denaro.
Il Produttore e anche il Dettagliante sono visti come mere marche, e potrebbero essere completamente anonimi per il consumatore che, a sua volta, e considerato come una statistica.
Risulta evidente che l'approccio al marketing, appena descritto, non è adeguato all'attuale realtà della società» .
Il marketing relazionale, se interpretato nella sua complessità, può invece costituire la risposta più coerente con la transizione d'epoca: una nuova concezione del marketing rivolta a costruire relazioni, a modificare l'attuale perdurante asimmetria tra domanda e offerta proponendosi, nei confronti del cliente, in un'ottica di rapporto di lungo periodo: «e di rapporto allargato e interattivo secondo cui lo scambio non riguarda solo merce contro denaro ma anche conoscenza, che viaggia dall'impresa al cliente e dal cliente all'impresa».
Oggi l'impresa si deve confrontare con un consumatore che dimostra maggiore discrezionalità nelle scelte e che si sta scordando di antiche subalternità e soggezioni.
L'ormai inarrestabile declino della fedeltà alla marca rappresenta una tangibile testimonianza di ciò.
Il consumatore percepisce di avere un maggiore potere contrattuale nei confronti delle imprese e intende avvalersene fino in fondo.
Orientamento al consumatore significa anzitutto capacita d'ascolto reale, che eviti di recepire soltanto ciò che interessa sapere e in maniera disattenta.
L'ascolto e la premessa per intessere un dialogo, per interrompere quel monologo che dura da sempre e che oggi appare improponibile. L'impresa non è attrezzata per recepire voci reali, ma solo un rumorio di fondo, poco intelligibile; la voce del consumatore si dissolve in insiemi statistici di dati.
Ascolto e attenzione nuova implicano anche rispetto per il consumatore, che è già una modalità di risposta: rispetto significa accettare che abbia istanze specifiche e diverse dalle proprie, riconoscimento dell'alterità, rinuncia a gridare più forte: non significa deferenza.
Orientamento al Consumatore significa capacita di soddisfare i bisogni, i desideri, le attese di questo nuovo protagonista dei mercati, adeguando alle sue richieste, manifeste o latenti, le caratteristiche tangibili e intangibili dei prodotti.
Risolvendo, al tempo stesso, il vasto campionario di problemi che sovente l'uso dei prodotti comporta, il che, in altre parole, significa anche capacità di incorporare nei prodotti quote crescenti di servizio
Ma anche, e forse soprattutto, instaurando un dialogo, una relazione con lui. L'attributo "relazionale" riferito al marketing, il passaggio cioè dall'epoca della transazione a quella della relazione coglie in parte questa esigenza.
Sta emergendo un consumatore che esprime istanze crescenti di personalizzazione dei prodotti, sempre meno incline a dedicare interesse a proposte pensate per un pubblico anonimo indifferenziato.
Il marketing relazionale, se correttamente interpretato, implica davvero una rivoluzione copernicana: trasforma il consumatore, tradizionalmente considerato in termini di passività (a cui vendere, da studiare), in soggetto con cui dialogare realmente e non in senso metaforico.
Centralità del consumatore nel marketing relazionale vuol dire customer knowledge management, cioè portare il consumatore all'interno dell'impresa, coinvolgerlo nella co-creazione.
Significa quindi non solo capacità di ascolto con metodi completamente diversi rispetto al passato ma utilizzazione delle competenze che questi ha maturato. Significa coinvolgerlo attivamente nella progettazione di beni e servizi, richiedere una sua cooperazione nei processi di comunicazione, farlo partecipare realmente a tutte le fasi significative della filiera, fornirgli prodotti finali non serializzati, non pensati per un consumatore anonimo ma rispettosi delle singole individualità.
La reale nuova frontiera del marketing vede oggi l'engagement del consumatore, il suo attivo coinvolgimento in molte funzioni con una intelligenza strategica, tesa a rinunciare a “hortum clausum” in cui sino ad adesso era confinata, per cogliere in un reale processo di coevoluzione gli straordinari apporti che un coinvolgimento reciproco, sugli stessi progetti e piani di lavoro, può generare.
L'esigenza di disintermediare il più possibile la lunga filiera, che ha collocato il consumatore distante dall'impresa finendo per oscurarne la visione, deve essere comunque realmente, consapevolmente, perseguita e privilegiata.
Forse l'apologo di Maometto e la montagna deve trovare applicazione nel marketing relazionale: in questo contesto e più la montagna impresa a recarsi da Maometto consumatore, invertendo i percorsi tradizionali.
L'obiettivo di conoscenza non è più quello, ortodosso, di studiare, di vivisezionare il consumatore alla stregua di un entomologo che studia i coleotteri, ma di apprendere da lui ( con una sorta di open source marketing): chi utilizza quotidianamente beni e servizi in contesti tanto differenti (vale dire il consumatore finale) ha sviluppato capacità critiche su livelli di conoscenza e di competenza sovente superiori a quelli dell'impresa stessa: molto spesso un consumatore ne sa molto più di un commesso che tenta di vendergli un prodotto!
Si tratta comunque, al di la di queste elaborazioni che sono ancora allo stato nascente, di iniziare a pensare in un modo nuovo, di instaurare, come alcune imprese lungimiranti vanno inziando a fare, nuove modalità di dialogo e di rapportarsi al consumatore su un piano di maggiore simmetria, in un flusso orizzontale e non più verticistico partente dall’alto, dove il consumatore, deve poter aver opportunità di divenire ConsumaATTORE.
Non e un gioco di parole ma un vero capovolgimento di prospettiva: il consumatore diviene appunto attore, partner per l'impresa.
In questa concezione il marketing tradizionale con le sue patetiche 4 P (nessuna delle quali chiama esplicitamente in causa il consumatore) si disvela come equivalente dell'economia fordista.
In una fase di orientamento al consumatore, scrive Giaretta «la competitività dell'impresa viene allora a formarsi non solo nei termini di risolvere direttamente i problemi del consumatore, ma anche di tutelarne i diritti all'informazione, alla sicurezza, alla liberta di scelta, all'ascolto, alla qualità promessa e alla parità di trattamento. Bisogna comunque tenere sempre presente, per evitare pericolose fughe in avanti, che il cambiamento intervenuto nel consumatore non e poi cosi prorompente da fargli assumere sempre un ruolo attivo nel rapporto con l'impresa … »
Il rischio è che, nella traduzione a livello della prassi e nelle finalità che lo ispirano, finisca per assumere i caratteri di una parodia, stravolgendo il modo in cui dovrebbe realmente manifestarsi: per le finalità che si è posto e per i metodi adottati.
Dovrebbe invece costituire il più tangibile attestato di un profondo ripensamento su come rapportarsi al consumatore, del divenire l'impresa soggetto relazionale, dell'emergere di nuovi paradigmi; un ripensamento di come relazionarsi con il consumatore, disincantato ma demanding, della cultura postmoderna.
II marketing relazionale non dovrebbe avere le sembianze di una sorta di ultima spiaggia da presidiare dopo che i canali tradizionali di incentivazione delle vendite cominciano a dare vistosi segni di stanchezza vedi la diffusa convinzione che i media tradizionali, e in particolare le grandi televisioni generaliste che assorbivano tanta parte degli investimenti pubblicitari, non siano in grado di entrare in sintonia con i nuovi scenari.
Ancor meno dovrebbe esaurirsi nel customer care o in attività di cross/up selling o, divenire sinonimo, ma anche degrado, di attività di retention e/o di fidelizzazione.
Gummeson, osserva: «il concetto di marketing e comunemente espresso col "cliente al centro".
Tale espressione è diventata uno slogan diffuso, ma compreso e attuato solo da pochi. A volte viene percepito solo come una moda da seguire o, ancora, come un astuto trucco per ingannare il Consumatore».
La centralità del consumatore, di cui appunto il marketing relazionale dovrebbe rappresentare la più espressiva risposta, è divenuta ormai una sorta di assioma.
Di essa si parla sempre più frequentemente e non c'è ormai evento, in cui si discuta di mercati e strategie, che non vi si faccia riferimento.
E’ ormai, per l'impresa, una sorta di mantra da recitare sempre pia spesso: per autoreferenzialità, perché lo fanno i competitor, perché è comunque considerato doveroso e politicamente corretto.
Eppure è difficile scorgerne poi, a livello della prassi aziendale, contenuti conseguenti, tanto da far pensare, mutatis mutandis, a una versione rivisitata di quella "sovranità del consumatore" che ha popolato tante generazioni di volumi di economia.
Quando, sin dai tempi di Smith e di Ricardo, si proclaamava “the consumer is King”: un ossequio formale, un enunciato nobile da cui non deriva alcuna reale discontinuità con una prassi che, invece, ha sempre considerato il consumatore come suddito.
La differenza però, rispetto al passato, è sostanziale: nella società che si va avviando al postmoderno il Consumatore ha davvero sviluppato un reale potere e, soprattutto, ne va prendendo consapevolezza.
Manifesta una crescente insofferenza nei confronti delle tradizionali pratiche del marketing e della pubblicità e insoddisfazione verso molte delle proposte del mercato.
Per alcune scelte avverte disagio nei confronti della serialità.
La reverenza e subalternità psicologica nei confronti di chi produce e vende appartiene alla cultura della modernità e sempre più il consumatore esprime un'autonomia di giudizio, una competenza, una discrezionalità di scelta the non trovano riscontro nelle sue precedenti biografie.
Il recente emergere di un economia low cost e il grande negozio virtuale che è divenuto Internet hanno probabilmente svolto una funzione maieutica e accelerato la grande trasformazione già in atto.
Un consumatore che ha più potere anche perché ha accesso a canali sempre più diversificati come contenuti, utilizza informazioni in modo nuovo e partecipa alle conversazioni producendo contenuti.
«La centralità del consumatore, scrivono Farinet e Ploncher, dovrebbe, a rigor di logica, tradursi in una costante attenzione della società civile alla realizzazione delle aspettative di quest’ultimo e alla tutela dei relativi interessi... Il consumatore, viceversa, e stato relegato a essere controparte passiva di un gioco condotto dalle imprese attraverso le proprie politiche distributive... Il nuovo consumatore si rende conto di ciò, si riappropria della sua volontà decisionale e rivaluta il potere di cui è depositario... egli quindi non si limita a ricevere in modo passivo quanto le imprese riversano sul mercato, bensì riveste di connotazioni critiche il proprio consumo».
Si ha la sensazione che la grande maggioranza delle imprese non sia ancora culturalmente attrezzata per comprendere il reale nuovo significato e la virtuale discontinuità con il passato, che non abbiano cioè inteso la rivoluzione culturale che implica la transizione da un orientamento al marketing (che caratterizza i comportamenti di impresa nell'epoca della modernità) all'orientamento al consumatore che e coevo alla transizione al postmoderno.
Una rilettura storica dell’evoluzione delle imprese, scandisce il divenire dell'impresa moderna in quattro grandi fasi.
All'inizio vi è l’orientamento al prodotto: la tensione e tutta rivolta a produrre per far fronte a una domanda crescente. Il primato è, fino in fondo, attribuito alla produzione.
A questa fase segue un lungo periodo storico caratterizzato dall' orientamento alia vendita. Si è soliti individuare nella grande crisi del '29 l'ingresso in questa nuova fase, quando, in maniera drammatica, emersero i rischi della sovra produzione e l'esigenza di dedicare alla stimolazione delle vendite non meno energie rispetto a quelle rivolte alla produzione. La provocazione che «è più importante assicurarsi un mercato che possedere una fabbrica» comincia a comparire sul frontespizio dei primi volumi sulla nascente “arte del vendere”.
Se, nella fase precedente, il motto era vendere tutto ciò che si riesce a produrre adesso vi e un capovolgimento di prospettiva: produrre tutto ciò che si riesce a vendere.
Vendere a tutti costi, vendere il più possibile, in una prospettiva temporale tutta rivolta al presente: questo atteggiamento caratterizza una lunga stagione di interventi dell'impresa sui mercati.
Le evidenze della miopia insita nell'assoluto primato delle vendite; il pericolo di pregiudicare successivi riacquisti forzando la mano al consumatore; la prospettiva, tutta azienda/centrica, di questo tipo di approccio introducono quasi fisiologicamente il passaggio a una nuova fase, che, appunto, è detta dell' orientamento al marketing e che comincia a prendere corpo almeno fra i paesi industriali avanzati, di cui allora l'Italia non faceva parte, negli anni Cinquanta.
La vendita rappresenta, naturalmente, ancora un fine ma non può essere che la risultante di un lungo processo. Non e più "l'arte del vendere", ma l'applicazione di una nuova scienza (appunto il marketing codificato dall’economista Kotler) a sollecitare la domanda mediante complessi interventi, che vanno dalla ricerca sul consumatore alle strategie distributive, dalle problematiche del prezzo alla gestione delle moderne tecniche per stimolare le vendite.
Forse, in primis, nella creazione e nel controllo su basi scientifiche della pubblicità.
L'attività di vendita, per essere efficace e per non esaurirsi, come nella precedente fase, nel presente, non può che rappresentare il momento terminale di un'accorta regia che va, appunto, sotto il nome di marketing.
L'orientamento al marketing condiziona l'intero processo produttivo ponendosi soprattutto a valle e solo parzialmente a monte, di questo e utilizza in maniera consapevole tutte le leve di cui dispone il marketing mix: per creare le condizioni più favorevoli e più efficaci per la vendita.
Questa fase (che costituisce tutt’oggi ancora un punto di arrivo, un obiettivo per molte imprese almeno nel nostro paese) viene superata da un'ulteriore evoluzione: quella caratterizzata dall'orientamento al consumatore.
Molti hanno difficoltà a comprenderne la natura perché la considerano sinonimo del precedente orientamento.
Eppure la differenza c'è, ed è profonda!
L'orientamento al marketing è ancora tutto ispirato da una visione endogena all'impresa, tipica della fase della modernità e della cultura industriale.
E’ certamente vero che esistono i consumatori a cui rapportarsi, ma questi sono percepiti più come terra di conquista che come polo dialettico, come reali interlocutori dell'impresa.
L'orientamento al consumatore postula invece il primato della soddisfazione dei bisogni del consumatore, la sua nuova centralità.
Non e una motivazione etica a indurlo e neppure e successo che l'impresa si sia improvvisamente trasformata in una sorta di Fatina dai Capelli Turchini. E’ solo l'unica risposta possibile a fronte di un consumatore che ha ormai terminato il suo periodo di apprendistato e che manifesta una crescente impazienza di vedersi riconosciuto in un nuovo ruolo.
Il marketing, che dovrebbe costituire lo strumento elettivo per adeguarsi al nuovo contesto, appare prigioniero di filosofie e strategie di intervento elaborate nell'epoca che lo ha visto nascere e che ha celebrato i suoi successi.
«Le relazioni tra clienti e fornitori - scrive Gummesson - sono alla base del marketing.
Nell'attuale concezione del marketing management, il marketing e ridotto a scambi impersonali attraverso la produzione e la distribuzione di massa.
Il produttore offre prodotti e servizi tramite un intermediario e il cliente corrisponde denaro.
Il Produttore e anche il Dettagliante sono visti come mere marche, e potrebbero essere completamente anonimi per il consumatore che, a sua volta, e considerato come una statistica.
Risulta evidente che l'approccio al marketing, appena descritto, non è adeguato all'attuale realtà della società» .
Il marketing relazionale, se interpretato nella sua complessità, può invece costituire la risposta più coerente con la transizione d'epoca: una nuova concezione del marketing rivolta a costruire relazioni, a modificare l'attuale perdurante asimmetria tra domanda e offerta proponendosi, nei confronti del cliente, in un'ottica di rapporto di lungo periodo: «e di rapporto allargato e interattivo secondo cui lo scambio non riguarda solo merce contro denaro ma anche conoscenza, che viaggia dall'impresa al cliente e dal cliente all'impresa».
Oggi l'impresa si deve confrontare con un consumatore che dimostra maggiore discrezionalità nelle scelte e che si sta scordando di antiche subalternità e soggezioni.
L'ormai inarrestabile declino della fedeltà alla marca rappresenta una tangibile testimonianza di ciò.
Il consumatore percepisce di avere un maggiore potere contrattuale nei confronti delle imprese e intende avvalersene fino in fondo.
Orientamento al consumatore significa anzitutto capacita d'ascolto reale, che eviti di recepire soltanto ciò che interessa sapere e in maniera disattenta.
L'ascolto e la premessa per intessere un dialogo, per interrompere quel monologo che dura da sempre e che oggi appare improponibile. L'impresa non è attrezzata per recepire voci reali, ma solo un rumorio di fondo, poco intelligibile; la voce del consumatore si dissolve in insiemi statistici di dati.
Ascolto e attenzione nuova implicano anche rispetto per il consumatore, che è già una modalità di risposta: rispetto significa accettare che abbia istanze specifiche e diverse dalle proprie, riconoscimento dell'alterità, rinuncia a gridare più forte: non significa deferenza.
Orientamento al Consumatore significa capacita di soddisfare i bisogni, i desideri, le attese di questo nuovo protagonista dei mercati, adeguando alle sue richieste, manifeste o latenti, le caratteristiche tangibili e intangibili dei prodotti.
Risolvendo, al tempo stesso, il vasto campionario di problemi che sovente l'uso dei prodotti comporta, il che, in altre parole, significa anche capacità di incorporare nei prodotti quote crescenti di servizio
Ma anche, e forse soprattutto, instaurando un dialogo, una relazione con lui. L'attributo "relazionale" riferito al marketing, il passaggio cioè dall'epoca della transazione a quella della relazione coglie in parte questa esigenza.
Sta emergendo un consumatore che esprime istanze crescenti di personalizzazione dei prodotti, sempre meno incline a dedicare interesse a proposte pensate per un pubblico anonimo indifferenziato.
Il marketing relazionale, se correttamente interpretato, implica davvero una rivoluzione copernicana: trasforma il consumatore, tradizionalmente considerato in termini di passività (a cui vendere, da studiare), in soggetto con cui dialogare realmente e non in senso metaforico.
Centralità del consumatore nel marketing relazionale vuol dire customer knowledge management, cioè portare il consumatore all'interno dell'impresa, coinvolgerlo nella co-creazione.
Significa quindi non solo capacità di ascolto con metodi completamente diversi rispetto al passato ma utilizzazione delle competenze che questi ha maturato. Significa coinvolgerlo attivamente nella progettazione di beni e servizi, richiedere una sua cooperazione nei processi di comunicazione, farlo partecipare realmente a tutte le fasi significative della filiera, fornirgli prodotti finali non serializzati, non pensati per un consumatore anonimo ma rispettosi delle singole individualità.
La reale nuova frontiera del marketing vede oggi l'engagement del consumatore, il suo attivo coinvolgimento in molte funzioni con una intelligenza strategica, tesa a rinunciare a “hortum clausum” in cui sino ad adesso era confinata, per cogliere in un reale processo di coevoluzione gli straordinari apporti che un coinvolgimento reciproco, sugli stessi progetti e piani di lavoro, può generare.
L'esigenza di disintermediare il più possibile la lunga filiera, che ha collocato il consumatore distante dall'impresa finendo per oscurarne la visione, deve essere comunque realmente, consapevolmente, perseguita e privilegiata.
Forse l'apologo di Maometto e la montagna deve trovare applicazione nel marketing relazionale: in questo contesto e più la montagna impresa a recarsi da Maometto consumatore, invertendo i percorsi tradizionali.
L'obiettivo di conoscenza non è più quello, ortodosso, di studiare, di vivisezionare il consumatore alla stregua di un entomologo che studia i coleotteri, ma di apprendere da lui ( con una sorta di open source marketing): chi utilizza quotidianamente beni e servizi in contesti tanto differenti (vale dire il consumatore finale) ha sviluppato capacità critiche su livelli di conoscenza e di competenza sovente superiori a quelli dell'impresa stessa: molto spesso un consumatore ne sa molto più di un commesso che tenta di vendergli un prodotto!
Si tratta comunque, al di la di queste elaborazioni che sono ancora allo stato nascente, di iniziare a pensare in un modo nuovo, di instaurare, come alcune imprese lungimiranti vanno inziando a fare, nuove modalità di dialogo e di rapportarsi al consumatore su un piano di maggiore simmetria, in un flusso orizzontale e non più verticistico partente dall’alto, dove il consumatore, deve poter aver opportunità di divenire ConsumaATTORE.
Non e un gioco di parole ma un vero capovolgimento di prospettiva: il consumatore diviene appunto attore, partner per l'impresa.
In questa concezione il marketing tradizionale con le sue patetiche 4 P (nessuna delle quali chiama esplicitamente in causa il consumatore) si disvela come equivalente dell'economia fordista.
In una fase di orientamento al consumatore, scrive Giaretta «la competitività dell'impresa viene allora a formarsi non solo nei termini di risolvere direttamente i problemi del consumatore, ma anche di tutelarne i diritti all'informazione, alla sicurezza, alla liberta di scelta, all'ascolto, alla qualità promessa e alla parità di trattamento. Bisogna comunque tenere sempre presente, per evitare pericolose fughe in avanti, che il cambiamento intervenuto nel consumatore non e poi cosi prorompente da fargli assumere sempre un ruolo attivo nel rapporto con l'impresa … »
[*] Giampaolo Fabris, sociologo, professore ordinario di Sociologia dei Consumi e creazione e gestione della marca.
Investire sulla Responsabilità Sociale
a cura di V.Dublino
con la collaborazione di I. Simonelli & D. Varsalona
Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Suor Orsola Benincasa
Settimana di riflessioni:
“Media, Cultura & Società: promuovere valori culturali e spirituali nella Società dell’Informazione”
con la collaborazione di I. Simonelli & D. Varsalona
Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Suor Orsola Benincasa
Settimana di riflessioni:
“Media, Cultura & Società: promuovere valori culturali e spirituali nella Società dell’Informazione”
Definizione
Per Responsabilità Sociale d'Impresa, “RSI”, (o Corporate Social Responsibility, CSR) si intende l'integrazione di preoccupazioni di natura etica all'interno della visione strategica d'impresa: è una manifestazione della volontà delle grandi, piccole e medie imprese di gestire efficacemente le problematiche d'impatto sociale ed etico al loro interno e nelle zone di attività.
Per Responsabilità Sociale d'Impresa, “RSI”, (o Corporate Social Responsibility, CSR) si intende l'integrazione di preoccupazioni di natura etica all'interno della visione strategica d'impresa: è una manifestazione della volontà delle grandi, piccole e medie imprese di gestire efficacemente le problematiche d'impatto sociale ed etico al loro interno e nelle zone di attività.
“In un tempo in cui il settore finanziario e commerciale sta prendendo sempre più coscienza del bisogno di solide pratiche etiche, che assicurino che l'attività imprenditoriale rimanga sensibile alla sua dimensione fondamentalmente umana e sociale. Poiché la ricerca del profitto non è l'unico fine di tale attività, il Vangelo sfida gli imprenditori e le imprenditrici a esprimere rispetto sia per la dignità sia per la creatività dei loro dipendenti e dei loro clienti, nonché per le esigenze del bene comune. A livello personale, essi sono chiamati a sviluppare virtù importanti come «la diligenza, la laboriosità, la prudenza nell'assumere i ragionevoli rischi, l'affidabilità e la fedeltà nei rapporti interpersonali, la fortezza nell'esecuzione di decisioni difficili e dolorose» (Centesimus annus, n. 32). In un mondo tentato da visioni consumistiche e materialiste, gli imprenditori sono chiamati ad affermare la priorità dell'«essere» sull'«avere»”[1].
[1] Papa Giovanni Paolo II, Conferenza su «L'imprenditore: responsabilità sociale e globalizzazione», Dal Vaticano, 3 marzo 2004.
[1] Papa Giovanni Paolo II, Conferenza su «L'imprenditore: responsabilità sociale e globalizzazione», Dal Vaticano, 3 marzo 2004.
La Responsabilità Sociale d’Impresa può essere considerata come un valore aggiunto per il profitto delle aziende e per il benessere della società?
Introduzione
Negli ultimi anni abbiamo assistito all’evoluzione del concetto di “servizio pubblico” da una prospettiva soggettiva (in cui il servizio è considerato tale in quanto l’ente che lo elargisce è pubblico) ad una oggettiva che si focalizza sul tipo di servizio al di là del soggetto che lo fornisce [1]. Ciò è sancito a livello giuridico dall’articolo 41, comma 3 della Costituzione italiana che afferma: “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La dimensione sociale quindi non è più solo prerogativa dello Stato e delle sue istituzioni, ma anche degli enti privati come imprese e associazioni [2]. E’ proprio per questo che si può parlare di una Responsabilità Sociale d’Impresa.
Oltre a ciò bisogna considerare come la globalizzazione, l’integrazione dei mercati e le nuove tecnologie abbiano cambiato in modo significativo il modo di fare impresa: ormai, come acutamente afferma Zygmunt Bauman “il n’y a pas hors du monde…non esiste nessun luogo esterno, nessuna via di fuga o posto dove ripararsi, nessuno spazio alternativo dove isolarsi e nascondersi. Nessun posto in cui uno possa affermare con un qualche grado di certezza di trovarsi chez soi, libero di fare ciò che vuole, di perseguire i propri obiettivi e considerare tutto il resto irrilevante” [3]. E’ proprio partendo da questa constatazione che nasce l’esigenza di un nuovo approccio all’agire da parte dell’impresa, un agire che deve tenere conto degli interessi di tutti i suoi interlocutori (stakeholder) e delle ripercussioni di tipo sociale e ambientale che può avere nel medio-lungo termine. In questo contesto si sviluppa il pensiero di un agire socialmente responsabile. Un diverso approccio al modo stesso di fare impresa implica, però, non solo un cambiamento nelle decisioni strategico-economiche, ma anche una trasformazione di quella che è la stessa cultura organizzativa dell’azienda, che assume nuovi valori e punti di riferimento e adotta diverse strategie di comunicazione sia verso l’interno sia verso l’esterno. Utilizzando il linguaggio della psicologia organizzativa di Weick [4] potremmo affermare che l’azienda, trovandosi davanti all’esigenza di dare un senso alla realtà che sta cambiando, inizia a produrre nuove mappe cognitive grazie alle quali definisce la sua vision e la sua mission. Ne consegue che l’introduzione di approcci socialmente responsabili all’interno di un’azienda dà un impulso alla creazione di una cultura organizzativa imperniata su nuovi valori.
Tra i fattori che hanno maggiormente contribuito ad innescare il dibattito su questi temi vi sono:
1. Per una cultura della responsabilità
Strumenti e pratiche di responsabilità sociale sono oggi molto di moda. Spesso, tuttavia, l’agire sociale risulta “schiacciato” sul mero rispetto degli obblighi di legge o su logiche promozionali e opportunistiche. In questo contesto il ruolo dell’ente pubblico appare cruciale in qualità di promotore di una “sana” cultura della responsabilità e di garante delle regole del gioco.
Il dibattito recente pone sempre più attenzione al ruolo dell’impresa, non solo come attore economico all’interno della società ma, più in generale, come “istituzione sociale”. Obiettivo primario dell’impresa sta diventando sempre più la capacità di creare valore, remunerando in modo adeguato i fattori della produzione e introducendo nel mercato beni e servizi competitivi e che migliorino la qualità della vita. Le imprese, dunque, non sono più giudicate solo per la loro performance economica, ma anche per il modo in cui il risultato economico è stato perseguito, sia in termini di qualità dei prodotti e servizi offerti, sia in termini di correttezza e trasparenza dei comportamenti agiti nei confronti dei propri interlocutori pubblici e privati [5].
La stessa Unione europea, a partire dal Consiglio europeo di Lisbona (marzo 2000), ha in più occasioni lanciato appelli alle imprese perché perseguano il duplice obiettivo della competitività e della coesione sociale. Ma che cosa significa per l’impresa essere socialmente responsabile? Anche in considerazione della varietà di discipline che si sono interessate e si interessano al tema della social responsibility, le definizioni sono molteplici, ma a oggi non si è arrivati a una formulazione unanimemente condivisa.
Spesso il concetto di Responsabilità sociale d’impresa (o Corporate social responsibility, Csr) viene utilizzato con accezioni diverse, diventando una sorta di “contenitore” in cui vengono fatti rientrare approcci, iniziative e pratiche diversificate [6]. Tra le numerose definizioni, quella più conosciuta e accreditata è, crediamo, quella che ne dà il Libro Verde della Commissione Europea (2001) [7], secondo cui la responsabilità sociale d’impresa è: “l’integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro attività e nei loro rapporti con le parti interessate (stakeholder). Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là, investendo ‘di più’ nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate”. Da questa definizione è possibile far discendere almeno tre elementi caratterizzanti la Rsi [8]:
Tuttavia, la mancanza di una cultura diffusa su questi temi, da parte sia della comunità sia delle stesse imprese in merito alle opportunità e agli strumenti agibili, viene unanimemente considerata come il principale fattore inibente l’adozione di pratiche effettivamente responsabili. Oltre a questo, le imprese evidenziano anche altri fattori di contesto potenzialmente di ostacolo allo sviluppo della Rsi quali, ad esempio, la carenza di risorse economiche, la carenza di competenze tecniche e di risorse umane da destinare a tale funzione e lo scarso interesse dei consumatori finali nei confronti di queste azioni. Ecco allora che in questo quadro il ruolo dell’ente pubblico appare cruciale in qualità di promotore di una cultura della Rsi e di garante delle regole del gioco [9].
Innanzitutto, le istituzioni dovrebbero agire un ruolo regolativo e di tutela, assicurando il rispetto dei diritti umani e degli standard lavorativi e garantendo “sani” livelli di competitività del mercato che disincentivino, a monte, comportamenti socialmente irresponsabili. Ma le amministrazioni pubbliche dovrebbero anche svolgere un’azione di sensibilizzazione sul tema attraverso la promozione della conoscenza e delle potenzialità della responsabilità sociale, anche attraverso la valorizzazione delle esperienze più significative a oggi esistenti [10].
A livello locale, l’ente pubblico dovrebbe promuovere la raccolta, l’elaborazione, e la divulgazione di dati e informazioni utili alla conoscenza degli strumenti e delle pratiche di social responsibility agite sul territorio, anche per finalizzare al meglio la programmazione territoriale delle politiche e dei servizi rivolti alle imprese. La realizzazione di studi e ricerche mirate all’approfondimento di situazioni locali, quali quelle descritte nel presente numero, rappresentano sicuramente un primo passo in tal senso.
A livello provinciale e/o regionale, la costituzione di Osservatori sulle pratiche di sostenibilità e responsabilità sociale d’impresa crediamo possa rappresentare l’opportunità di valorizzare e sistematizzare al meglio le conoscenze ed esperienze territoriali su questi temi. Ma l’Osservatorio non deve essere inteso solo come “struttura tecnica”, cioè come collettore e divulgatore di dati e informazioni sulla responsabilità sociale, ma anche e soprattutto come luogo (fisico o virtuale) di pensiero e di confronto tra attori sociali, siano essi istituzioni, imprese e comunità locale, mirante allo sviluppo di nuove iniziative e nuovi piani di azione integrati sui temi dello sviluppo sociale sostenibile [11].
2. Responsabilità Sociale d'Impresa, “RSI”
Per Responsabilità Sociale d'Impresa, “RSI”, (o Corporate Social Responsibility, CSR) si intende l'integrazione di preoccupazioni di natura etica all'interno della visione strategica d'impresa: è una manifestazione della volontà delle grandi, piccole e medie imprese di gestire efficacemente le problematiche d'impatto sociale ed etico al loro interno e nelle zone di attività. La prima proposta risale a Bowen che nel 1953 definisce la Responsabilità Sociale d’Impresa come “il dovere degli uomini d’affari di perseguire quelle politiche, di prendere quelle decisioni, di seguire quelle linee di azione che sono desiderabili in funzione degli obiettivi e dei valori riconosciuti dalla società” [12]. Numerose altre versioni si sono aggiunte nel corso degli anni, ricordiamo qui solo quelle più significative e diffuse. A livello europeo si associa la RSI “all’integrazione su base volontaria dei problemi sociali ed ambientali delle imprese nelle loro attività commerciali e nelle loro relazioni con le altre parti” [13] secondo la definizione presentata nel Libro Verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese” dalla Commissione delle Comunità Europea nel luglio 2001. Questa definizione mette in luce le caratteristiche pregnanti della CSR, ovvero:
Un’altra formula utilizzata e condivisa da molti è quella del World Business Council for Sustainable Development che definisce la RSI come il continuo impegno dell’azienda a comportarsi in maniera etica e a contribuire allo sviluppo economico, migliorando la qualità della vita dei dipendenti, delle loro famiglie, della comunità locale e più in generale della società” [14]. Anche in questo caso si evidenzia in modo chiaro quello che è l’oggetto della RSI: l’impatto dell’operare dell’azienda nella realtà sociale e ambientale con cui esiste un rapporto di interdipendenza imprescindibile. Un ulteriore aspetto della CSR. Messo in luce da John L. Campbell in un suo articolo apparso sulla rivista “American Behavioral Scientist”[15] sostiene che le due condizioni fondamentali per poter affermare che un’azienda ha un comportamento socialmente responsabile sono la consapevolezza di non recare danno agli stakeholder (“they must not knowingly do anything that could harm their stakeholders” [16]) e, nel caso dovessero arrecare un danno inconsapevolmente, la modifica della condotta sbagliata non appena questa venga scoperta e portata alla sua attenzione. La definizione di Campbell dà un’impostazione più critica al tema della responsabilità sociale, in quanto prende in considerazione anche un concetto largamente ignorato nelle definizioni convenzionali: quello di irresponsabilità sociale. Ecco perché un’azienda molto impegnata sul fronte della tutela ambientale o dei servizi verso la comunità locale che però persegue politiche discriminatorie per l’assunzione verrebbe considerata socialmente responsabile secondo le definizioni “tradizionali”, ma non da quella proposta da questo autore. Le considerazioni fatte sinora ci introducono alla complessità del discorso sulla CSR, un mondo ancora in piena espansione ed evoluzione che, proprio per questo, oltre agli aspetti positivi e innovativi, presenta numerose contraddizioni e lacune.
Ricordando una frase di Davide Cefis, Direttore Comunicazione di Banca Nazionale del Lavoro (BNL) che sembra riassumere bene la prospettiva in cui la CSR andrebbe intesa: “la Responsabilità Sociale d’Impresa rappresenta sempre più il paradigma con cui un’azienda si relaziona con il mondo esterno, comunica la propria identità e cultura. E’ una risorsa che fa crescere l’impresa, ma che richiede attenzione e cura costante affinché porti benefici tangibili” [17].
Si tratta di un concetto innovativo e molto discusso, espresso anche nel 1984 da Robert Edward Freeman nel suo saggio "Strategic Management: a Stakeholder Approach" (Pitman, London 1984). Ma già nel 1968, in "Strutture integrate nel sistema distributivo italiano", l'economista italiano Giancarlo Pallavicini afferma che l' attività d' impresa, pur mirando al profitto, deve tenere esplicitamente presenti una serie di istanze interne ed esterne all' impresa, anche di natura socio-economica, per la misurazione delle quali viene proposto il "metodo della scomposizione dei parametri” [18].
Un'impresa che adotti un comportamento socialmente responsabile, monitorando e rispondendo alle aspettative economiche, ambientali, sociali di tutti i portatori di interesse (stakeholders) coglie anche l'obiettivo di conseguire un vantaggio competitivo e massimizzare gli utili di lungo periodo. Risulta pertanto evidente come l’impegno “etico” di un’impresa sia entrato direttamente nella cosiddetta catena del valore prospettando così l’utilizzo di nuovi percorsi e leve competitive coerenti con uno “sviluppo sostenibile” per la collettività. All’interno del mercato globale e locale, le imprese non hanno, infatti, un’esistenza a sé stante, ma sono enti che vivono e agiscono in un tessuto sociale che comprende vari soggetti, tra cui spicca sicuramente una società civile molto attenta all’operato imprenditoriale.
E’, quindi, di fondamentale importanza l’attività dedicata al mantenimento delle relazioni con l’esterno, verso i cosiddetti stakeholders (soggetti interessati, per es. organizzazioni non governative, sindacati, mass-media ecc.). Nei sistemi di gestione aziendale, l’attenzione agli stakeholders è divenuta di importanza cruciale per le imprese e spesso lo sviluppo nel tempo di relazioni positive con tali soggetti può diventare un elemento di valore aggiunto per l’impresa. Ma il comportamento più o meno etico di un’impresa interessa potenzialmente tutti i cittadini, ai quali non bastano astratte dichiarazioni di principi e valori: essi esigono ormai un impegno quotidiano e credibile, frutto di una precisa politica manageriale e di un sistema aziendale organizzato a tal fine [19].
3. Come si traduce in pratica il concetto di Responsabilità Sociale delle Imprese
Il concetto di Responsabilità Sociale delle Imprese prevede l’integrazione di istanze sociali e ambientali nella prassi aziendali. Quando ci si trova ad affrontare tali tematiche per la prima volta, è meglio procedere per gradi, concentrandosi su uno o più temi rilevanti per l’azienda e che si ritengono realizzabili nel breve periodo. Non si dovrebbe dimenticare inoltre di comunicare all’esterno cosa si sta facendo [20].
L’azienda potrebbe ad esempio investire nelle risorse umane, offrendo la possibilità di partecipare a corsi di formazione dei cui risultati potranno beneficiare sia lavoratori, sia l’azienda stessa. Oppure potrebbe introdurre assetti che tutelino i lavoratori, ad esempio come ha fatto l’impresa slovena produttrice di letti Meblo Jogi. Questa impresa ha capito che comunicare alle risorse umane quanto il lavoro che svolgono sia importante e ascoltare le loro esigenze può essere una fonte di successo per l’azienda. I passi compiuti da Meblo Jogi hanno contribuito a migliorare il livello di fedeltà del personale e tale azienda è stata insignita di uno speciale premio per l’impegno a favore delle donne.
Un’impresa potrebbe inoltre sostenere una buona causa e incoraggiare le risorse umane a svolgere del volontariato per la comunità. L’impegno che l’azienda inglese Hanley Economical Building Society dimostra concretamente come sponsorizzare e partecipare a progetti della comunità locale rappresenti un completamento vitale per gli obiettivi dell’azienda stessa.
Il chiaro nesso che la Hanley nota fra redditività aziendale e benessere della comunità locale dovrebbe essere d’esempio ad altre realtà imprenditoriali.
Oltre alla gestione interna, un’impresa dovrebbe valutare la gestione dei rapporti con il territorio, la comunità locale e le istituzioni pubbliche. Le piccole imprese si dimostrano spesso abili nel gestire queste relazioni, dal momento che esse stesse sono parte integrante e visibile della comunità in cui operano. Il potere del coinvolgimento sociale e dell’importanza di costruire relazioni viene illustrato nel case study su Koffie Kàn, un’impresa belga che si occupa di torrefazione del caffé, il cui staff è formato da tre persone.
Koffie Kàn si è impegnata sul territorio partecipando attivamente alla vita della comunità, cosa che ha contribuito notevolmente alla riuscita economica dell’azienda.
Le imprese potrebbero inoltre impegnarsi sul fronte della tutela ambientale [21].
L’ottimizzazione energetica, la prevenzione dell’inquinamento, la minimizzazione dei rifiuti e il riciclaggio possono portare a riduzioni dei costi e favorire quindi la vitalità economica di un’impresa. Tali iniziative possono migliorare inoltre i rapporti con la comunità, gli enti di controllo e altre istituzioni. Possono anche far nascere nuove opportunità commerciali, con clienti che siano alla ricerca di fornitori ‘verdi’.
Varie attività testimoniano l’impegno dell’azienda a ridurre il volume degli imballaggi e ad aumentare la parte riciclata.
Nei primi anni ’90 , in quasi tutto il mondo, la McDonald’s ha sostituito i vecchi sacchetti d’asporto fabbricati con cellulosa vergine decolorata con nuovi sacchetti di carta riciclata e non decolorata.
Nello stesso periodo, l’azienda ha acquistato prodotti fabbricati con materiale di riciclo,prodotti dall’azienda campana SEDA s.p.a. di proprietà della famiglia D’Amato, da usare nella costruzione e nell’operatività dei suoi ristoranti di tutto il mondo, per oltre 4 miliardi di dollari, per controbilanciare un maggiore impatto ambientale, ottenendo tra l’altro notevoli e concreti benefici commerciali di fidelizzazione e soddisfazione dei clienti.
Non è necessario affrontare tutte queste tematiche contemporaneamente. Stabilendo delle priorità e concentrando gli sforzi sulle iniziative più affini agli scopi dell’azienda si raggiungeranno sicuramente risultati migliori. Si possono poi intraprendere ulteriori iniziative, dopo aver riscontrato i benefici tangibili derivanti dalle prime.
Per un’impresa potrebbe essere interessante anche collaborare con organizzazioni o altre realtà aziendali e promuovere strategie di gestione aziendale socialmente responsabile. Si potrebbe partecipare ad esempio a programmi promossi dal Governo o dagli Enti Locali, o, ancora, aderire ad associazioni imprenditoriali particolarmente interessate al tema della responsabilità sociale delle imprese. Si potrebbe anche portare avanti uno specifico progetto di RSI insieme ad un’altra impresa, magari quella di un proprio fornitore [22]. Nella maggior parte dei casi, stabilire collaborazioni del genere non costa nulla ad un’impresa. E qualora ciò comportasse dei lievi costi, con un’attenta individuazione e gestione dell’investimento scelto ci si potrebbe garantire un ampio ritorno in termini di notorietà, soddisfazione delle risorse umane, miglioramento della reputazione dell’impresa e accesso a nuovi mercati [23].
4. Il caso italiano di Ferrarelle: “L’acqua che fa del bene”
Ferrarelle Spa si è impegnata in un importante progetto dell’Unicef “Acqua e igiene in Eritrea” e porterà l’acqua potabile in 30 scuole del paese africano.
Il progetto “Acqua e igiene in Eritrea” ha come obiettivo quello di migliorare le condizioni igienico sanitarie in 30 scuole a beneficio di circa 9.000 bambini e bambine. Le scuole saranno attrezzate con un sistema idrico in grado di soddisfare le esigenze dei bambini durante la giornata e grazie all’installazione di un serbatoio d’acqua di 4,5 metri cubi sarà possibile raccogliere anche l’acqua piovana.
L’impianto idrico assicurerà l’approvvigionamento d’acqua pulita anche negli anni a venire e la sua manutenzione sarà affidata alle scuole stesse con la supervisione di un comitato locale.
La realizzazione del sistema idrico ha anche una rilevanza socio-culturale. In Eritrea, infatti, sono sopratutto le bambine a dover prendere l’acqua alle fonti per tutta la famiglia, fonti che sono spesso molto lontane e non sempre alimentate da acque potabili. Inoltre, nelle scuole dove manca l’acqua, le bambine non hanno la possibilità di accedere a servizi igienici separati dai loro compagni maschi. Questo, in aggiunta ai continui viaggi per la raccolta d’acqua, sono le cause principali dell’abbandono della scuola da parte delle bambine.
Assicurando l’accesso continuo all’acqua, il progetto non solo porterà l’acqua dove non c’è, ma potrà anche dare la possibilità a migliaia di bambini e bambine di frequentare la scuola, favorendo, al contempo, la crescita futura del paese.
Il progetto prevede la destinazione di più del 10% del ricavato delle vendite delle confezioni da 6 di Ferrarelle litro e mezzo identificate dalla grafica legata all’operazione “L’Acqua che fa del Bene”. L’impegno economico di Ferrarelle Spa è di circa 350.000 Euro, che saranno destinati alla realizzazione dei pozzi e delle opere di idrizzazione che forniranno l’acqua alle 30 scuole eritree che pone come traguardo per il 2015 il dimezzamento nel numero di persone che ancora non hanno accesso all’acqua potabile e a servizi igienici adeguati, nonché la realizzazione di infrastrutture igieniche in tutte le scuole del mondo.
Questo progetto è un intervento strutturale che resterà alla popolazione per sempre. Lo spirito dell’iniziativa è rivolto non solo alla popolazione eritrea, ma anche ai consumatori stessi, che contribuiscono al progetto semplicemente continuando a scegliere, Ferrarelle [24].
5. Sintesi conclusiva
Per diventare socialmente responsabile, l'azienda introduce pratiche discrezionali ed effettua investimenti intesi a migliorare il benessere della comunità e a proteggere l'ambiente. Le principali differenze tra l'adozione di pratiche di business socialmente responsabili e altre iniziative benefiche includono la focalizzazione sulle attività discrezionali: l'interpretazione in senso lato del termine comunità; un'accezione più ampia dei concetti di salute e sicurezza, che ricomprende i bisogni psicologici ed emotivi. Nell'ultimo decennio c'è stato un evidente spostamento dall'adozione di pratiche di business più responsabili per effetto di vincoli normativi, lamentele dei clienti e pressioni dei gruppi di interesse, alla ricerca proattiva di soluzioni aziendali ai problemi sociali e all'incorporazione di nuove pratiche di business a supporto di tali problemi. A questo spostamento contribuiscono diversi fattori: la consapevolezza che delle pratiche di business socialmente responsabili possono effettivamente incrementare i profitti; lo sviluppo di un mercato globale, caratterizzato da una competizione più intensa e da più alternative per i consumatori; il desiderio di accrescere la produttività e il tasso di ritenzione dei lavoratori; la maggiore visibilità delle attività socialmente responsabili (o irresponsabili) delle imprese.
Quasi tutte le iniziative di questo tipo comportano la modifica di politiche o procedure interne, il reporting esterno di informazioni sui consumatori e sugli investitori, misure per favorire l'accesso e tutelare la privacy dei consumatori, e decisioni relative ai fornitori e alla localizzazione delle unità produttive e commerciali.
I conseguenti benefici finanziari derivano dalla riduzione dei costi operativi, dalla percezione di incentivi finanziari messi a disposizione dagli enti regolatori e dall'incremento della produttività e del tasso di ritenzione dei dipendenti. Anche i benefici di marketing sono numerosi: più apprezzamento da parte della comunità, creazione di una preferenza per la marca, consolidamento del posizionamento di marca, miglioramento qualitativo dei prodotti, e rafforzamento dell'immagine aziendale. Queste attività consentono anche di costruire relazioni positive con partner esterni come enti regolatori, fornitori e organizzazioni non profit.
Gli esperti ricordano che le motivazioni addotte dalle aziende per l'adozione di pratiche di business nuove e più responsabili verranno messe in dubbio, le loro azioni verranno giudicate, e i risultati verranno valutati criticamente. I manager aziendali possono attenuare lo scetticismo e il criticismo degli osservatori esterni agendo in un'ottica di prevenzione; scegliendo una problematica sociale che risponde a un'esigenza di business, oltre che a un bisogno sociale; prendendo un impegno di lungo termine; promuovendo l'entusiasmo dei dipendenti; sviluppando e implementando infrastrutture a sostegno della promessa e attivando comunicazioni aperte, sincere e oneste.
Le decisioni principali in tema di adattamento e implementazione di pratiche socialmente responsabili si focalizzeranno sulla scelta della problematica sociale che verrà sostenuta dall'iniziativa; sullo sviluppo di piani strategici integrati per l'implementazione e sulla fissazione di obiettivi misurabili e di piani per la rilevazione e il reporting dei risultati [25].
Negli ultimi anni abbiamo assistito all’evoluzione del concetto di “servizio pubblico” da una prospettiva soggettiva (in cui il servizio è considerato tale in quanto l’ente che lo elargisce è pubblico) ad una oggettiva che si focalizza sul tipo di servizio al di là del soggetto che lo fornisce [1]. Ciò è sancito a livello giuridico dall’articolo 41, comma 3 della Costituzione italiana che afferma: “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La dimensione sociale quindi non è più solo prerogativa dello Stato e delle sue istituzioni, ma anche degli enti privati come imprese e associazioni [2]. E’ proprio per questo che si può parlare di una Responsabilità Sociale d’Impresa.
Oltre a ciò bisogna considerare come la globalizzazione, l’integrazione dei mercati e le nuove tecnologie abbiano cambiato in modo significativo il modo di fare impresa: ormai, come acutamente afferma Zygmunt Bauman “il n’y a pas hors du monde…non esiste nessun luogo esterno, nessuna via di fuga o posto dove ripararsi, nessuno spazio alternativo dove isolarsi e nascondersi. Nessun posto in cui uno possa affermare con un qualche grado di certezza di trovarsi chez soi, libero di fare ciò che vuole, di perseguire i propri obiettivi e considerare tutto il resto irrilevante” [3]. E’ proprio partendo da questa constatazione che nasce l’esigenza di un nuovo approccio all’agire da parte dell’impresa, un agire che deve tenere conto degli interessi di tutti i suoi interlocutori (stakeholder) e delle ripercussioni di tipo sociale e ambientale che può avere nel medio-lungo termine. In questo contesto si sviluppa il pensiero di un agire socialmente responsabile. Un diverso approccio al modo stesso di fare impresa implica, però, non solo un cambiamento nelle decisioni strategico-economiche, ma anche una trasformazione di quella che è la stessa cultura organizzativa dell’azienda, che assume nuovi valori e punti di riferimento e adotta diverse strategie di comunicazione sia verso l’interno sia verso l’esterno. Utilizzando il linguaggio della psicologia organizzativa di Weick [4] potremmo affermare che l’azienda, trovandosi davanti all’esigenza di dare un senso alla realtà che sta cambiando, inizia a produrre nuove mappe cognitive grazie alle quali definisce la sua vision e la sua mission. Ne consegue che l’introduzione di approcci socialmente responsabili all’interno di un’azienda dà un impulso alla creazione di una cultura organizzativa imperniata su nuovi valori.
Tra i fattori che hanno maggiormente contribuito ad innescare il dibattito su questi temi vi sono:
- le trasformazioni in corso nei sistemi economici e sociali;
- l’influenza dei criteri sociali ed ambientali sulle scelte di consumatori e investitori;
- le frequenti informazioni a disposizione dei pubblici di riferimento sull’attività delle imprese;
- l’attenzione crescente alla qualità della vita, della sicurezza e della salute degli individui;
- l’interesse verso la salvaguardia del patrimonio ambientale.
1. Per una cultura della responsabilità
Strumenti e pratiche di responsabilità sociale sono oggi molto di moda. Spesso, tuttavia, l’agire sociale risulta “schiacciato” sul mero rispetto degli obblighi di legge o su logiche promozionali e opportunistiche. In questo contesto il ruolo dell’ente pubblico appare cruciale in qualità di promotore di una “sana” cultura della responsabilità e di garante delle regole del gioco.
Il dibattito recente pone sempre più attenzione al ruolo dell’impresa, non solo come attore economico all’interno della società ma, più in generale, come “istituzione sociale”. Obiettivo primario dell’impresa sta diventando sempre più la capacità di creare valore, remunerando in modo adeguato i fattori della produzione e introducendo nel mercato beni e servizi competitivi e che migliorino la qualità della vita. Le imprese, dunque, non sono più giudicate solo per la loro performance economica, ma anche per il modo in cui il risultato economico è stato perseguito, sia in termini di qualità dei prodotti e servizi offerti, sia in termini di correttezza e trasparenza dei comportamenti agiti nei confronti dei propri interlocutori pubblici e privati [5].
La stessa Unione europea, a partire dal Consiglio europeo di Lisbona (marzo 2000), ha in più occasioni lanciato appelli alle imprese perché perseguano il duplice obiettivo della competitività e della coesione sociale. Ma che cosa significa per l’impresa essere socialmente responsabile? Anche in considerazione della varietà di discipline che si sono interessate e si interessano al tema della social responsibility, le definizioni sono molteplici, ma a oggi non si è arrivati a una formulazione unanimemente condivisa.
Spesso il concetto di Responsabilità sociale d’impresa (o Corporate social responsibility, Csr) viene utilizzato con accezioni diverse, diventando una sorta di “contenitore” in cui vengono fatti rientrare approcci, iniziative e pratiche diversificate [6]. Tra le numerose definizioni, quella più conosciuta e accreditata è, crediamo, quella che ne dà il Libro Verde della Commissione Europea (2001) [7], secondo cui la responsabilità sociale d’impresa è: “l’integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro attività e nei loro rapporti con le parti interessate (stakeholder). Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là, investendo ‘di più’ nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate”. Da questa definizione è possibile far discendere almeno tre elementi caratterizzanti la Rsi [8]:
- la volontarietà;
- l’andare oltre i dettati normativi (beyond compliance);
- l’assunzione di responsabilità nei confronti di tutti gli stakeholder coinvolti nell’attività d’impresa.
Tuttavia, la mancanza di una cultura diffusa su questi temi, da parte sia della comunità sia delle stesse imprese in merito alle opportunità e agli strumenti agibili, viene unanimemente considerata come il principale fattore inibente l’adozione di pratiche effettivamente responsabili. Oltre a questo, le imprese evidenziano anche altri fattori di contesto potenzialmente di ostacolo allo sviluppo della Rsi quali, ad esempio, la carenza di risorse economiche, la carenza di competenze tecniche e di risorse umane da destinare a tale funzione e lo scarso interesse dei consumatori finali nei confronti di queste azioni. Ecco allora che in questo quadro il ruolo dell’ente pubblico appare cruciale in qualità di promotore di una cultura della Rsi e di garante delle regole del gioco [9].
Innanzitutto, le istituzioni dovrebbero agire un ruolo regolativo e di tutela, assicurando il rispetto dei diritti umani e degli standard lavorativi e garantendo “sani” livelli di competitività del mercato che disincentivino, a monte, comportamenti socialmente irresponsabili. Ma le amministrazioni pubbliche dovrebbero anche svolgere un’azione di sensibilizzazione sul tema attraverso la promozione della conoscenza e delle potenzialità della responsabilità sociale, anche attraverso la valorizzazione delle esperienze più significative a oggi esistenti [10].
A livello locale, l’ente pubblico dovrebbe promuovere la raccolta, l’elaborazione, e la divulgazione di dati e informazioni utili alla conoscenza degli strumenti e delle pratiche di social responsibility agite sul territorio, anche per finalizzare al meglio la programmazione territoriale delle politiche e dei servizi rivolti alle imprese. La realizzazione di studi e ricerche mirate all’approfondimento di situazioni locali, quali quelle descritte nel presente numero, rappresentano sicuramente un primo passo in tal senso.
A livello provinciale e/o regionale, la costituzione di Osservatori sulle pratiche di sostenibilità e responsabilità sociale d’impresa crediamo possa rappresentare l’opportunità di valorizzare e sistematizzare al meglio le conoscenze ed esperienze territoriali su questi temi. Ma l’Osservatorio non deve essere inteso solo come “struttura tecnica”, cioè come collettore e divulgatore di dati e informazioni sulla responsabilità sociale, ma anche e soprattutto come luogo (fisico o virtuale) di pensiero e di confronto tra attori sociali, siano essi istituzioni, imprese e comunità locale, mirante allo sviluppo di nuove iniziative e nuovi piani di azione integrati sui temi dello sviluppo sociale sostenibile [11].
2. Responsabilità Sociale d'Impresa, “RSI”
Per Responsabilità Sociale d'Impresa, “RSI”, (o Corporate Social Responsibility, CSR) si intende l'integrazione di preoccupazioni di natura etica all'interno della visione strategica d'impresa: è una manifestazione della volontà delle grandi, piccole e medie imprese di gestire efficacemente le problematiche d'impatto sociale ed etico al loro interno e nelle zone di attività. La prima proposta risale a Bowen che nel 1953 definisce la Responsabilità Sociale d’Impresa come “il dovere degli uomini d’affari di perseguire quelle politiche, di prendere quelle decisioni, di seguire quelle linee di azione che sono desiderabili in funzione degli obiettivi e dei valori riconosciuti dalla società” [12]. Numerose altre versioni si sono aggiunte nel corso degli anni, ricordiamo qui solo quelle più significative e diffuse. A livello europeo si associa la RSI “all’integrazione su base volontaria dei problemi sociali ed ambientali delle imprese nelle loro attività commerciali e nelle loro relazioni con le altre parti” [13] secondo la definizione presentata nel Libro Verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese” dalla Commissione delle Comunità Europea nel luglio 2001. Questa definizione mette in luce le caratteristiche pregnanti della CSR, ovvero:
- l’impegno concreto al di là dei semplici adempimenti legislativi;
- lo stretto legame tra l’attività dell’impresa e le ripercussioni sociali e ambientali;
- la volontarietà dell’adesione.
Un’altra formula utilizzata e condivisa da molti è quella del World Business Council for Sustainable Development che definisce la RSI come il continuo impegno dell’azienda a comportarsi in maniera etica e a contribuire allo sviluppo economico, migliorando la qualità della vita dei dipendenti, delle loro famiglie, della comunità locale e più in generale della società” [14]. Anche in questo caso si evidenzia in modo chiaro quello che è l’oggetto della RSI: l’impatto dell’operare dell’azienda nella realtà sociale e ambientale con cui esiste un rapporto di interdipendenza imprescindibile. Un ulteriore aspetto della CSR. Messo in luce da John L. Campbell in un suo articolo apparso sulla rivista “American Behavioral Scientist”[15] sostiene che le due condizioni fondamentali per poter affermare che un’azienda ha un comportamento socialmente responsabile sono la consapevolezza di non recare danno agli stakeholder (“they must not knowingly do anything that could harm their stakeholders” [16]) e, nel caso dovessero arrecare un danno inconsapevolmente, la modifica della condotta sbagliata non appena questa venga scoperta e portata alla sua attenzione. La definizione di Campbell dà un’impostazione più critica al tema della responsabilità sociale, in quanto prende in considerazione anche un concetto largamente ignorato nelle definizioni convenzionali: quello di irresponsabilità sociale. Ecco perché un’azienda molto impegnata sul fronte della tutela ambientale o dei servizi verso la comunità locale che però persegue politiche discriminatorie per l’assunzione verrebbe considerata socialmente responsabile secondo le definizioni “tradizionali”, ma non da quella proposta da questo autore. Le considerazioni fatte sinora ci introducono alla complessità del discorso sulla CSR, un mondo ancora in piena espansione ed evoluzione che, proprio per questo, oltre agli aspetti positivi e innovativi, presenta numerose contraddizioni e lacune.
Ricordando una frase di Davide Cefis, Direttore Comunicazione di Banca Nazionale del Lavoro (BNL) che sembra riassumere bene la prospettiva in cui la CSR andrebbe intesa: “la Responsabilità Sociale d’Impresa rappresenta sempre più il paradigma con cui un’azienda si relaziona con il mondo esterno, comunica la propria identità e cultura. E’ una risorsa che fa crescere l’impresa, ma che richiede attenzione e cura costante affinché porti benefici tangibili” [17].
Si tratta di un concetto innovativo e molto discusso, espresso anche nel 1984 da Robert Edward Freeman nel suo saggio "Strategic Management: a Stakeholder Approach" (Pitman, London 1984). Ma già nel 1968, in "Strutture integrate nel sistema distributivo italiano", l'economista italiano Giancarlo Pallavicini afferma che l' attività d' impresa, pur mirando al profitto, deve tenere esplicitamente presenti una serie di istanze interne ed esterne all' impresa, anche di natura socio-economica, per la misurazione delle quali viene proposto il "metodo della scomposizione dei parametri” [18].
Un'impresa che adotti un comportamento socialmente responsabile, monitorando e rispondendo alle aspettative economiche, ambientali, sociali di tutti i portatori di interesse (stakeholders) coglie anche l'obiettivo di conseguire un vantaggio competitivo e massimizzare gli utili di lungo periodo. Risulta pertanto evidente come l’impegno “etico” di un’impresa sia entrato direttamente nella cosiddetta catena del valore prospettando così l’utilizzo di nuovi percorsi e leve competitive coerenti con uno “sviluppo sostenibile” per la collettività. All’interno del mercato globale e locale, le imprese non hanno, infatti, un’esistenza a sé stante, ma sono enti che vivono e agiscono in un tessuto sociale che comprende vari soggetti, tra cui spicca sicuramente una società civile molto attenta all’operato imprenditoriale.
E’, quindi, di fondamentale importanza l’attività dedicata al mantenimento delle relazioni con l’esterno, verso i cosiddetti stakeholders (soggetti interessati, per es. organizzazioni non governative, sindacati, mass-media ecc.). Nei sistemi di gestione aziendale, l’attenzione agli stakeholders è divenuta di importanza cruciale per le imprese e spesso lo sviluppo nel tempo di relazioni positive con tali soggetti può diventare un elemento di valore aggiunto per l’impresa. Ma il comportamento più o meno etico di un’impresa interessa potenzialmente tutti i cittadini, ai quali non bastano astratte dichiarazioni di principi e valori: essi esigono ormai un impegno quotidiano e credibile, frutto di una precisa politica manageriale e di un sistema aziendale organizzato a tal fine [19].
3. Come si traduce in pratica il concetto di Responsabilità Sociale delle Imprese
Il concetto di Responsabilità Sociale delle Imprese prevede l’integrazione di istanze sociali e ambientali nella prassi aziendali. Quando ci si trova ad affrontare tali tematiche per la prima volta, è meglio procedere per gradi, concentrandosi su uno o più temi rilevanti per l’azienda e che si ritengono realizzabili nel breve periodo. Non si dovrebbe dimenticare inoltre di comunicare all’esterno cosa si sta facendo [20].
L’azienda potrebbe ad esempio investire nelle risorse umane, offrendo la possibilità di partecipare a corsi di formazione dei cui risultati potranno beneficiare sia lavoratori, sia l’azienda stessa. Oppure potrebbe introdurre assetti che tutelino i lavoratori, ad esempio come ha fatto l’impresa slovena produttrice di letti Meblo Jogi. Questa impresa ha capito che comunicare alle risorse umane quanto il lavoro che svolgono sia importante e ascoltare le loro esigenze può essere una fonte di successo per l’azienda. I passi compiuti da Meblo Jogi hanno contribuito a migliorare il livello di fedeltà del personale e tale azienda è stata insignita di uno speciale premio per l’impegno a favore delle donne.
Un’impresa potrebbe inoltre sostenere una buona causa e incoraggiare le risorse umane a svolgere del volontariato per la comunità. L’impegno che l’azienda inglese Hanley Economical Building Society dimostra concretamente come sponsorizzare e partecipare a progetti della comunità locale rappresenti un completamento vitale per gli obiettivi dell’azienda stessa.
Il chiaro nesso che la Hanley nota fra redditività aziendale e benessere della comunità locale dovrebbe essere d’esempio ad altre realtà imprenditoriali.
Oltre alla gestione interna, un’impresa dovrebbe valutare la gestione dei rapporti con il territorio, la comunità locale e le istituzioni pubbliche. Le piccole imprese si dimostrano spesso abili nel gestire queste relazioni, dal momento che esse stesse sono parte integrante e visibile della comunità in cui operano. Il potere del coinvolgimento sociale e dell’importanza di costruire relazioni viene illustrato nel case study su Koffie Kàn, un’impresa belga che si occupa di torrefazione del caffé, il cui staff è formato da tre persone.
Koffie Kàn si è impegnata sul territorio partecipando attivamente alla vita della comunità, cosa che ha contribuito notevolmente alla riuscita economica dell’azienda.
Le imprese potrebbero inoltre impegnarsi sul fronte della tutela ambientale [21].
L’ottimizzazione energetica, la prevenzione dell’inquinamento, la minimizzazione dei rifiuti e il riciclaggio possono portare a riduzioni dei costi e favorire quindi la vitalità economica di un’impresa. Tali iniziative possono migliorare inoltre i rapporti con la comunità, gli enti di controllo e altre istituzioni. Possono anche far nascere nuove opportunità commerciali, con clienti che siano alla ricerca di fornitori ‘verdi’.
Varie attività testimoniano l’impegno dell’azienda a ridurre il volume degli imballaggi e ad aumentare la parte riciclata.
Nei primi anni ’90 , in quasi tutto il mondo, la McDonald’s ha sostituito i vecchi sacchetti d’asporto fabbricati con cellulosa vergine decolorata con nuovi sacchetti di carta riciclata e non decolorata.
Nello stesso periodo, l’azienda ha acquistato prodotti fabbricati con materiale di riciclo,prodotti dall’azienda campana SEDA s.p.a. di proprietà della famiglia D’Amato, da usare nella costruzione e nell’operatività dei suoi ristoranti di tutto il mondo, per oltre 4 miliardi di dollari, per controbilanciare un maggiore impatto ambientale, ottenendo tra l’altro notevoli e concreti benefici commerciali di fidelizzazione e soddisfazione dei clienti.
Non è necessario affrontare tutte queste tematiche contemporaneamente. Stabilendo delle priorità e concentrando gli sforzi sulle iniziative più affini agli scopi dell’azienda si raggiungeranno sicuramente risultati migliori. Si possono poi intraprendere ulteriori iniziative, dopo aver riscontrato i benefici tangibili derivanti dalle prime.
Per un’impresa potrebbe essere interessante anche collaborare con organizzazioni o altre realtà aziendali e promuovere strategie di gestione aziendale socialmente responsabile. Si potrebbe partecipare ad esempio a programmi promossi dal Governo o dagli Enti Locali, o, ancora, aderire ad associazioni imprenditoriali particolarmente interessate al tema della responsabilità sociale delle imprese. Si potrebbe anche portare avanti uno specifico progetto di RSI insieme ad un’altra impresa, magari quella di un proprio fornitore [22]. Nella maggior parte dei casi, stabilire collaborazioni del genere non costa nulla ad un’impresa. E qualora ciò comportasse dei lievi costi, con un’attenta individuazione e gestione dell’investimento scelto ci si potrebbe garantire un ampio ritorno in termini di notorietà, soddisfazione delle risorse umane, miglioramento della reputazione dell’impresa e accesso a nuovi mercati [23].
4. Il caso italiano di Ferrarelle: “L’acqua che fa del bene”
Ferrarelle Spa si è impegnata in un importante progetto dell’Unicef “Acqua e igiene in Eritrea” e porterà l’acqua potabile in 30 scuole del paese africano.
Il progetto “Acqua e igiene in Eritrea” ha come obiettivo quello di migliorare le condizioni igienico sanitarie in 30 scuole a beneficio di circa 9.000 bambini e bambine. Le scuole saranno attrezzate con un sistema idrico in grado di soddisfare le esigenze dei bambini durante la giornata e grazie all’installazione di un serbatoio d’acqua di 4,5 metri cubi sarà possibile raccogliere anche l’acqua piovana.
L’impianto idrico assicurerà l’approvvigionamento d’acqua pulita anche negli anni a venire e la sua manutenzione sarà affidata alle scuole stesse con la supervisione di un comitato locale.
La realizzazione del sistema idrico ha anche una rilevanza socio-culturale. In Eritrea, infatti, sono sopratutto le bambine a dover prendere l’acqua alle fonti per tutta la famiglia, fonti che sono spesso molto lontane e non sempre alimentate da acque potabili. Inoltre, nelle scuole dove manca l’acqua, le bambine non hanno la possibilità di accedere a servizi igienici separati dai loro compagni maschi. Questo, in aggiunta ai continui viaggi per la raccolta d’acqua, sono le cause principali dell’abbandono della scuola da parte delle bambine.
Assicurando l’accesso continuo all’acqua, il progetto non solo porterà l’acqua dove non c’è, ma potrà anche dare la possibilità a migliaia di bambini e bambine di frequentare la scuola, favorendo, al contempo, la crescita futura del paese.
Il progetto prevede la destinazione di più del 10% del ricavato delle vendite delle confezioni da 6 di Ferrarelle litro e mezzo identificate dalla grafica legata all’operazione “L’Acqua che fa del Bene”. L’impegno economico di Ferrarelle Spa è di circa 350.000 Euro, che saranno destinati alla realizzazione dei pozzi e delle opere di idrizzazione che forniranno l’acqua alle 30 scuole eritree che pone come traguardo per il 2015 il dimezzamento nel numero di persone che ancora non hanno accesso all’acqua potabile e a servizi igienici adeguati, nonché la realizzazione di infrastrutture igieniche in tutte le scuole del mondo.
Questo progetto è un intervento strutturale che resterà alla popolazione per sempre. Lo spirito dell’iniziativa è rivolto non solo alla popolazione eritrea, ma anche ai consumatori stessi, che contribuiscono al progetto semplicemente continuando a scegliere, Ferrarelle [24].
5. Sintesi conclusiva
Per diventare socialmente responsabile, l'azienda introduce pratiche discrezionali ed effettua investimenti intesi a migliorare il benessere della comunità e a proteggere l'ambiente. Le principali differenze tra l'adozione di pratiche di business socialmente responsabili e altre iniziative benefiche includono la focalizzazione sulle attività discrezionali: l'interpretazione in senso lato del termine comunità; un'accezione più ampia dei concetti di salute e sicurezza, che ricomprende i bisogni psicologici ed emotivi. Nell'ultimo decennio c'è stato un evidente spostamento dall'adozione di pratiche di business più responsabili per effetto di vincoli normativi, lamentele dei clienti e pressioni dei gruppi di interesse, alla ricerca proattiva di soluzioni aziendali ai problemi sociali e all'incorporazione di nuove pratiche di business a supporto di tali problemi. A questo spostamento contribuiscono diversi fattori: la consapevolezza che delle pratiche di business socialmente responsabili possono effettivamente incrementare i profitti; lo sviluppo di un mercato globale, caratterizzato da una competizione più intensa e da più alternative per i consumatori; il desiderio di accrescere la produttività e il tasso di ritenzione dei lavoratori; la maggiore visibilità delle attività socialmente responsabili (o irresponsabili) delle imprese.
Quasi tutte le iniziative di questo tipo comportano la modifica di politiche o procedure interne, il reporting esterno di informazioni sui consumatori e sugli investitori, misure per favorire l'accesso e tutelare la privacy dei consumatori, e decisioni relative ai fornitori e alla localizzazione delle unità produttive e commerciali.
I conseguenti benefici finanziari derivano dalla riduzione dei costi operativi, dalla percezione di incentivi finanziari messi a disposizione dagli enti regolatori e dall'incremento della produttività e del tasso di ritenzione dei dipendenti. Anche i benefici di marketing sono numerosi: più apprezzamento da parte della comunità, creazione di una preferenza per la marca, consolidamento del posizionamento di marca, miglioramento qualitativo dei prodotti, e rafforzamento dell'immagine aziendale. Queste attività consentono anche di costruire relazioni positive con partner esterni come enti regolatori, fornitori e organizzazioni non profit.
Gli esperti ricordano che le motivazioni addotte dalle aziende per l'adozione di pratiche di business nuove e più responsabili verranno messe in dubbio, le loro azioni verranno giudicate, e i risultati verranno valutati criticamente. I manager aziendali possono attenuare lo scetticismo e il criticismo degli osservatori esterni agendo in un'ottica di prevenzione; scegliendo una problematica sociale che risponde a un'esigenza di business, oltre che a un bisogno sociale; prendendo un impegno di lungo termine; promuovendo l'entusiasmo dei dipendenti; sviluppando e implementando infrastrutture a sostegno della promessa e attivando comunicazioni aperte, sincere e oneste.
Le decisioni principali in tema di adattamento e implementazione di pratiche socialmente responsabili si focalizzeranno sulla scelta della problematica sociale che verrà sostenuta dall'iniziativa; sullo sviluppo di piani strategici integrati per l'implementazione e sulla fissazione di obiettivi misurabili e di piani per la rilevazione e il reporting dei risultati [25].
Reference
[1] Cfr., www.tesionline.com/intl/preview
[2] Ibidem, Bauman, Z., La società sotto assedio, Editori Laterza, Bari, 2003.
[3] Ibidem, Morzenti Pellegrini, R., Istruzione e formazione nella nuova amministrazione decentrata della Repubblica, Giuffrè Editore, Milano, 2004.
[4] Ibidem, Weick, K., Organizzare. La psicologia sociale dei processi organizzativi, ISEDI, Milano, 1993.
[5] Cfr., http://pss.irs-online.it/materiali/Mesini%20pss0809.pdf
[6] Cfr.,www2.fabricaethica.it/documenti/782.selezione0809.pdf
[7] Commissione delle Comunità Europee – COM (2001) 366, Libro Verde Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese. (art. 2, comma 1, del D.Lgs. 81/2008)
[8]Cfr.,www.unioncamere.eu/images/stories/doc/doc%20news%20Uc%20Bruxelles/discorso%20di%20lucia%20fusco.pdf
[9] Cfr., pss.irs-online.it/materiali/Mesini%20pss0809.pdf
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12] Cfr. www.tesionline.com/intl/preview.jsp?idt=1767 Bowen, H., Social Responsibilities of the Businessman, Harper, New York, 1983.
[13] http://www.welfare.gov.it/csr_cd/html/doc/greenpaperit.pdf
[14] Cfr., www.tesionline.com/intl/preview.jsp?idt=17675, Beda, A., Bodo, R., La responsabilità sociale d’impresa, Il Sole 24 Ore, Milano, 2006, p. 1.
[15] Ibidem, Campbell, L. J., Institutional Analysis and the paradox of Corporate Social Responsibility, in “American Behavioral Scientist”, n.7/2006, Sage Publications.
[16] Campbell, L., Ivi
[17] Cfr., www.tesionline.com/intl/preview.jsp?idt=17675, AA. VV., Rapporto Ferpi sulla comunicazione socialmente responsabile, Ferpi, Milano, 2006, p. 5.
[18] Cfr., it.wikipedia.org/wiki/Responsabilità_sociale_d'impresa
[19] Ibidem.
[20] Cfr., ec.europa.eu/enterprise/csr/campaign/documentation/download/introduction_it
[21] Ibidem.
[22] Cfr., www.hotelsostenibile.com/index.php?option=com_content&view=article&id=110:responsabilita
[23] Cfr., ec.europa.eu/enterprise/csr/campaign/documentation/download/introduction_it
[24] Cfr., www.ferrarellespa.it/it/salastampa/meta/138_Ferrarelle_Unicef.pdf
[25] Cfr. Kotler, marketing e responsabilità sociale d’impresa, ,Milano, il sole 24 ore, 2008, p.256-257
Introduzione al Product Placement
a cura di V. Dublino
Definizione
Il product placement (o product-tie in) è una sofisticata tecnica di comunicazione aziendale, che consiste nel posizionare un prodotto o un brand all’interno di una struttura narrativa in maniera precostituita riuscendo ad integrarsi ad esso.
Il Product Placement non è la Pubblicità Occulta (cioè la semplice bottiglia sul tavolo dietro l’attore protagonista o del pacchetto di sigarette in primo piano) un vero e proprio studio del posizionamento di un Brand o di un Prodotto/servizio fatto da esperti del settore che tenga conto dei caratteri tangibili ed intangibili dell' Oggetto da inserire nella struttura narrativa, e nello stesso tempo delle necessità e delle caratteristiche del formato (cinematografico, fiction televisiva, teatrale, radiofonica, videogioco, ..) con cui viene resa al pubblico la struttura narrativa.
Chi fa del product placement, infatti, per poterlo rendere efficace al meglio deve innanzitutto tener presente le "regole del mezzo" (il linguaggio) e del contesto in cui si va a posizionare il prodotto nella narrazione e, quindi, agire di conseguenza.
Il product placement non può essere equiparato a nessuno degli altri strumenti di comunicazione d’impresa solitamente usati.
E' una tecnica a se stante, con caratteristiche uniche.
Potrebbe essere paragonabile alla sponsorizzazione per alcune caratteristiche, per altre alla pubblicità e per altre ancora alla publicity, mantenendo però profonde differenze tra ogni una di queste tecniche.
Uno dei più grandi vantaggi del product placement, rispetto alle forme di pubblicità classica, ad esempio, è il fatto che questa tecnica è strettamente correlata all’attenzione con cui lo spettatore si pone nei confronti di ciò che vede ed ascolta.
La pubblicità è sicuramente uno tra i più importanti strumenti di comunicazione d’impresa, ma ha come grande difetto, quello di lavorare sulla “attenzione passiva” dell’audience.
La sua visione, infatti, non essendo richiesta dallo spettatore che è costretto a guardarla, riscontra nell’audience una soglia di attenzione bassa.
Una comunicazione d’impresa che è caratterizzata da un’intrinseca soglia di attenzione bassa richiede, per avere efficacia sul target di riferimento, una frequenza reiterata di trasmissione del messaggio molto elevata o deve essere caratterizzata da un Contenuto narrativo in grado di risvegliare l’attenzione del target: un obiettivo difficile da perseguire con spot commerciali tradizionali [2].
Con l’impiego del product placement non c’è bisogno di risvegliare l’attenzione dello spettatore, egli è già attivo nella sua visione di un film, di una fiction, di una sit-com.
E’ stato Lui a scegliere di vedere quel determinato prodotto ed sempre Lui a voler seguire con la massima attenzione tutto ciò che accade sullo schermo, compreso il product placement.
All’interno di una storia quanto più è credibile il posizionamento di un prodotto o di un brand, tanto più è accettato dallo spettatore e risulta, quindi, efficace.
Nell’adottare questa tecnica promo-comunicazionale, le Aziende, per poter studiare un buon posizionamento, sono quindi costrette ad adeguarsi alle regole narrative, in modo da far risultare l’uso dei loro prodotti e/o servizi reali, in quel contesto narrativo e di conseguenza credibili da parte dello spettatore.
Molte volte il prodotto, per integrarsi al meglio con la storia, può perfino arrivare ad essere inserito in maniera non convenzionale o in un modo che potrebbe sembrare negativo.
Definizione concettuale della tecnica pubblicitaria
Gerardo Corti nel suo studio pubblicato su "Occulta sarà tua sorella", per aiutarci a comprendere i meccanismi del product placement ci evidenzia alcuni fra quelli che sono ritenuti i migliori posizionamenti di product placement degli ultimi anni.
Lo spedizioniere espresso Fedex nel film “Cast Away”; la birra Guinness in “Minority Rèport”; il quotidiano Usa Today in “Se scappi ti sposo” e lo shampoo Head & Shoulder in “Evolution”.
In Cast Away Fedex ha ottenuto un’enorme ritorno di notorietà di marca, il marchio esce più che rafforzato nonostante un suo aereo precipiti e una grossa spedizione vada dispersa.
In Minority Report la birra Guinness non viene bevuta, ma il suo cartellone serve per smascherare l’identità dell’eroe.
All’inizio di Se scappi ti sposo la testata Usa Today licenzia il giornalista Ike Graham (Richard Gere), cosa che gli permetterà di conquistare la sfuggente Maggie Carpenter (Julia Roberts).
In Evolution abbiamo poi il caso estremo in cui lo shampoo Head & Shoulder della Procter & Gamble viene mostrato come la migliore arma per distruggere gli alieni. Tutti ottimi posizionamenti alternativi che solo aziende esperte di product placement osano affrontare.
Tutti brand americani. Il numero di case history di product placement di origine europea è ancora molto esiguo, nonostante il product placement sembra essere nato contemporaneamente all’avvento del cinema. Da parte della maggior parte delle aziende europee si evidenzia ancora una profonda diffidenza: se queste dovessero pubblicizzare, ad esempio, una crema per il viso, pretenderebbero di farlo come in uno spot, con un’attrice che stila un elenco infinito dei suoi principi attivi.
Questo posizionamento verrebbe percepito dallo spettatore come “pubblicità occulta” e, quindi, rifiutato in quanto ritenuto come qualcosa di subdolo.
Al contrario un posizionamento che metta in gioco il marchio farebbe divertire lo spettatore, costringendolo a ricordare il prodotto. In questa tecnica i maestri sono, ovviamente, gli americani, seguiti a ruota dagli orientali (Hong Kong e Giappone in testa).
Gli americani hanno potuto superare una certa diffidenza verso questo strumento grazie ai successi ottenuti da alcune aziende e alle relative occasioni mancate da altre.
Il caso più famoso è sicuramente quello capitato alla M&M’s nel 1981, quando fu contattata dalla Amblin Entertainment (la compagnia di produzione di Steven Spielberg) per posizionare il proprio prodotto nel film “E.T. L’extraterrestre”.
L’idea del regista era quella di far attirare E.T. dal piccolo Elliott con delle praline di cioccolato, in modo da farlo arrivare fino in camera sua e creare il primo contatto e la prima amicizia tra uomo e alieno.
La Mars (interpellata per il brand M&M’s) rifiutò il progetto non ritenendo opportuno far mangiare il proprio prodotto a un piccolo essere deforme.
La produzione passò l’offerta alla Hershey per il suo prodotto Reeve’s Pieces, competitor minore di M&M’s, che deteneva una piccolissima quota di mercato. La Hershey accettò e in poco tempo (grazie al successo del film e al fatto che nel film le praline di cioccolato erano catalizzatrici dell’amicizia fra l’alieno e il bambino) il brand aveva fatto presa sul pubblico. I Reeve’s Pieces cominciarono a conquistare quote di mercato a scapito della M&M’s, trovandosi in pochissimo tempo a competere agli stessi livelli, raggiungendo un incremento del 66% delle vendite nel trimestre successivo all’uscita del film.
A fronte di un investimento relativamente modesto, il product placement permise ai Reeve’s Pieces non solo di competere con il concorrente più temibile, ma offrì la possibilità di essere presente nell’immaginario del suo target di riferimento ogni qualvolta un bambino avesse avuto voglia di vedere o rivedere la storia di E.T.
Metodi di posizionamento
Ogni volta che si parla di product placement ad un profano, la definizione che comunemente si utilizza per far capire il concetto è quella di “pubblicità occulta nei film”, dalla quale si ottiene un molto più chiarificante: “Ah, sì! Il pacchetto di sigarette Marlboro che l’attore tiene in primo piano”.
Sebbene per lo spettatore medio rimanga la concezione che questo sia il metodo con cui viene fatto il product placement, in realtà questa abitudine è caduta in disuso da parecchi anni anche per motivi legati alle norme pubblicitarie per i prodotti da fumo.
Quali sono allora i metodi di posizionamento più usati? E quali funzionano di più?
La semplice collocazione del marchio, del prodotto o addirittura della stessa pubblicità all’interno del film e la citazione o l’utilizzo da parte del protagonista sono tra i più diffusi. Nessuno di questi è migliore in assoluto rispetto agli altri, poiché ognuno ha la sua storia e ognuno deve riuscire a integrarsi come può all’interno di uno specifico film.
In “The Truman Show” (Peter Weir, Usa, 1998), gli attori interrompevano la vita di Truman Burbank con vere e proprie promozioni pubblicitarie di biscotti, cioccolato o birra.
Un altro dei posizionamenti possibili è quello dell’apparizione del brand sotto forma di cartello. Considerata la sua semplicità, questo è stato il primo dei metodi utilizzati.
Cartelloni, come abbiamo visto, sono apparsi sin dai tempi dei Lumière. Il più semplice è ovviamente quello del cartello situato sulla strada del protagonista mentre questo è costretto a passare. I cartelli hanno fatto la loro comparsa ovunque, sotto forma di manifesti pubblicitari, neon, insegne o negozi e anche i posizionamenti si sono fatti sempre più interessanti.
Come per tutti i metodi l’importante non è semplicemente inserire un cartello, ma far sì che lo spettatore lo trovi interessante, che lo ricordi.
Per far questo sono stati utilizzati praticamente tutti i mezzi: dalle gambe di Marilyn che facevano capolino dal cartellone della Ford in “Il magnifico scherzo” (Howard Hawks, Usa, 1952), alle dichiarazioni d’amore di John Leguziano in “A Wong Foo, grazie di tutto” (Beeban Kidron, Usa, 1994), all’ossessione provocata da un cartello pubblicitario di Fernet Branca in “Bella, ricca, lieve difetto fisico cerca anima gemella” (Nando Cicero, Italia, 1973) fino ai cartelloni digitali futuristici di “Minority Report” che chiamano il protagonista per nome.
Un secondo metodo, molto utilizzato, è quello di parlare del prodotto in maniera più o meno esplicita, sia richiedendolo semplicemente, sia mettendo in risalto le sue caratteristiche, sia facendolo diventare protagonista della storia oppure citandolo in qualche battuta.
Nel primo caso vengono compresi gli esempi classici: il protagonista richiede il prodotto (“L’aperitivo lo pago io …. Due Cynar!“, battuta di Vittorio Gassman verso Jean Louis Trintignant in “Il sorpasso”); oppure lo offre a uno dei protagonisti (“Vuoi un Jack Daniel’s?” come chiede Michael Douglas a Sharon Stone in “Basic Instinct”; ) o lo cita in una situazione qualunque (“Staresti benissimo con un Armani” come fa Mel Gibson in “What Women Want”).
Questi sono ovviamente i casi base, i più facili da inserire (in ogni film un protagonista può aver bisogno di un oggetto o di bere qualcosa), i più immediati, ma anche (a parte casi particolari) i più scontati per lo spettatore. Far citare il prodotto da uno dei protagonisti, o esaltarne le caratteristiche, è stato un sistema utilizzato fin dal principio e raggiunse la massima diffusione con i film degli anni Settanta.
Il suo impiego è arrivato a livelli tali che in “The Retum of the Killers Tomatoes” George Clooney sembra farne una parodia nella scena dell’inseguimento con la sua Honda 850 dove, prima di correre, ne spiega tutti gli aspetti tecnici.
Nel corso degli anni questa tecnica ha subito una profonda evoluzione: le qualità dei prodotti vengono citate implicitamente nel discorso, come fa Catherine Zeta Jones in “Hunting, Presenze” laddove si vanta della sua classe dicendo che gli stivali di Prada devono essere comprati a Milano o a New York. O come succede in “Ronin” dove per l’operazione viene chiesta da De Niro a Jean Reno “un’auto veloce e che sappia resistere agli urti come l’Audi S8. Chris Tucker in “Colpo grosso al Drago Rosso” sottolinea la sensualità di Rosaline Sanchez citando a memoria la pagina del catalogo di Victoria’s Secret descrivendo la biancheria intima che indossa il personaggio.
Un’altra idea che viene sfruttata è l’inserire il nome del prodotto all’interno di una battuta divertente o di citarne il marchio con un doppio senso o in una situazione già nota allo spettatore, come può essere uno slogan pubblicitario.
A volte si arriva persino a non citare il prodotto o il marchio, ma a fare riferimento a situazioni/tormentoni testimonial presenti in campagne pubblicitarie. Questo tipo di posizionamento (che utilizza il cross media promotion) funziona naturalmente solo per determinati prodotti e nelle nazioni nelle quali è stato trasmesso il determinato spot di riferimento.
Pur essendo molto efficace il product placement che sfrutta il cross media promotion, lo svantaggio principale consiste nell’essere vincolato a un certo periodo di tempo, legato al periodo di trasmissione della campagna pubblicitaria e al suo successivo periodo di ricordo.
L’ultimo tipo di posizionamento è il più importante: far utilizzare il prodotto ai protagonisti. Il suo uso può essere canonico, come una birra bevuta o un’auto guidata, o improprio, come il cellulare SonyEricsson di James Bond che gli salva la vita o il camion della Carlsberg che dà “un passaggio all’Uomo Ragno” durante il suo primo inseguimento per le strade di New York.
Vista la rilevanza di questo tecnica pubblicitaria, le agenzie specializzate incaricate dalle Aziende studiano i modi migliori per far presa sul pubblico cercando di intervenire, in quella misura che viene consentita, sulla trama in alcuni casi in stretta cooperazione con gli sceneggiatori.
Per trovare i posizionamenti più efficaci, l’azienda deve considerare alcune variabili, a seconda del risultato che vuole ottenere.
Come le Marche diventano protagoniste
L’utilizzo di una marca o un di prodotto può raggiungere l’apice quando questi diventano protagonisti assoluti, indispensabili per l’attore principale o addirittura determinanti per l’intera trama.
Questa pratica comincia all’incirca negli anni Sessanta come ad esempio con il film “Colazione da Tiffany”: la trama si sviluppa con la protagonista che passa tutte le mattine davanti all’omonima gioielleria in New York.
In “Uno, due, tre” James Cagney è il direttore della filiale della Coca Cola in una brillante satira diretta da Wilder ed ambientata Berlino Ovest.
Un prodotto di marca diventa addirittura culto e star incontrastata di alcune pellicole come succede in “Herbie, il maggiolino tutto matto” che viene considerata come la più importante campagna attuata da Volkswagen per promuovere la sua utilitaria.
Le best practice si susseguono affinandosi nella loro tecnica fino ad importanti posizionamenti come Fedex in Cast Away o Mini Morris in “The Italian Job”.
Far diventare una marca elemento centrale di un film è una delle cose più difficili e nello stesso tempo più entusiasmanti per una Azienda che vuole impiegare questa tecnica pubblicitaria.
Il brand deve riuscire a far trasparire tutte le sue caratteristiche ma, contemporaneamente, deve entrare in sintonia con lo stile della storia per non “infastidire” lo spettatore.
Il pubblico deve seguire la storia, accorgendosi del prodotto sponsor, essere cosciente che sia uno sponsor e rimanerne appagato e non infastidito.
Tutto questo può essere ottenuto solo con la perfetta interazione fra Azienda/Marca, casa di produzione e consulenti di product placement, ciò presuppone che si evidenzino gli estremi per poter intervenire sulla sceneggiatura, che deve entrare in perfetta comunione con il prodotto che si vuole pubblicizzare. Negli Stati Uniti dove il product placement rappresenta una componente rilevante nel reperimento di fondi per una produzione di un film, le scuole di scrittura creativa addestrano gli sceneggiatori a “pensare creativamente“ anche in funzione di eventuali prodotti o servizi che potranno essere pubblicizzati, a prescindere dalla Azienda/Marca che vorrà aderire al progetto.
I seguenti elementi, sono i fattori che vengono presi in considerazione per l’analisi di una operazione di product placement
Successo del film
Il successo di un prodotto cinematografico, audiovisivo o di un videogioco, non è mai calcolabile a priori. Per fare delle valutazioni è necessario basarsi su dei precedenti.
Esso, inoltre, va calcolato non solo sul potenziale buon risultato di botteghino, ma anche sul potenziale esito raggiungibile in tutte le successive fasi di distribuzione. Un film dopo la distribuzione nelle sale, viene distribuito in dvd, poi in pay-per-view, fino ad essere replicato nel corso degli anni n-volte sulle reti generaliste.
In maniera, paradossale, la pirateria e il circuito di scambio su Internet viene preso in considerazione dall’Azienda sponsor nel calcolo quantitativo delle persone che andranno in contatto con il prodotto che promuovono attraverso il loro contributo alla produzione.
Corrispondenza tra il film e il target di riferimento
Il primo scopo di un’azienda che si avvicina al product placement è quello di raggiungere quantomeno il proprio target e, quindi, posizionarsi in film destinati a raggiungere lo stesso pubblico/obiettivo.
Un esempio classico è quello de “L’uomo che sussurrava ai cavalli” nel quale per alcuni secondi si vede il sito Equisearch.com attraverso il quale la protagonista contatta Robert Redford.
I contatti dell’azienda salirono del 400% nel giro di pochissimo tempo. Un’azienda era riuscita a colpire il target degli appassionati di equitazione, che attraverso il film vennero a conoscenza del sito. Il risultato economico del film fu un successo in termini di biglietti venduti (quindi di spettatori), paradossalmente però, anche seil film fosse stato un fiasco e avesse attirato solo gli amanti di equitazione, Equisearch avrebbe ottenuto un risultato senza precedenti attuando il suo product placement.
Caratterizzazione del brand rispetto al target
Un’azienda può decidere di colpire anche target limitrofi o differenti da quelli abituali, apparendo in film a loro dedicati. È praticamente il discorso fatto precedentemente sulla Coca-Cola: qualunque film può essere adatto per posizionarla basta solo seguirne le regole. La biancheria intima di Victoria’s Secrets, ad esempio, si posiziona in film dedicati al suo target femminile facendo leva sul fatto di essere l’oggetto del desiderio di qualunque donna, ma si rivolge anche ai maschietti comparendo in film a loro dedicati, in cui vengono riprese bellissime modelle, che indossano quella biancheria.
Visibilità della Marca
La visibilità della Marca è uno dei parametri più discussi. La Marca deve essere visibile e riconoscibile, ma un’eccessiva esposizione non motivata potrebbe risultare dannosa. Bisogna anche in questo caso studiare caso per caso.
Per meglio comprendere questo fattore, prendiamo in esame due film abbastanza recenti: Cast Away e Minority Report.
In Cast Away la comparsa della marca Fedex entra in scena per moltissimo sia all’inizio che alla fine del film. Nel secondo la Guinness compare per meno di due secondi ma, essendo una scena spettacolare ad alto coinvolgimento emotivo, la sua visibilità è massima.
Quando si analizza la visibilità bisogna tener presenti le seguenti variabili: brand identity e importanza del marchio, immagine visiva dei prodotto/marca, tipologia di posizionamento (apparizione, uso, citazione, comparazione), modalità di posizionamento (statico/dinamico, ripetuto/unico, con citazione/senza citazione), tempificazione del posizionamento (durata, momento di inserimento in sceneggiatura), grado di integrazione del posizionamento con la storia e i personaggi e, infine, la sua credibilità.
Posizionamento del brand
La visibilità del brand dipende ovviamente dai tipo di posizionamento utilizzato che può anche essere un semplice cartello, oppure l’utilizzazione del prodotto come oggetto di scena, il coinvolgimento della marca/prodotto nella storia, la citazione o il posizionamento di testimonial, ripresi ad esempio nella trasposizione in advertising utilizzando il cross media promotion.
Per la scelta del posizionamento è molto importante che l’azienda stabilisca il suo livello di coinvolgimento nel film analizzando anche l’interazione tra prodotto, storia e protagonista.
Interazione tra prodotto e storia
Il product placement diventa tanto più importante quanto più interagisce con la storia.
Come in “Uno, due, tre” di Billy Wilder dove James Cagney è il direttore della Coca-Cola Germania e risolve tutti i suoi problemi che ha con la figlia che si innamora di un “comunista ortodosso” tedesco della Germania est e che riesce a convertire al “capitalismo” con l’aiuto della famosa bibita.
Interazione tra prodotto e protagonista
I prodotto può semplicemente essere utile al protagonista senza per questo influenzare le vicende della storia, oppure diventare parte integrante della narrazione. Si va dai classici prodotti utilizzati nei film come oggetti di scena a pellicole come “Parla con lei” di Pedro Almodòvar, nel quale il protagonista lavora per il quotidiano EI Pais. Il quotidiano spagnolo, pur essendo ricordato più volte, è ininfluente ai fini del racconto.
In Cast Away, invece, le genialità degli sceneggiatori del film (che si sono ispirati, adattandola, alla storia di Robinson Crusuoè) consacra un prodotto oggetto di una attività di product placement a coprotagonista di un film. L’amico di Robinson Crusoe, Venerdì, viene sostituito con Wilson, (un pallone appunto prodotto dalla Wilson produttore di articoli sportivi), con cui Tom Hanks recita lunghi monologhi per buona parte del film.
Analogie prodotto-protagonista
Le analogie prodotto-protagonista sono quelle che maggiormente fanno avvicinare il product placement alla publicity. L’esempio classico riportato in letteratura è 007,James Bond, ma qualunque personaggio può costituire un buon testimonial, l’importante è la sua credibilità agli occhi del pubblico e le analogie con il prodotto. La marca interagisce con il personaggio definendo le sue caratteristiche e a sua volta il personaggio le trasferisce sul prodotto
Coinvolgimento emotivo dello spettatore
Come visto il principale vantaggio del product placement rispetto ad altri strumenti di comunicazione promozionale è quello di giocare sull’attenzione attiva dello spettatore. Un’Azienda può, pertanto, posizionare un prodotto cercando di coinvolgere emotivamente lo spettatore.
La scena in cui Wilson viene portato via dalle onde è sicuramente la più commovente di Cast Away, nella quale lo spettatore si commuove per un pallone da pallavolo. L’aver fatto diventare una marca il migliore amico del protagonista di un film è stata una delle operazioni di product placement che farà scuola.
Sono in fase di sperimentazione attività di product placement in grado di incrementare il coinvolgimento emotivo dello spettatore allo scopo di rafforzare l’attenzione attiva dello spettatore. Alcune di queste sperimentazioni, ad esempio, tendono a coniugare diversi aspetti della comunicazione di marketing, come il cosiddetto “marketing tribale [3]” e il “marketing virale [4]”.
Rafforzamento immagine-prodotto
L’ultimo parametro riguarda il rafforzamento dell’immagine del prodotto.
L’Azienda può decidere di apparire al meglio associando un suo prodotto a un determinato stile di vita oppure facendo compiere ai suoi prodotti prestazioni eccezionali.
Come può succedere di solito con le automobili di James Bond (in uno degli ultimi film, per la prima volta, anche con quelle del suo nemico, dal momento che Aston Martin e Jaguar sono entrambe marche della Ford), sia rafforzando una sua particolare caratteristica.
O come traspare ancora una volta in Cast Away, in cui l’appartenenza e la sua fedeltà ai gruppo Fedex da parte di Tom Hanks, e di conseguenza l’affidabilità dell’azienda, viene dimostrata dal fatto che, nonostante tutte le sue disavventure, il naufrago sopravvive per portare a termine la consegna del pacco che gli era stato affidato.
Sintesi
In linea generale, si parla di product placement tutte le volte che un prodotto o un brand appare all’interno di una qualche forma di spettacolo ed è legato allo sviluppo della sua trama o della sceneggiatura. Risultano pertanto esclusi gli inserimenti pubblicitari, le promozioni, le sponsorizzazioni, ecc.
Le modalità di inserimento sono sostanzialmente tre:
Il prodotto può essere rappresentato visivamente (screen) in primo piano, pienamente visibile dallo spettatore e in tal caso garantisce la massima esposizione della marca.
Oppure può essere inserito sullo sfondo, sia in interni che in esterni, come parte della scenografia.
Nel secondo caso è evidente che è più difficile riconoscere il prodotto, ma a ciò si ovvia in genere con l’elevata frequenza o con la lunghezza del periodo di esposizione. Inoltre, nell’ambito dell’intero programma, è possibile combinare diverse modalità di inserimento, per ottenere effetti più o meno intensi sullo spettatore.
La seconda dimensione dell’inserimento è quella verbale (script): meno frequente e meno evidente di quella visiva, la modalità verbale consiste nel far parlare del prodotto dai personaggi del programma o del film. Anche in questa modalità sono possibili diversi livelli di esposizione: il prodotto può essere l’oggetto di una discussione tra i protagonisti o uno scampolo casuale di conversazione tra due passanti o, ancora, un break pubblicitario di una trasmissione radiofonica inserita nella scena. Anche in questo caso sono possibili ripetizioni per aumentare il livello di esposizione.
Gli inserimenti puramente verbali sono relativamente rari; più spesso sono associati a un’inquadratura del prodotto per aumentarne l’efficacia. L’inserimento integrato consiste nel costruire la sceneggiatura (il plot) in modo tale da attribuire al prodotto un ruolo sostanziale nello sviluppo della storia.
L’inserimento dei prodotti nei film risponde a obiettivi e logiche di due distinte categorie di soggetti: i produttori e gli inserzionisti. Dal punto di vista della produzione cinematografica, è necessario considerare anzitutto l’aspetto economico-finanziario: attraverso i contratti di product placement è possibile finanziare la produzione e, al contempo, anticipare flussi di entrate che altrimenti si manifesterebbero solo momento dell’uscita del film. Inoltre, i contratti di product placement prevedono speciali clausole relative alla promozione del film e del prodotto: l’inserzionista, in occasione dell’uscita del film, realizza campagne di comunicazione sul proprio prodotto che richiamano direttamente il film e i suoi personaggi. Al di là dell’aspetto economico, in questi casi si realizza un’efficace sinergia tra modalità e canali di comunicazione diversi.
Teoricamente parlando, l’inserimento dei prodotti nei film può avere effetti positivi su notorietà e atteggiamento in relazione ai seguenti elementi:
Quanto più tali esperienze sono risultate piacevoli, tanto più lo sarà quella di utilizzo del prodotto.
I vantaggi e i limiti del Product Placement
Qui di seguito vengono sintetizzati i vantaggi e i limiti del Product Placement
Vantaggi
(i limiti qui sotto esposti si rifanno ad esperienze per lo più osservate per attività di PP inserite in feature film distribuiti nelle sale cinematografiche)
Con riguardo ai tempi ed ai modi di fruizione del prodotto cinematografico, bisogna ricordare come il successo e la diffusione di una pellicola siano tipicamente non programmabili a priori. In tal senso, accanto a film ad elevata diffusione e notorietà a livello nazionale ed internazionale, si affiancano pellicole di scarso successo. Anche noti registi e attori, sostenuti spesso da consistenti investimenti pubblicitari, possono dare vita a film poco apprezzati, per i quali la vita utile si limita al passaggio per poche serate in un ridotto numero di sale cinematografiche.
Il ‘placement’, associandosi ai film, ne ‘subisce’ in tal modo il successo o l’insuccesso. Nel primo caso, può quindi trovare diffusione a livello nazionale ed internazionale oltre che sui circuiti televisivi e di home video, talvolta anche con opportunità di ripetizione della visione da parte dei medesimi soggetti. Nel secondo caso, quando invece il film è un insuccesso, anche il ‘placement’ che vi trova spazio resta esposto alla visione di pochi ‘pionieri’ e difficilmente accede ad ulteriori canali di diffusione.
Il product placement (o product-tie in) è una sofisticata tecnica di comunicazione aziendale, che consiste nel posizionare un prodotto o un brand all’interno di una struttura narrativa in maniera precostituita riuscendo ad integrarsi ad esso.
Il Product Placement non è la Pubblicità Occulta (cioè la semplice bottiglia sul tavolo dietro l’attore protagonista o del pacchetto di sigarette in primo piano) un vero e proprio studio del posizionamento di un Brand o di un Prodotto/servizio fatto da esperti del settore che tenga conto dei caratteri tangibili ed intangibili dell' Oggetto da inserire nella struttura narrativa, e nello stesso tempo delle necessità e delle caratteristiche del formato (cinematografico, fiction televisiva, teatrale, radiofonica, videogioco, ..) con cui viene resa al pubblico la struttura narrativa.
Chi fa del product placement, infatti, per poterlo rendere efficace al meglio deve innanzitutto tener presente le "regole del mezzo" (il linguaggio) e del contesto in cui si va a posizionare il prodotto nella narrazione e, quindi, agire di conseguenza.
Il product placement non può essere equiparato a nessuno degli altri strumenti di comunicazione d’impresa solitamente usati.
E' una tecnica a se stante, con caratteristiche uniche.
Potrebbe essere paragonabile alla sponsorizzazione per alcune caratteristiche, per altre alla pubblicità e per altre ancora alla publicity, mantenendo però profonde differenze tra ogni una di queste tecniche.
Uno dei più grandi vantaggi del product placement, rispetto alle forme di pubblicità classica, ad esempio, è il fatto che questa tecnica è strettamente correlata all’attenzione con cui lo spettatore si pone nei confronti di ciò che vede ed ascolta.
La pubblicità è sicuramente uno tra i più importanti strumenti di comunicazione d’impresa, ma ha come grande difetto, quello di lavorare sulla “attenzione passiva” dell’audience.
La sua visione, infatti, non essendo richiesta dallo spettatore che è costretto a guardarla, riscontra nell’audience una soglia di attenzione bassa.
Una comunicazione d’impresa che è caratterizzata da un’intrinseca soglia di attenzione bassa richiede, per avere efficacia sul target di riferimento, una frequenza reiterata di trasmissione del messaggio molto elevata o deve essere caratterizzata da un Contenuto narrativo in grado di risvegliare l’attenzione del target: un obiettivo difficile da perseguire con spot commerciali tradizionali [2].
Con l’impiego del product placement non c’è bisogno di risvegliare l’attenzione dello spettatore, egli è già attivo nella sua visione di un film, di una fiction, di una sit-com.
E’ stato Lui a scegliere di vedere quel determinato prodotto ed sempre Lui a voler seguire con la massima attenzione tutto ciò che accade sullo schermo, compreso il product placement.
All’interno di una storia quanto più è credibile il posizionamento di un prodotto o di un brand, tanto più è accettato dallo spettatore e risulta, quindi, efficace.
Nell’adottare questa tecnica promo-comunicazionale, le Aziende, per poter studiare un buon posizionamento, sono quindi costrette ad adeguarsi alle regole narrative, in modo da far risultare l’uso dei loro prodotti e/o servizi reali, in quel contesto narrativo e di conseguenza credibili da parte dello spettatore.
Molte volte il prodotto, per integrarsi al meglio con la storia, può perfino arrivare ad essere inserito in maniera non convenzionale o in un modo che potrebbe sembrare negativo.
Definizione concettuale della tecnica pubblicitaria
Gerardo Corti nel suo studio pubblicato su "Occulta sarà tua sorella", per aiutarci a comprendere i meccanismi del product placement ci evidenzia alcuni fra quelli che sono ritenuti i migliori posizionamenti di product placement degli ultimi anni.
Lo spedizioniere espresso Fedex nel film “Cast Away”; la birra Guinness in “Minority Rèport”; il quotidiano Usa Today in “Se scappi ti sposo” e lo shampoo Head & Shoulder in “Evolution”.
In Cast Away Fedex ha ottenuto un’enorme ritorno di notorietà di marca, il marchio esce più che rafforzato nonostante un suo aereo precipiti e una grossa spedizione vada dispersa.
In Minority Report la birra Guinness non viene bevuta, ma il suo cartellone serve per smascherare l’identità dell’eroe.
All’inizio di Se scappi ti sposo la testata Usa Today licenzia il giornalista Ike Graham (Richard Gere), cosa che gli permetterà di conquistare la sfuggente Maggie Carpenter (Julia Roberts).
In Evolution abbiamo poi il caso estremo in cui lo shampoo Head & Shoulder della Procter & Gamble viene mostrato come la migliore arma per distruggere gli alieni. Tutti ottimi posizionamenti alternativi che solo aziende esperte di product placement osano affrontare.
Tutti brand americani. Il numero di case history di product placement di origine europea è ancora molto esiguo, nonostante il product placement sembra essere nato contemporaneamente all’avvento del cinema. Da parte della maggior parte delle aziende europee si evidenzia ancora una profonda diffidenza: se queste dovessero pubblicizzare, ad esempio, una crema per il viso, pretenderebbero di farlo come in uno spot, con un’attrice che stila un elenco infinito dei suoi principi attivi.
Questo posizionamento verrebbe percepito dallo spettatore come “pubblicità occulta” e, quindi, rifiutato in quanto ritenuto come qualcosa di subdolo.
Al contrario un posizionamento che metta in gioco il marchio farebbe divertire lo spettatore, costringendolo a ricordare il prodotto. In questa tecnica i maestri sono, ovviamente, gli americani, seguiti a ruota dagli orientali (Hong Kong e Giappone in testa).
Gli americani hanno potuto superare una certa diffidenza verso questo strumento grazie ai successi ottenuti da alcune aziende e alle relative occasioni mancate da altre.
Il caso più famoso è sicuramente quello capitato alla M&M’s nel 1981, quando fu contattata dalla Amblin Entertainment (la compagnia di produzione di Steven Spielberg) per posizionare il proprio prodotto nel film “E.T. L’extraterrestre”.
L’idea del regista era quella di far attirare E.T. dal piccolo Elliott con delle praline di cioccolato, in modo da farlo arrivare fino in camera sua e creare il primo contatto e la prima amicizia tra uomo e alieno.
La Mars (interpellata per il brand M&M’s) rifiutò il progetto non ritenendo opportuno far mangiare il proprio prodotto a un piccolo essere deforme.
La produzione passò l’offerta alla Hershey per il suo prodotto Reeve’s Pieces, competitor minore di M&M’s, che deteneva una piccolissima quota di mercato. La Hershey accettò e in poco tempo (grazie al successo del film e al fatto che nel film le praline di cioccolato erano catalizzatrici dell’amicizia fra l’alieno e il bambino) il brand aveva fatto presa sul pubblico. I Reeve’s Pieces cominciarono a conquistare quote di mercato a scapito della M&M’s, trovandosi in pochissimo tempo a competere agli stessi livelli, raggiungendo un incremento del 66% delle vendite nel trimestre successivo all’uscita del film.
A fronte di un investimento relativamente modesto, il product placement permise ai Reeve’s Pieces non solo di competere con il concorrente più temibile, ma offrì la possibilità di essere presente nell’immaginario del suo target di riferimento ogni qualvolta un bambino avesse avuto voglia di vedere o rivedere la storia di E.T.
Metodi di posizionamento
Ogni volta che si parla di product placement ad un profano, la definizione che comunemente si utilizza per far capire il concetto è quella di “pubblicità occulta nei film”, dalla quale si ottiene un molto più chiarificante: “Ah, sì! Il pacchetto di sigarette Marlboro che l’attore tiene in primo piano”.
Sebbene per lo spettatore medio rimanga la concezione che questo sia il metodo con cui viene fatto il product placement, in realtà questa abitudine è caduta in disuso da parecchi anni anche per motivi legati alle norme pubblicitarie per i prodotti da fumo.
Quali sono allora i metodi di posizionamento più usati? E quali funzionano di più?
La semplice collocazione del marchio, del prodotto o addirittura della stessa pubblicità all’interno del film e la citazione o l’utilizzo da parte del protagonista sono tra i più diffusi. Nessuno di questi è migliore in assoluto rispetto agli altri, poiché ognuno ha la sua storia e ognuno deve riuscire a integrarsi come può all’interno di uno specifico film.
In “The Truman Show” (Peter Weir, Usa, 1998), gli attori interrompevano la vita di Truman Burbank con vere e proprie promozioni pubblicitarie di biscotti, cioccolato o birra.
Un altro dei posizionamenti possibili è quello dell’apparizione del brand sotto forma di cartello. Considerata la sua semplicità, questo è stato il primo dei metodi utilizzati.
Cartelloni, come abbiamo visto, sono apparsi sin dai tempi dei Lumière. Il più semplice è ovviamente quello del cartello situato sulla strada del protagonista mentre questo è costretto a passare. I cartelli hanno fatto la loro comparsa ovunque, sotto forma di manifesti pubblicitari, neon, insegne o negozi e anche i posizionamenti si sono fatti sempre più interessanti.
Come per tutti i metodi l’importante non è semplicemente inserire un cartello, ma far sì che lo spettatore lo trovi interessante, che lo ricordi.
Per far questo sono stati utilizzati praticamente tutti i mezzi: dalle gambe di Marilyn che facevano capolino dal cartellone della Ford in “Il magnifico scherzo” (Howard Hawks, Usa, 1952), alle dichiarazioni d’amore di John Leguziano in “A Wong Foo, grazie di tutto” (Beeban Kidron, Usa, 1994), all’ossessione provocata da un cartello pubblicitario di Fernet Branca in “Bella, ricca, lieve difetto fisico cerca anima gemella” (Nando Cicero, Italia, 1973) fino ai cartelloni digitali futuristici di “Minority Report” che chiamano il protagonista per nome.
Un secondo metodo, molto utilizzato, è quello di parlare del prodotto in maniera più o meno esplicita, sia richiedendolo semplicemente, sia mettendo in risalto le sue caratteristiche, sia facendolo diventare protagonista della storia oppure citandolo in qualche battuta.
Nel primo caso vengono compresi gli esempi classici: il protagonista richiede il prodotto (“L’aperitivo lo pago io …. Due Cynar!“, battuta di Vittorio Gassman verso Jean Louis Trintignant in “Il sorpasso”); oppure lo offre a uno dei protagonisti (“Vuoi un Jack Daniel’s?” come chiede Michael Douglas a Sharon Stone in “Basic Instinct”; ) o lo cita in una situazione qualunque (“Staresti benissimo con un Armani” come fa Mel Gibson in “What Women Want”).
Questi sono ovviamente i casi base, i più facili da inserire (in ogni film un protagonista può aver bisogno di un oggetto o di bere qualcosa), i più immediati, ma anche (a parte casi particolari) i più scontati per lo spettatore. Far citare il prodotto da uno dei protagonisti, o esaltarne le caratteristiche, è stato un sistema utilizzato fin dal principio e raggiunse la massima diffusione con i film degli anni Settanta.
Il suo impiego è arrivato a livelli tali che in “The Retum of the Killers Tomatoes” George Clooney sembra farne una parodia nella scena dell’inseguimento con la sua Honda 850 dove, prima di correre, ne spiega tutti gli aspetti tecnici.
Nel corso degli anni questa tecnica ha subito una profonda evoluzione: le qualità dei prodotti vengono citate implicitamente nel discorso, come fa Catherine Zeta Jones in “Hunting, Presenze” laddove si vanta della sua classe dicendo che gli stivali di Prada devono essere comprati a Milano o a New York. O come succede in “Ronin” dove per l’operazione viene chiesta da De Niro a Jean Reno “un’auto veloce e che sappia resistere agli urti come l’Audi S8. Chris Tucker in “Colpo grosso al Drago Rosso” sottolinea la sensualità di Rosaline Sanchez citando a memoria la pagina del catalogo di Victoria’s Secret descrivendo la biancheria intima che indossa il personaggio.
Un’altra idea che viene sfruttata è l’inserire il nome del prodotto all’interno di una battuta divertente o di citarne il marchio con un doppio senso o in una situazione già nota allo spettatore, come può essere uno slogan pubblicitario.
A volte si arriva persino a non citare il prodotto o il marchio, ma a fare riferimento a situazioni/tormentoni testimonial presenti in campagne pubblicitarie. Questo tipo di posizionamento (che utilizza il cross media promotion) funziona naturalmente solo per determinati prodotti e nelle nazioni nelle quali è stato trasmesso il determinato spot di riferimento.
Pur essendo molto efficace il product placement che sfrutta il cross media promotion, lo svantaggio principale consiste nell’essere vincolato a un certo periodo di tempo, legato al periodo di trasmissione della campagna pubblicitaria e al suo successivo periodo di ricordo.
L’ultimo tipo di posizionamento è il più importante: far utilizzare il prodotto ai protagonisti. Il suo uso può essere canonico, come una birra bevuta o un’auto guidata, o improprio, come il cellulare SonyEricsson di James Bond che gli salva la vita o il camion della Carlsberg che dà “un passaggio all’Uomo Ragno” durante il suo primo inseguimento per le strade di New York.
Vista la rilevanza di questo tecnica pubblicitaria, le agenzie specializzate incaricate dalle Aziende studiano i modi migliori per far presa sul pubblico cercando di intervenire, in quella misura che viene consentita, sulla trama in alcuni casi in stretta cooperazione con gli sceneggiatori.
Per trovare i posizionamenti più efficaci, l’azienda deve considerare alcune variabili, a seconda del risultato che vuole ottenere.
Come le Marche diventano protagoniste
L’utilizzo di una marca o un di prodotto può raggiungere l’apice quando questi diventano protagonisti assoluti, indispensabili per l’attore principale o addirittura determinanti per l’intera trama.
Questa pratica comincia all’incirca negli anni Sessanta come ad esempio con il film “Colazione da Tiffany”: la trama si sviluppa con la protagonista che passa tutte le mattine davanti all’omonima gioielleria in New York.
In “Uno, due, tre” James Cagney è il direttore della filiale della Coca Cola in una brillante satira diretta da Wilder ed ambientata Berlino Ovest.
Un prodotto di marca diventa addirittura culto e star incontrastata di alcune pellicole come succede in “Herbie, il maggiolino tutto matto” che viene considerata come la più importante campagna attuata da Volkswagen per promuovere la sua utilitaria.
Le best practice si susseguono affinandosi nella loro tecnica fino ad importanti posizionamenti come Fedex in Cast Away o Mini Morris in “The Italian Job”.
Far diventare una marca elemento centrale di un film è una delle cose più difficili e nello stesso tempo più entusiasmanti per una Azienda che vuole impiegare questa tecnica pubblicitaria.
Il brand deve riuscire a far trasparire tutte le sue caratteristiche ma, contemporaneamente, deve entrare in sintonia con lo stile della storia per non “infastidire” lo spettatore.
Il pubblico deve seguire la storia, accorgendosi del prodotto sponsor, essere cosciente che sia uno sponsor e rimanerne appagato e non infastidito.
Tutto questo può essere ottenuto solo con la perfetta interazione fra Azienda/Marca, casa di produzione e consulenti di product placement, ciò presuppone che si evidenzino gli estremi per poter intervenire sulla sceneggiatura, che deve entrare in perfetta comunione con il prodotto che si vuole pubblicizzare. Negli Stati Uniti dove il product placement rappresenta una componente rilevante nel reperimento di fondi per una produzione di un film, le scuole di scrittura creativa addestrano gli sceneggiatori a “pensare creativamente“ anche in funzione di eventuali prodotti o servizi che potranno essere pubblicizzati, a prescindere dalla Azienda/Marca che vorrà aderire al progetto.
I seguenti elementi, sono i fattori che vengono presi in considerazione per l’analisi di una operazione di product placement
Successo del film
Il successo di un prodotto cinematografico, audiovisivo o di un videogioco, non è mai calcolabile a priori. Per fare delle valutazioni è necessario basarsi su dei precedenti.
Esso, inoltre, va calcolato non solo sul potenziale buon risultato di botteghino, ma anche sul potenziale esito raggiungibile in tutte le successive fasi di distribuzione. Un film dopo la distribuzione nelle sale, viene distribuito in dvd, poi in pay-per-view, fino ad essere replicato nel corso degli anni n-volte sulle reti generaliste.
In maniera, paradossale, la pirateria e il circuito di scambio su Internet viene preso in considerazione dall’Azienda sponsor nel calcolo quantitativo delle persone che andranno in contatto con il prodotto che promuovono attraverso il loro contributo alla produzione.
Corrispondenza tra il film e il target di riferimento
Il primo scopo di un’azienda che si avvicina al product placement è quello di raggiungere quantomeno il proprio target e, quindi, posizionarsi in film destinati a raggiungere lo stesso pubblico/obiettivo.
Un esempio classico è quello de “L’uomo che sussurrava ai cavalli” nel quale per alcuni secondi si vede il sito Equisearch.com attraverso il quale la protagonista contatta Robert Redford.
I contatti dell’azienda salirono del 400% nel giro di pochissimo tempo. Un’azienda era riuscita a colpire il target degli appassionati di equitazione, che attraverso il film vennero a conoscenza del sito. Il risultato economico del film fu un successo in termini di biglietti venduti (quindi di spettatori), paradossalmente però, anche seil film fosse stato un fiasco e avesse attirato solo gli amanti di equitazione, Equisearch avrebbe ottenuto un risultato senza precedenti attuando il suo product placement.
Caratterizzazione del brand rispetto al target
Un’azienda può decidere di colpire anche target limitrofi o differenti da quelli abituali, apparendo in film a loro dedicati. È praticamente il discorso fatto precedentemente sulla Coca-Cola: qualunque film può essere adatto per posizionarla basta solo seguirne le regole. La biancheria intima di Victoria’s Secrets, ad esempio, si posiziona in film dedicati al suo target femminile facendo leva sul fatto di essere l’oggetto del desiderio di qualunque donna, ma si rivolge anche ai maschietti comparendo in film a loro dedicati, in cui vengono riprese bellissime modelle, che indossano quella biancheria.
Visibilità della Marca
La visibilità della Marca è uno dei parametri più discussi. La Marca deve essere visibile e riconoscibile, ma un’eccessiva esposizione non motivata potrebbe risultare dannosa. Bisogna anche in questo caso studiare caso per caso.
Per meglio comprendere questo fattore, prendiamo in esame due film abbastanza recenti: Cast Away e Minority Report.
In Cast Away la comparsa della marca Fedex entra in scena per moltissimo sia all’inizio che alla fine del film. Nel secondo la Guinness compare per meno di due secondi ma, essendo una scena spettacolare ad alto coinvolgimento emotivo, la sua visibilità è massima.
Quando si analizza la visibilità bisogna tener presenti le seguenti variabili: brand identity e importanza del marchio, immagine visiva dei prodotto/marca, tipologia di posizionamento (apparizione, uso, citazione, comparazione), modalità di posizionamento (statico/dinamico, ripetuto/unico, con citazione/senza citazione), tempificazione del posizionamento (durata, momento di inserimento in sceneggiatura), grado di integrazione del posizionamento con la storia e i personaggi e, infine, la sua credibilità.
Posizionamento del brand
La visibilità del brand dipende ovviamente dai tipo di posizionamento utilizzato che può anche essere un semplice cartello, oppure l’utilizzazione del prodotto come oggetto di scena, il coinvolgimento della marca/prodotto nella storia, la citazione o il posizionamento di testimonial, ripresi ad esempio nella trasposizione in advertising utilizzando il cross media promotion.
Per la scelta del posizionamento è molto importante che l’azienda stabilisca il suo livello di coinvolgimento nel film analizzando anche l’interazione tra prodotto, storia e protagonista.
Interazione tra prodotto e storia
Il product placement diventa tanto più importante quanto più interagisce con la storia.
Come in “Uno, due, tre” di Billy Wilder dove James Cagney è il direttore della Coca-Cola Germania e risolve tutti i suoi problemi che ha con la figlia che si innamora di un “comunista ortodosso” tedesco della Germania est e che riesce a convertire al “capitalismo” con l’aiuto della famosa bibita.
Interazione tra prodotto e protagonista
I prodotto può semplicemente essere utile al protagonista senza per questo influenzare le vicende della storia, oppure diventare parte integrante della narrazione. Si va dai classici prodotti utilizzati nei film come oggetti di scena a pellicole come “Parla con lei” di Pedro Almodòvar, nel quale il protagonista lavora per il quotidiano EI Pais. Il quotidiano spagnolo, pur essendo ricordato più volte, è ininfluente ai fini del racconto.
In Cast Away, invece, le genialità degli sceneggiatori del film (che si sono ispirati, adattandola, alla storia di Robinson Crusuoè) consacra un prodotto oggetto di una attività di product placement a coprotagonista di un film. L’amico di Robinson Crusoe, Venerdì, viene sostituito con Wilson, (un pallone appunto prodotto dalla Wilson produttore di articoli sportivi), con cui Tom Hanks recita lunghi monologhi per buona parte del film.
Analogie prodotto-protagonista
Le analogie prodotto-protagonista sono quelle che maggiormente fanno avvicinare il product placement alla publicity. L’esempio classico riportato in letteratura è 007,James Bond, ma qualunque personaggio può costituire un buon testimonial, l’importante è la sua credibilità agli occhi del pubblico e le analogie con il prodotto. La marca interagisce con il personaggio definendo le sue caratteristiche e a sua volta il personaggio le trasferisce sul prodotto
Coinvolgimento emotivo dello spettatore
Come visto il principale vantaggio del product placement rispetto ad altri strumenti di comunicazione promozionale è quello di giocare sull’attenzione attiva dello spettatore. Un’Azienda può, pertanto, posizionare un prodotto cercando di coinvolgere emotivamente lo spettatore.
La scena in cui Wilson viene portato via dalle onde è sicuramente la più commovente di Cast Away, nella quale lo spettatore si commuove per un pallone da pallavolo. L’aver fatto diventare una marca il migliore amico del protagonista di un film è stata una delle operazioni di product placement che farà scuola.
Sono in fase di sperimentazione attività di product placement in grado di incrementare il coinvolgimento emotivo dello spettatore allo scopo di rafforzare l’attenzione attiva dello spettatore. Alcune di queste sperimentazioni, ad esempio, tendono a coniugare diversi aspetti della comunicazione di marketing, come il cosiddetto “marketing tribale [3]” e il “marketing virale [4]”.
Rafforzamento immagine-prodotto
L’ultimo parametro riguarda il rafforzamento dell’immagine del prodotto.
L’Azienda può decidere di apparire al meglio associando un suo prodotto a un determinato stile di vita oppure facendo compiere ai suoi prodotti prestazioni eccezionali.
Come può succedere di solito con le automobili di James Bond (in uno degli ultimi film, per la prima volta, anche con quelle del suo nemico, dal momento che Aston Martin e Jaguar sono entrambe marche della Ford), sia rafforzando una sua particolare caratteristica.
O come traspare ancora una volta in Cast Away, in cui l’appartenenza e la sua fedeltà ai gruppo Fedex da parte di Tom Hanks, e di conseguenza l’affidabilità dell’azienda, viene dimostrata dal fatto che, nonostante tutte le sue disavventure, il naufrago sopravvive per portare a termine la consegna del pacco che gli era stato affidato.
Sintesi
In linea generale, si parla di product placement tutte le volte che un prodotto o un brand appare all’interno di una qualche forma di spettacolo ed è legato allo sviluppo della sua trama o della sceneggiatura. Risultano pertanto esclusi gli inserimenti pubblicitari, le promozioni, le sponsorizzazioni, ecc.
Le modalità di inserimento sono sostanzialmente tre:
- visuale (screen placement);
- verbale (script placement);
- integrato (plot placement).
Il prodotto può essere rappresentato visivamente (screen) in primo piano, pienamente visibile dallo spettatore e in tal caso garantisce la massima esposizione della marca.
Oppure può essere inserito sullo sfondo, sia in interni che in esterni, come parte della scenografia.
Nel secondo caso è evidente che è più difficile riconoscere il prodotto, ma a ciò si ovvia in genere con l’elevata frequenza o con la lunghezza del periodo di esposizione. Inoltre, nell’ambito dell’intero programma, è possibile combinare diverse modalità di inserimento, per ottenere effetti più o meno intensi sullo spettatore.
La seconda dimensione dell’inserimento è quella verbale (script): meno frequente e meno evidente di quella visiva, la modalità verbale consiste nel far parlare del prodotto dai personaggi del programma o del film. Anche in questa modalità sono possibili diversi livelli di esposizione: il prodotto può essere l’oggetto di una discussione tra i protagonisti o uno scampolo casuale di conversazione tra due passanti o, ancora, un break pubblicitario di una trasmissione radiofonica inserita nella scena. Anche in questo caso sono possibili ripetizioni per aumentare il livello di esposizione.
Gli inserimenti puramente verbali sono relativamente rari; più spesso sono associati a un’inquadratura del prodotto per aumentarne l’efficacia. L’inserimento integrato consiste nel costruire la sceneggiatura (il plot) in modo tale da attribuire al prodotto un ruolo sostanziale nello sviluppo della storia.
L’inserimento dei prodotti nei film risponde a obiettivi e logiche di due distinte categorie di soggetti: i produttori e gli inserzionisti. Dal punto di vista della produzione cinematografica, è necessario considerare anzitutto l’aspetto economico-finanziario: attraverso i contratti di product placement è possibile finanziare la produzione e, al contempo, anticipare flussi di entrate che altrimenti si manifesterebbero solo momento dell’uscita del film. Inoltre, i contratti di product placement prevedono speciali clausole relative alla promozione del film e del prodotto: l’inserzionista, in occasione dell’uscita del film, realizza campagne di comunicazione sul proprio prodotto che richiamano direttamente il film e i suoi personaggi. Al di là dell’aspetto economico, in questi casi si realizza un’efficace sinergia tra modalità e canali di comunicazione diversi.
Teoricamente parlando, l’inserimento dei prodotti nei film può avere effetti positivi su notorietà e atteggiamento in relazione ai seguenti elementi:
- attribuzione: rispetto all’impiego di testimonial nella pubblicità tradizionale, il product placement può risultare più efficace in quanto non presuppone un rapporto economico diretto tra l’attore e l’inserzionista. Ciò vale, naturalmente se lo spettatore non attribuisce al film nel suo complesso una valenza eccessivamente commerciale;
- condizionamento classico: l’associazione di un divo del grande schermo al prodotto genera il trasferimento di reazioni affettive dal primo al secondo, come nei casi tradizionali di endorsement;
- imitazione: il comportamento del consumatore è spesso condizionato dall’imitazione del comportamento altrui, talvolta anche di personaggi della letteratura e del cinema. Uno stile di vita e, ad esempio, di abbigliamento può essere promosso abbinandolo a un personaggio cinematografico;
- trasformazione: sviluppato nel campo della pubblicità, questo concetto si presta a spiegare anche l’efficacia del product placement. L’esperienza d’uso porta con sé il ricordo di altre esperienze avute con il prodotto, come – appunto – l’averlo visto inserito in un film.
Quanto più tali esperienze sono risultate piacevoli, tanto più lo sarà quella di utilizzo del prodotto.
I vantaggi e i limiti del Product Placement
Qui di seguito vengono sintetizzati i vantaggi e i limiti del Product Placement
Vantaggi
- Effetto enfasi’ - La presentazione di prodotti e marche all’interno delle pellicole cinematografiche avviene con l’intento di riprodurre un ambiente reale, nel quale prodotti e marche trovano una normale collocazione ed utilizzo. In questo senso, il product placement consente di attribuire alla pellicola connotati di aderenza alla realtà, senza interrompere il naturale svolgimento della scena, anzi valorizzandola ed arricchendola di elementi. Il product placement può quindi integrarsi perfettamente in un film ed essere naturalmente accettato dal pubblico, anche quando nella pellicola sia prevista un’enfasi specifica sul prodotto o sulla marca, come si verifica, ad esempio, nel caso di una esposizione particolarmente ostentata o di fronte ad un uso non convenzionale del prodotto. L’effetto enfasi poggia quindi sulla naturale accettazione della presenza del prodotto/marca nella pellicola e si sviluppa mediante adeguati artifici che consentono di concentrare l’attenzione dello spettatore sul prodotto/marca, senza distogliere il suo interesse dalla scena e dall’azione del film.
- Presentazione ‘pianificata’ di prodotti e marche - La collocazione di marche e prodotti all’interno delle pellicole permette una ambientazione naturale per i prodotti che sono presentati in situazioni concrete di utilizzo, convenzionale o non convenzionale. Il filmato cinematografico consente infatti l’utilizzo di colore, movimento e suono, e permette di presentare prodotti e marche in modo ‘ottimale’, spesso con tempi e qualità di esposizione non eguagliabili da altri strumenti di comunicazione.
- Interesse attivo dell’audience - Il product placement si caratterizza per operare sull’interesse attivo dell’audience e per la possibilità di sfruttare il coinvolgimento emotivo del pubblico esposto alla comunicazione. L’attenzione con cui le persone seguono lo sviluppo delle scene di un film ed il coinvolgimento emotivo che le rende partecipi dell’azione e del clima ricostruiti, sono del tutto irripetibili con altri strumenti di comunicazione aziendale.
- Livello predeterminato di affollamento - Una ulteriore caratteristica del product placement è riferita alla predeterminabilità dell’affollamento di prodotti e marche presenti nella pellicola cinematografica, cioè nel supporto che veicola la comunicazione aziendale. Un elevato affollamento comporta tipicamente una minore visibilità delle comunicazioni aziendali veicolate, quindi una minore efficacia dello strumento di comunicazione attivato. Nel product placement l’affollamento è solitamente contenuto e trova il primo limite nel film stesso. Il successo di una pellicola, con i ricavi che ne derivano, è infatti subordinato all’apprezzamento di pubblico e critica, e le case di produzione cinematografica devono quindi limitare il product placement all’interno dei film. L’affollamento trova allora un vincolo naturale nella capacità del pubblico di accettare la presenza delle marche nelle scene: il ‘placement’ non deve essere percepito come interruzione, ma deve essere accolto come elemento che valorizzi lo sviluppo dell’azione. Tale soglia, evidentemente, è estremamente variabile e dipende in grande misura dal profilo del pubblico target.
- Elevata segmentazione dell’audience - Il product placement consente inoltre una segmentazione tipologica del pubblico che raggiunge. Ciascuna pellicola cinematografica si caratterizza infatti per una propria identità, di norma evidente anche nei trailer promozionali, finalizzata ad attrarre specifiche fasce di pubblico. In questo modo, il product placement dispone di un supporto ‘molto segmentante’, idoneo a veicolare la comunicazione aziendale a pubblici specifici e ben delineati nel loro profilo distintivo.
- Presentazione di categorie di prodotto con vincoli e limiti di pubblicità - Con il product placement è possibile presentare categorie di prodotto bandite dalla comunicazione pubblicitaria. Alla finzione cinematografica è, in questo senso, concesso un più ampio margine di libertà rispetto a quanto non possa essere ammesso per la comunicazione aziendale di tipo tradizionale, come quella pubblicitaria.
- Gradualità di investimento - Infine, il product placement permette di essere utilizzato con investimenti graduali, che ne rendono molto flessibile l’uso. In particolare, il product placement è più flessibile della pubblicità che, operando sulla base della frequenza e della ripetizione del messaggio, impone soglie minime di investimento, comunque rilevanti e dipendenti dall’attività competitiva dello specifico settore.
(i limiti qui sotto esposti si rifanno ad esperienze per lo più osservate per attività di PP inserite in feature film distribuiti nelle sale cinematografiche)
- Tempi e modi di fruizione derivanti dal prodotto cinematografico - La gradualità dell’investimento, aspetto certamente vantaggioso per l’utilizzo dello strumento, si contrappone all’impossibilità di ripetizione del messaggio che rappresenta uno specifico limite del product placement come strumento di comunicazione aziendale.
- Frequenza e ripetizione del messaggio, indispensabili in pubblicità per contrastare l’attenzione passiva dell’audience e per ritardare la naturale caduta del ricordo, sono invece caratteri preclusi al product placement che, di norma, permette di raggiungere il segmento target una unica volta.
Con riguardo ai tempi ed ai modi di fruizione del prodotto cinematografico, bisogna ricordare come il successo e la diffusione di una pellicola siano tipicamente non programmabili a priori. In tal senso, accanto a film ad elevata diffusione e notorietà a livello nazionale ed internazionale, si affiancano pellicole di scarso successo. Anche noti registi e attori, sostenuti spesso da consistenti investimenti pubblicitari, possono dare vita a film poco apprezzati, per i quali la vita utile si limita al passaggio per poche serate in un ridotto numero di sale cinematografiche.
Il ‘placement’, associandosi ai film, ne ‘subisce’ in tal modo il successo o l’insuccesso. Nel primo caso, può quindi trovare diffusione a livello nazionale ed internazionale oltre che sui circuiti televisivi e di home video, talvolta anche con opportunità di ripetizione della visione da parte dei medesimi soggetti. Nel secondo caso, quando invece il film è un insuccesso, anche il ‘placement’ che vi trova spazio resta esposto alla visione di pochi ‘pionieri’ e difficilmente accede ad ulteriori canali di diffusione.
- Completa programmabilità delle scene - Il product placement consente una programmazione molto dettagliata delle scene in cui compare il prodotto/marca, garantendo alle imprese promotrici la corretta veicolazione dell’identità dell’offerta aziendale. Tuttavia, gli effetti del ‘placement’ sulla conoscenza di marca non sono programmabili in alcun modo, in quanto dipendono dall’apprezzamento del pubblico che risulta influenzato da un ampio numero di fattori, in prevalenza non controllabili dall’azienda promotrice (il gradimento del film, le percezioni associate al ‘placement’ dell’offerta o della marca aziendale, la comunicazione promozionale di supporto alla diffusione della pellicola, i giudizi della critica, ecc.)
Note
[1] Informazioni estratte da varie fonti; fonte principale: “Occulta sarà tua sorella” di G. Corti, (2004) ed. Castelvecchi
[2] Risulta evidente come non sia facile sviluppare in uno spot pubblicitario convenzionale della durata di circa 30 secondi un contenuto narrativo originale in grado di risvegliare l’attenzione dell’audience.
[3] Il marketing tribale http://www.alleanzaribelle.org/1/post/2008/05/marketing-tribale.html
[4] Il marketing virale http://www.alleanzaribelle.org/1/post/2008/05/marketing-virale.html
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Francesco C. Betti |
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