Investire sulla Responsabilità Socialea cura di V.Dublino con la collaborazione di I. Simonelli & D. Varsalona Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Suor Orsola Benincasa Settimana di riflessioni: “Media, Cultura & Società: promuovere valori culturali e spirituali nella Società dell’Informazione” Definizione Per Responsabilità Sociale d'Impresa, “RSI”, (o Corporate Social Responsibility, CSR) si intende l'integrazione di preoccupazioni di natura etica all'interno della visione strategica d'impresa: è una manifestazione della volontà delle grandi, piccole e medie imprese di gestire efficacemente le problematiche d'impatto sociale ed etico al loro interno e nelle zone di attività. “In un tempo in cui il settore finanziario e commerciale sta prendendo sempre più coscienza del bisogno di solide pratiche etiche, che assicurino che l'attività imprenditoriale rimanga sensibile alla sua dimensione fondamentalmente umana e sociale. Poiché la ricerca del profitto non è l'unico fine di tale attività, il Vangelo sfida gli imprenditori e le imprenditrici a esprimere rispetto sia per la dignità sia per la creatività dei loro dipendenti e dei loro clienti, nonché per le esigenze del bene comune. A livello personale, essi sono chiamati a sviluppare virtù importanti come «la diligenza, la laboriosità, la prudenza nell'assumere i ragionevoli rischi, l'affidabilità e la fedeltà nei rapporti interpersonali, la fortezza nell'esecuzione di decisioni difficili e dolorose» (Centesimus annus, n. 32). In un mondo tentato da visioni consumistiche e materialiste, gli imprenditori sono chiamati ad affermare la priorità dell'«essere» sull'«avere»”[1]. [1] Papa Giovanni Paolo II, Conferenza su «L'imprenditore: responsabilità sociale e globalizzazione», Dal Vaticano, 3 marzo 2004. La Responsabilità Sociale d’Impresa può essere considerata come un valore aggiunto per il profitto delle aziende e per il benessere della società? Introduzione Negli ultimi anni abbiamo assistito all’evoluzione del concetto di “servizio pubblico” da una prospettiva soggettiva (in cui il servizio è considerato tale in quanto l’ente che lo elargisce è pubblico) ad una oggettiva che si focalizza sul tipo di servizio al di là del soggetto che lo fornisce [1]. Ciò è sancito a livello giuridico dall’articolo 41, comma 3 della Costituzione italiana che afferma: “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La dimensione sociale quindi non è più solo prerogativa dello Stato e delle sue istituzioni, ma anche degli enti privati come imprese e associazioni [2]. E’ proprio per questo che si può parlare di una Responsabilità Sociale d’Impresa. Oltre a ciò bisogna considerare come la globalizzazione, l’integrazione dei mercati e le nuove tecnologie abbiano cambiato in modo significativo il modo di fare impresa: ormai, come acutamente afferma Zygmunt Bauman “il n’y a pas hors du monde…non esiste nessun luogo esterno, nessuna via di fuga o posto dove ripararsi, nessuno spazio alternativo dove isolarsi e nascondersi. Nessun posto in cui uno possa affermare con un qualche grado di certezza di trovarsi chez soi, libero di fare ciò che vuole, di perseguire i propri obiettivi e considerare tutto il resto irrilevante” [3]. E’ proprio partendo da questa constatazione che nasce l’esigenza di un nuovo approccio all’agire da parte dell’impresa, un agire che deve tenere conto degli interessi di tutti i suoi interlocutori (stakeholder) e delle ripercussioni di tipo sociale e ambientale che può avere nel medio-lungo termine. In questo contesto si sviluppa il pensiero di un agire socialmente responsabile. Un diverso approccio al modo stesso di fare impresa implica, però, non solo un cambiamento nelle decisioni strategico-economiche, ma anche una trasformazione di quella che è la stessa cultura organizzativa dell’azienda, che assume nuovi valori e punti di riferimento e adotta diverse strategie di comunicazione sia verso l’interno sia verso l’esterno. Utilizzando il linguaggio della psicologia organizzativa di Weick [4] potremmo affermare che l’azienda, trovandosi davanti all’esigenza di dare un senso alla realtà che sta cambiando, inizia a produrre nuove mappe cognitive grazie alle quali definisce la sua vision e la sua mission. Ne consegue che l’introduzione di approcci socialmente responsabili all’interno di un’azienda dà un impulso alla creazione di una cultura organizzativa imperniata su nuovi valori. Tra i fattori che hanno maggiormente contribuito ad innescare il dibattito su questi temi vi sono:
1. Per una cultura della responsabilità Strumenti e pratiche di responsabilità sociale sono oggi molto di moda. Spesso, tuttavia, l’agire sociale risulta “schiacciato” sul mero rispetto degli obblighi di legge o su logiche promozionali e opportunistiche. In questo contesto il ruolo dell’ente pubblico appare cruciale in qualità di promotore di una “sana” cultura della responsabilità e di garante delle regole del gioco. Il dibattito recente pone sempre più attenzione al ruolo dell’impresa, non solo come attore economico all’interno della società ma, più in generale, come “istituzione sociale”. Obiettivo primario dell’impresa sta diventando sempre più la capacità di creare valore, remunerando in modo adeguato i fattori della produzione e introducendo nel mercato beni e servizi competitivi e che migliorino la qualità della vita. Le imprese, dunque, non sono più giudicate solo per la loro performance economica, ma anche per il modo in cui il risultato economico è stato perseguito, sia in termini di qualità dei prodotti e servizi offerti, sia in termini di correttezza e trasparenza dei comportamenti agiti nei confronti dei propri interlocutori pubblici e privati [5]. La stessa Unione europea, a partire dal Consiglio europeo di Lisbona (marzo 2000), ha in più occasioni lanciato appelli alle imprese perché perseguano il duplice obiettivo della competitività e della coesione sociale. Ma che cosa significa per l’impresa essere socialmente responsabile? Anche in considerazione della varietà di discipline che si sono interessate e si interessano al tema della social responsibility, le definizioni sono molteplici, ma a oggi non si è arrivati a una formulazione unanimemente condivisa. Spesso il concetto di Responsabilità sociale d’impresa (o Corporate social responsibility, Csr) viene utilizzato con accezioni diverse, diventando una sorta di “contenitore” in cui vengono fatti rientrare approcci, iniziative e pratiche diversificate [6]. Tra le numerose definizioni, quella più conosciuta e accreditata è, crediamo, quella che ne dà il Libro Verde della Commissione Europea (2001) [7], secondo cui la responsabilità sociale d’impresa è: “l’integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro attività e nei loro rapporti con le parti interessate (stakeholder). Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là, investendo ‘di più’ nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate”. Da questa definizione è possibile far discendere almeno tre elementi caratterizzanti la Rsi [8]:
Tuttavia, la mancanza di una cultura diffusa su questi temi, da parte sia della comunità sia delle stesse imprese in merito alle opportunità e agli strumenti agibili, viene unanimemente considerata come il principale fattore inibente l’adozione di pratiche effettivamente responsabili. Oltre a questo, le imprese evidenziano anche altri fattori di contesto potenzialmente di ostacolo allo sviluppo della Rsi quali, ad esempio, la carenza di risorse economiche, la carenza di competenze tecniche e di risorse umane da destinare a tale funzione e lo scarso interesse dei consumatori finali nei confronti di queste azioni. Ecco allora che in questo quadro il ruolo dell’ente pubblico appare cruciale in qualità di promotore di una cultura della Rsi e di garante delle regole del gioco [9]. Innanzitutto, le istituzioni dovrebbero agire un ruolo regolativo e di tutela, assicurando il rispetto dei diritti umani e degli standard lavorativi e garantendo “sani” livelli di competitività del mercato che disincentivino, a monte, comportamenti socialmente irresponsabili. Ma le amministrazioni pubbliche dovrebbero anche svolgere un’azione di sensibilizzazione sul tema attraverso la promozione della conoscenza e delle potenzialità della responsabilità sociale, anche attraverso la valorizzazione delle esperienze più significative a oggi esistenti [10]. A livello locale, l’ente pubblico dovrebbe promuovere la raccolta, l’elaborazione, e la divulgazione di dati e informazioni utili alla conoscenza degli strumenti e delle pratiche di social responsibility agite sul territorio, anche per finalizzare al meglio la programmazione territoriale delle politiche e dei servizi rivolti alle imprese. La realizzazione di studi e ricerche mirate all’approfondimento di situazioni locali, quali quelle descritte nel presente numero, rappresentano sicuramente un primo passo in tal senso. A livello provinciale e/o regionale, la costituzione di Osservatori sulle pratiche di sostenibilità e responsabilità sociale d’impresa crediamo possa rappresentare l’opportunità di valorizzare e sistematizzare al meglio le conoscenze ed esperienze territoriali su questi temi. Ma l’Osservatorio non deve essere inteso solo come “struttura tecnica”, cioè come collettore e divulgatore di dati e informazioni sulla responsabilità sociale, ma anche e soprattutto come luogo (fisico o virtuale) di pensiero e di confronto tra attori sociali, siano essi istituzioni, imprese e comunità locale, mirante allo sviluppo di nuove iniziative e nuovi piani di azione integrati sui temi dello sviluppo sociale sostenibile [11]. 2. Responsabilità Sociale d'Impresa, “RSI” Per Responsabilità Sociale d'Impresa, “RSI”, (o Corporate Social Responsibility, CSR) si intende l'integrazione di preoccupazioni di natura etica all'interno della visione strategica d'impresa: è una manifestazione della volontà delle grandi, piccole e medie imprese di gestire efficacemente le problematiche d'impatto sociale ed etico al loro interno e nelle zone di attività. La prima proposta risale a Bowen che nel 1953 definisce la Responsabilità Sociale d’Impresa come “il dovere degli uomini d’affari di perseguire quelle politiche, di prendere quelle decisioni, di seguire quelle linee di azione che sono desiderabili in funzione degli obiettivi e dei valori riconosciuti dalla società” [12]. Numerose altre versioni si sono aggiunte nel corso degli anni, ricordiamo qui solo quelle più significative e diffuse. A livello europeo si associa la RSI “all’integrazione su base volontaria dei problemi sociali ed ambientali delle imprese nelle loro attività commerciali e nelle loro relazioni con le altre parti” [13] secondo la definizione presentata nel Libro Verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese” dalla Commissione delle Comunità Europea nel luglio 2001. Questa definizione mette in luce le caratteristiche pregnanti della CSR, ovvero:
Un’altra formula utilizzata e condivisa da molti è quella del World Business Council for Sustainable Development che definisce la RSI come il continuo impegno dell’azienda a comportarsi in maniera etica e a contribuire allo sviluppo economico, migliorando la qualità della vita dei dipendenti, delle loro famiglie, della comunità locale e più in generale della società” [14]. Anche in questo caso si evidenzia in modo chiaro quello che è l’oggetto della RSI: l’impatto dell’operare dell’azienda nella realtà sociale e ambientale con cui esiste un rapporto di interdipendenza imprescindibile. Un ulteriore aspetto della CSR. Messo in luce da John L. Campbell in un suo articolo apparso sulla rivista “American Behavioral Scientist”[15] sostiene che le due condizioni fondamentali per poter affermare che un’azienda ha un comportamento socialmente responsabile sono la consapevolezza di non recare danno agli stakeholder (“they must not knowingly do anything that could harm their stakeholders” [16]) e, nel caso dovessero arrecare un danno inconsapevolmente, la modifica della condotta sbagliata non appena questa venga scoperta e portata alla sua attenzione. La definizione di Campbell dà un’impostazione più critica al tema della responsabilità sociale, in quanto prende in considerazione anche un concetto largamente ignorato nelle definizioni convenzionali: quello di irresponsabilità sociale. Ecco perché un’azienda molto impegnata sul fronte della tutela ambientale o dei servizi verso la comunità locale che però persegue politiche discriminatorie per l’assunzione verrebbe considerata socialmente responsabile secondo le definizioni “tradizionali”, ma non da quella proposta da questo autore. Le considerazioni fatte sinora ci introducono alla complessità del discorso sulla CSR, un mondo ancora in piena espansione ed evoluzione che, proprio per questo, oltre agli aspetti positivi e innovativi, presenta numerose contraddizioni e lacune. Ricordando una frase di Davide Cefis, Direttore Comunicazione di Banca Nazionale del Lavoro (BNL) che sembra riassumere bene la prospettiva in cui la CSR andrebbe intesa: “la Responsabilità Sociale d’Impresa rappresenta sempre più il paradigma con cui un’azienda si relaziona con il mondo esterno, comunica la propria identità e cultura. E’ una risorsa che fa crescere l’impresa, ma che richiede attenzione e cura costante affinché porti benefici tangibili” [17]. Si tratta di un concetto innovativo e molto discusso, espresso anche nel 1984 da Robert Edward Freeman nel suo saggio "Strategic Management: a Stakeholder Approach" (Pitman, London 1984). Ma già nel 1968, in "Strutture integrate nel sistema distributivo italiano", l'economista italiano Giancarlo Pallavicini afferma che l' attività d' impresa, pur mirando al profitto, deve tenere esplicitamente presenti una serie di istanze interne ed esterne all' impresa, anche di natura socio-economica, per la misurazione delle quali viene proposto il "metodo della scomposizione dei parametri” [18]. Un'impresa che adotti un comportamento socialmente responsabile, monitorando e rispondendo alle aspettative economiche, ambientali, sociali di tutti i portatori di interesse (stakeholders) coglie anche l'obiettivo di conseguire un vantaggio competitivo e massimizzare gli utili di lungo periodo. Risulta pertanto evidente come l’impegno “etico” di un’impresa sia entrato direttamente nella cosiddetta catena del valore prospettando così l’utilizzo di nuovi percorsi e leve competitive coerenti con uno “sviluppo sostenibile” per la collettività. All’interno del mercato globale e locale, le imprese non hanno, infatti, un’esistenza a sé stante, ma sono enti che vivono e agiscono in un tessuto sociale che comprende vari soggetti, tra cui spicca sicuramente una società civile molto attenta all’operato imprenditoriale. E’, quindi, di fondamentale importanza l’attività dedicata al mantenimento delle relazioni con l’esterno, verso i cosiddetti stakeholders (soggetti interessati, per es. organizzazioni non governative, sindacati, mass-media ecc.). Nei sistemi di gestione aziendale, l’attenzione agli stakeholders è divenuta di importanza cruciale per le imprese e spesso lo sviluppo nel tempo di relazioni positive con tali soggetti può diventare un elemento di valore aggiunto per l’impresa. Ma il comportamento più o meno etico di un’impresa interessa potenzialmente tutti i cittadini, ai quali non bastano astratte dichiarazioni di principi e valori: essi esigono ormai un impegno quotidiano e credibile, frutto di una precisa politica manageriale e di un sistema aziendale organizzato a tal fine [19]. 3. Come si traduce in pratica il concetto di Responsabilità Sociale delle Imprese Il concetto di Responsabilità Sociale delle Imprese prevede l’integrazione di istanze sociali e ambientali nella prassi aziendali. Quando ci si trova ad affrontare tali tematiche per la prima volta, è meglio procedere per gradi, concentrandosi su uno o più temi rilevanti per l’azienda e che si ritengono realizzabili nel breve periodo. Non si dovrebbe dimenticare inoltre di comunicare all’esterno cosa si sta facendo [20]. L’azienda potrebbe ad esempio investire nelle risorse umane, offrendo la possibilità di partecipare a corsi di formazione dei cui risultati potranno beneficiare sia lavoratori, sia l’azienda stessa. Oppure potrebbe introdurre assetti che tutelino i lavoratori, ad esempio come ha fatto l’impresa slovena produttrice di letti Meblo Jogi. Questa impresa ha capito che comunicare alle risorse umane quanto il lavoro che svolgono sia importante e ascoltare le loro esigenze può essere una fonte di successo per l’azienda. I passi compiuti da Meblo Jogi hanno contribuito a migliorare il livello di fedeltà del personale e tale azienda è stata insignita di uno speciale premio per l’impegno a favore delle donne. Un’impresa potrebbe inoltre sostenere una buona causa e incoraggiare le risorse umane a svolgere del volontariato per la comunità. L’impegno che l’azienda inglese Hanley Economical Building Society dimostra concretamente come sponsorizzare e partecipare a progetti della comunità locale rappresenti un completamento vitale per gli obiettivi dell’azienda stessa. Il chiaro nesso che la Hanley nota fra redditività aziendale e benessere della comunità locale dovrebbe essere d’esempio ad altre realtà imprenditoriali. Oltre alla gestione interna, un’impresa dovrebbe valutare la gestione dei rapporti con il territorio, la comunità locale e le istituzioni pubbliche. Le piccole imprese si dimostrano spesso abili nel gestire queste relazioni, dal momento che esse stesse sono parte integrante e visibile della comunità in cui operano. Il potere del coinvolgimento sociale e dell’importanza di costruire relazioni viene illustrato nel case study su Koffie Kàn, un’impresa belga che si occupa di torrefazione del caffé, il cui staff è formato da tre persone. Koffie Kàn si è impegnata sul territorio partecipando attivamente alla vita della comunità, cosa che ha contribuito notevolmente alla riuscita economica dell’azienda. Le imprese potrebbero inoltre impegnarsi sul fronte della tutela ambientale [21]. L’ottimizzazione energetica, la prevenzione dell’inquinamento, la minimizzazione dei rifiuti e il riciclaggio possono portare a riduzioni dei costi e favorire quindi la vitalità economica di un’impresa. Tali iniziative possono migliorare inoltre i rapporti con la comunità, gli enti di controllo e altre istituzioni. Possono anche far nascere nuove opportunità commerciali, con clienti che siano alla ricerca di fornitori ‘verdi’. Varie attività testimoniano l’impegno dell’azienda a ridurre il volume degli imballaggi e ad aumentare la parte riciclata. Nei primi anni ’90 , in quasi tutto il mondo, la McDonald’s ha sostituito i vecchi sacchetti d’asporto fabbricati con cellulosa vergine decolorata con nuovi sacchetti di carta riciclata e non decolorata. Nello stesso periodo, l’azienda ha acquistato prodotti fabbricati con materiale di riciclo,prodotti dall’azienda campana SEDA s.p.a. di proprietà della famiglia D’Amato, da usare nella costruzione e nell’operatività dei suoi ristoranti di tutto il mondo, per oltre 4 miliardi di dollari, per controbilanciare un maggiore impatto ambientale, ottenendo tra l’altro notevoli e concreti benefici commerciali di fidelizzazione e soddisfazione dei clienti. Non è necessario affrontare tutte queste tematiche contemporaneamente. Stabilendo delle priorità e concentrando gli sforzi sulle iniziative più affini agli scopi dell’azienda si raggiungeranno sicuramente risultati migliori. Si possono poi intraprendere ulteriori iniziative, dopo aver riscontrato i benefici tangibili derivanti dalle prime. Per un’impresa potrebbe essere interessante anche collaborare con organizzazioni o altre realtà aziendali e promuovere strategie di gestione aziendale socialmente responsabile. Si potrebbe partecipare ad esempio a programmi promossi dal Governo o dagli Enti Locali, o, ancora, aderire ad associazioni imprenditoriali particolarmente interessate al tema della responsabilità sociale delle imprese. Si potrebbe anche portare avanti uno specifico progetto di RSI insieme ad un’altra impresa, magari quella di un proprio fornitore [22]. Nella maggior parte dei casi, stabilire collaborazioni del genere non costa nulla ad un’impresa. E qualora ciò comportasse dei lievi costi, con un’attenta individuazione e gestione dell’investimento scelto ci si potrebbe garantire un ampio ritorno in termini di notorietà, soddisfazione delle risorse umane, miglioramento della reputazione dell’impresa e accesso a nuovi mercati [23]. 4. Il caso italiano di Ferrarelle: “L’acqua che fa del bene” Ferrarelle Spa si è impegnata in un importante progetto dell’Unicef “Acqua e igiene in Eritrea” e porterà l’acqua potabile in 30 scuole del paese africano. Il progetto “Acqua e igiene in Eritrea” ha come obiettivo quello di migliorare le condizioni igienico sanitarie in 30 scuole a beneficio di circa 9.000 bambini e bambine. Le scuole saranno attrezzate con un sistema idrico in grado di soddisfare le esigenze dei bambini durante la giornata e grazie all’installazione di un serbatoio d’acqua di 4,5 metri cubi sarà possibile raccogliere anche l’acqua piovana. L’impianto idrico assicurerà l’approvvigionamento d’acqua pulita anche negli anni a venire e la sua manutenzione sarà affidata alle scuole stesse con la supervisione di un comitato locale. La realizzazione del sistema idrico ha anche una rilevanza socio-culturale. In Eritrea, infatti, sono sopratutto le bambine a dover prendere l’acqua alle fonti per tutta la famiglia, fonti che sono spesso molto lontane e non sempre alimentate da acque potabili. Inoltre, nelle scuole dove manca l’acqua, le bambine non hanno la possibilità di accedere a servizi igienici separati dai loro compagni maschi. Questo, in aggiunta ai continui viaggi per la raccolta d’acqua, sono le cause principali dell’abbandono della scuola da parte delle bambine. Assicurando l’accesso continuo all’acqua, il progetto non solo porterà l’acqua dove non c’è, ma potrà anche dare la possibilità a migliaia di bambini e bambine di frequentare la scuola, favorendo, al contempo, la crescita futura del paese. Il progetto prevede la destinazione di più del 10% del ricavato delle vendite delle confezioni da 6 di Ferrarelle litro e mezzo identificate dalla grafica legata all’operazione “L’Acqua che fa del Bene”. L’impegno economico di Ferrarelle Spa è di circa 350.000 Euro, che saranno destinati alla realizzazione dei pozzi e delle opere di idrizzazione che forniranno l’acqua alle 30 scuole eritree che pone come traguardo per il 2015 il dimezzamento nel numero di persone che ancora non hanno accesso all’acqua potabile e a servizi igienici adeguati, nonché la realizzazione di infrastrutture igieniche in tutte le scuole del mondo. Questo progetto è un intervento strutturale che resterà alla popolazione per sempre. Lo spirito dell’iniziativa è rivolto non solo alla popolazione eritrea, ma anche ai consumatori stessi, che contribuiscono al progetto semplicemente continuando a scegliere, Ferrarelle [24]. 5. Sintesi conclusiva Per diventare socialmente responsabile, l'azienda introduce pratiche discrezionali ed effettua investimenti intesi a migliorare il benessere della comunità e a proteggere l'ambiente. Le principali differenze tra l'adozione di pratiche di business socialmente responsabili e altre iniziative benefiche includono la focalizzazione sulle attività discrezionali: l'interpretazione in senso lato del termine comunità; un'accezione più ampia dei concetti di salute e sicurezza, che ricomprende i bisogni psicologici ed emotivi. Nell'ultimo decennio c'è stato un evidente spostamento dall'adozione di pratiche di business più responsabili per effetto di vincoli normativi, lamentele dei clienti e pressioni dei gruppi di interesse, alla ricerca proattiva di soluzioni aziendali ai problemi sociali e all'incorporazione di nuove pratiche di business a supporto di tali problemi. A questo spostamento contribuiscono diversi fattori: la consapevolezza che delle pratiche di business socialmente responsabili possono effettivamente incrementare i profitti; lo sviluppo di un mercato globale, caratterizzato da una competizione più intensa e da più alternative per i consumatori; il desiderio di accrescere la produttività e il tasso di ritenzione dei lavoratori; la maggiore visibilità delle attività socialmente responsabili (o irresponsabili) delle imprese. Quasi tutte le iniziative di questo tipo comportano la modifica di politiche o procedure interne, il reporting esterno di informazioni sui consumatori e sugli investitori, misure per favorire l'accesso e tutelare la privacy dei consumatori, e decisioni relative ai fornitori e alla localizzazione delle unità produttive e commerciali. I conseguenti benefici finanziari derivano dalla riduzione dei costi operativi, dalla percezione di incentivi finanziari messi a disposizione dagli enti regolatori e dall'incremento della produttività e del tasso di ritenzione dei dipendenti. Anche i benefici di marketing sono numerosi: più apprezzamento da parte della comunità, creazione di una preferenza per la marca, consolidamento del posizionamento di marca, miglioramento qualitativo dei prodotti, e rafforzamento dell'immagine aziendale. Queste attività consentono anche di costruire relazioni positive con partner esterni come enti regolatori, fornitori e organizzazioni non profit. Gli esperti ricordano che le motivazioni addotte dalle aziende per l'adozione di pratiche di business nuove e più responsabili verranno messe in dubbio, le loro azioni verranno giudicate, e i risultati verranno valutati criticamente. I manager aziendali possono attenuare lo scetticismo e il criticismo degli osservatori esterni agendo in un'ottica di prevenzione; scegliendo una problematica sociale che risponde a un'esigenza di business, oltre che a un bisogno sociale; prendendo un impegno di lungo termine; promuovendo l'entusiasmo dei dipendenti; sviluppando e implementando infrastrutture a sostegno della promessa e attivando comunicazioni aperte, sincere e oneste. Le decisioni principali in tema di adattamento e implementazione di pratiche socialmente responsabili si focalizzeranno sulla scelta della problematica sociale che verrà sostenuta dall'iniziativa; sullo sviluppo di piani strategici integrati per l'implementazione e sulla fissazione di obiettivi misurabili e di piani per la rilevazione e il reporting dei risultati [25]. Reference Introduzione al Product Placementa cura di V. Dublino Definizione Il product placement (o product-tie in) è una sofisticata tecnica di comunicazione aziendale, che consiste nel posizionare un prodotto o un brand all’interno di una struttura narrativa in maniera precostituita riuscendo ad integrarsi ad esso. Il Product Placement non è la Pubblicità Occulta (cioè la semplice bottiglia sul tavolo dietro l’attore protagonista o del pacchetto di sigarette in primo piano) un vero e proprio studio del posizionamento di un Brand o di un Prodotto/servizio fatto da esperti del settore che tenga conto dei caratteri tangibili ed intangibili dell' Oggetto da inserire nella struttura narrativa, e nello stesso tempo delle necessità e delle caratteristiche del formato (cinematografico, fiction televisiva, teatrale, radiofonica, videogioco, ..) con cui viene resa al pubblico la struttura narrativa. Chi fa del product placement, infatti, per poterlo rendere efficace al meglio deve innanzitutto tener presente le "regole del mezzo" (il linguaggio) e del contesto in cui si va a posizionare il prodotto nella narrazione e, quindi, agire di conseguenza. Il product placement non può essere equiparato a nessuno degli altri strumenti di comunicazione d’impresa solitamente usati. E' una tecnica a se stante, con caratteristiche uniche. Potrebbe essere paragonabile alla sponsorizzazione per alcune caratteristiche, per altre alla pubblicità e per altre ancora alla publicity, mantenendo però profonde differenze tra ogni una di queste tecniche. Uno dei più grandi vantaggi del product placement, rispetto alle forme di pubblicità classica, ad esempio, è il fatto che questa tecnica è strettamente correlata all’attenzione con cui lo spettatore si pone nei confronti di ciò che vede ed ascolta. La pubblicità è sicuramente uno tra i più importanti strumenti di comunicazione d’impresa, ma ha come grande difetto, quello di lavorare sulla “attenzione passiva” dell’audience. La sua visione, infatti, non essendo richiesta dallo spettatore che è costretto a guardarla, riscontra nell’audience una soglia di attenzione bassa. Una comunicazione d’impresa che è caratterizzata da un’intrinseca soglia di attenzione bassa richiede, per avere efficacia sul target di riferimento, una frequenza reiterata di trasmissione del messaggio molto elevata o deve essere caratterizzata da un Contenuto narrativo in grado di risvegliare l’attenzione del target: un obiettivo difficile da perseguire con spot commerciali tradizionali [2]. Con l’impiego del product placement non c’è bisogno di risvegliare l’attenzione dello spettatore, egli è già attivo nella sua visione di un film, di una fiction, di una sit-com. E’ stato Lui a scegliere di vedere quel determinato prodotto ed sempre Lui a voler seguire con la massima attenzione tutto ciò che accade sullo schermo, compreso il product placement. All’interno di una storia quanto più è credibile il posizionamento di un prodotto o di un brand, tanto più è accettato dallo spettatore e risulta, quindi, efficace. Nell’adottare questa tecnica promo-comunicazionale, le Aziende, per poter studiare un buon posizionamento, sono quindi costrette ad adeguarsi alle regole narrative, in modo da far risultare l’uso dei loro prodotti e/o servizi reali, in quel contesto narrativo e di conseguenza credibili da parte dello spettatore. Molte volte il prodotto, per integrarsi al meglio con la storia, può perfino arrivare ad essere inserito in maniera non convenzionale o in un modo che potrebbe sembrare negativo. Definizione concettuale della tecnica pubblicitaria Gerardo Corti nel suo studio pubblicato su "Occulta sarà tua sorella", per aiutarci a comprendere i meccanismi del product placement ci evidenzia alcuni fra quelli che sono ritenuti i migliori posizionamenti di product placement degli ultimi anni. Lo spedizioniere espresso Fedex nel film “Cast Away”; la birra Guinness in “Minority Rèport”; il quotidiano Usa Today in “Se scappi ti sposo” e lo shampoo Head & Shoulder in “Evolution”. In Cast Away Fedex ha ottenuto un’enorme ritorno di notorietà di marca, il marchio esce più che rafforzato nonostante un suo aereo precipiti e una grossa spedizione vada dispersa. In Minority Report la birra Guinness non viene bevuta, ma il suo cartellone serve per smascherare l’identità dell’eroe. All’inizio di Se scappi ti sposo la testata Usa Today licenzia il giornalista Ike Graham (Richard Gere), cosa che gli permetterà di conquistare la sfuggente Maggie Carpenter (Julia Roberts). In Evolution abbiamo poi il caso estremo in cui lo shampoo Head & Shoulder della Procter & Gamble viene mostrato come la migliore arma per distruggere gli alieni. Tutti ottimi posizionamenti alternativi che solo aziende esperte di product placement osano affrontare. Tutti brand americani. Il numero di case history di product placement di origine europea è ancora molto esiguo, nonostante il product placement sembra essere nato contemporaneamente all’avvento del cinema. Da parte della maggior parte delle aziende europee si evidenzia ancora una profonda diffidenza: se queste dovessero pubblicizzare, ad esempio, una crema per il viso, pretenderebbero di farlo come in uno spot, con un’attrice che stila un elenco infinito dei suoi principi attivi. Questo posizionamento verrebbe percepito dallo spettatore come “pubblicità occulta” e, quindi, rifiutato in quanto ritenuto come qualcosa di subdolo. Al contrario un posizionamento che metta in gioco il marchio farebbe divertire lo spettatore, costringendolo a ricordare il prodotto. In questa tecnica i maestri sono, ovviamente, gli americani, seguiti a ruota dagli orientali (Hong Kong e Giappone in testa). Gli americani hanno potuto superare una certa diffidenza verso questo strumento grazie ai successi ottenuti da alcune aziende e alle relative occasioni mancate da altre. Il caso più famoso è sicuramente quello capitato alla M&M’s nel 1981, quando fu contattata dalla Amblin Entertainment (la compagnia di produzione di Steven Spielberg) per posizionare il proprio prodotto nel film “E.T. L’extraterrestre”. L’idea del regista era quella di far attirare E.T. dal piccolo Elliott con delle praline di cioccolato, in modo da farlo arrivare fino in camera sua e creare il primo contatto e la prima amicizia tra uomo e alieno. La Mars (interpellata per il brand M&M’s) rifiutò il progetto non ritenendo opportuno far mangiare il proprio prodotto a un piccolo essere deforme. La produzione passò l’offerta alla Hershey per il suo prodotto Reeve’s Pieces, competitor minore di M&M’s, che deteneva una piccolissima quota di mercato. La Hershey accettò e in poco tempo (grazie al successo del film e al fatto che nel film le praline di cioccolato erano catalizzatrici dell’amicizia fra l’alieno e il bambino) il brand aveva fatto presa sul pubblico. I Reeve’s Pieces cominciarono a conquistare quote di mercato a scapito della M&M’s, trovandosi in pochissimo tempo a competere agli stessi livelli, raggiungendo un incremento del 66% delle vendite nel trimestre successivo all’uscita del film. A fronte di un investimento relativamente modesto, il product placement permise ai Reeve’s Pieces non solo di competere con il concorrente più temibile, ma offrì la possibilità di essere presente nell’immaginario del suo target di riferimento ogni qualvolta un bambino avesse avuto voglia di vedere o rivedere la storia di E.T. Metodi di posizionamento Ogni volta che si parla di product placement ad un profano, la definizione che comunemente si utilizza per far capire il concetto è quella di “pubblicità occulta nei film”, dalla quale si ottiene un molto più chiarificante: “Ah, sì! Il pacchetto di sigarette Marlboro che l’attore tiene in primo piano”. Sebbene per lo spettatore medio rimanga la concezione che questo sia il metodo con cui viene fatto il product placement, in realtà questa abitudine è caduta in disuso da parecchi anni anche per motivi legati alle norme pubblicitarie per i prodotti da fumo. Quali sono allora i metodi di posizionamento più usati? E quali funzionano di più? La semplice collocazione del marchio, del prodotto o addirittura della stessa pubblicità all’interno del film e la citazione o l’utilizzo da parte del protagonista sono tra i più diffusi. Nessuno di questi è migliore in assoluto rispetto agli altri, poiché ognuno ha la sua storia e ognuno deve riuscire a integrarsi come può all’interno di uno specifico film. In “The Truman Show” (Peter Weir, Usa, 1998), gli attori interrompevano la vita di Truman Burbank con vere e proprie promozioni pubblicitarie di biscotti, cioccolato o birra. Un altro dei posizionamenti possibili è quello dell’apparizione del brand sotto forma di cartello. Considerata la sua semplicità, questo è stato il primo dei metodi utilizzati. Cartelloni, come abbiamo visto, sono apparsi sin dai tempi dei Lumière. Il più semplice è ovviamente quello del cartello situato sulla strada del protagonista mentre questo è costretto a passare. I cartelli hanno fatto la loro comparsa ovunque, sotto forma di manifesti pubblicitari, neon, insegne o negozi e anche i posizionamenti si sono fatti sempre più interessanti. Come per tutti i metodi l’importante non è semplicemente inserire un cartello, ma far sì che lo spettatore lo trovi interessante, che lo ricordi. Per far questo sono stati utilizzati praticamente tutti i mezzi: dalle gambe di Marilyn che facevano capolino dal cartellone della Ford in “Il magnifico scherzo” (Howard Hawks, Usa, 1952), alle dichiarazioni d’amore di John Leguziano in “A Wong Foo, grazie di tutto” (Beeban Kidron, Usa, 1994), all’ossessione provocata da un cartello pubblicitario di Fernet Branca in “Bella, ricca, lieve difetto fisico cerca anima gemella” (Nando Cicero, Italia, 1973) fino ai cartelloni digitali futuristici di “Minority Report” che chiamano il protagonista per nome. Un secondo metodo, molto utilizzato, è quello di parlare del prodotto in maniera più o meno esplicita, sia richiedendolo semplicemente, sia mettendo in risalto le sue caratteristiche, sia facendolo diventare protagonista della storia oppure citandolo in qualche battuta. Nel primo caso vengono compresi gli esempi classici: il protagonista richiede il prodotto (“L’aperitivo lo pago io …. Due Cynar!“, battuta di Vittorio Gassman verso Jean Louis Trintignant in “Il sorpasso”); oppure lo offre a uno dei protagonisti (“Vuoi un Jack Daniel’s?” come chiede Michael Douglas a Sharon Stone in “Basic Instinct”; ) o lo cita in una situazione qualunque (“Staresti benissimo con un Armani” come fa Mel Gibson in “What Women Want”). Questi sono ovviamente i casi base, i più facili da inserire (in ogni film un protagonista può aver bisogno di un oggetto o di bere qualcosa), i più immediati, ma anche (a parte casi particolari) i più scontati per lo spettatore. Far citare il prodotto da uno dei protagonisti, o esaltarne le caratteristiche, è stato un sistema utilizzato fin dal principio e raggiunse la massima diffusione con i film degli anni Settanta. Il suo impiego è arrivato a livelli tali che in “The Retum of the Killers Tomatoes” George Clooney sembra farne una parodia nella scena dell’inseguimento con la sua Honda 850 dove, prima di correre, ne spiega tutti gli aspetti tecnici. Nel corso degli anni questa tecnica ha subito una profonda evoluzione: le qualità dei prodotti vengono citate implicitamente nel discorso, come fa Catherine Zeta Jones in “Hunting, Presenze” laddove si vanta della sua classe dicendo che gli stivali di Prada devono essere comprati a Milano o a New York. O come succede in “Ronin” dove per l’operazione viene chiesta da De Niro a Jean Reno “un’auto veloce e che sappia resistere agli urti come l’Audi S8. Chris Tucker in “Colpo grosso al Drago Rosso” sottolinea la sensualità di Rosaline Sanchez citando a memoria la pagina del catalogo di Victoria’s Secret descrivendo la biancheria intima che indossa il personaggio. Un’altra idea che viene sfruttata è l’inserire il nome del prodotto all’interno di una battuta divertente o di citarne il marchio con un doppio senso o in una situazione già nota allo spettatore, come può essere uno slogan pubblicitario. A volte si arriva persino a non citare il prodotto o il marchio, ma a fare riferimento a situazioni/tormentoni testimonial presenti in campagne pubblicitarie. Questo tipo di posizionamento (che utilizza il cross media promotion) funziona naturalmente solo per determinati prodotti e nelle nazioni nelle quali è stato trasmesso il determinato spot di riferimento. Pur essendo molto efficace il product placement che sfrutta il cross media promotion, lo svantaggio principale consiste nell’essere vincolato a un certo periodo di tempo, legato al periodo di trasmissione della campagna pubblicitaria e al suo successivo periodo di ricordo. L’ultimo tipo di posizionamento è il più importante: far utilizzare il prodotto ai protagonisti. Il suo uso può essere canonico, come una birra bevuta o un’auto guidata, o improprio, come il cellulare SonyEricsson di James Bond che gli salva la vita o il camion della Carlsberg che dà “un passaggio all’Uomo Ragno” durante il suo primo inseguimento per le strade di New York. Vista la rilevanza di questo tecnica pubblicitaria, le agenzie specializzate incaricate dalle Aziende studiano i modi migliori per far presa sul pubblico cercando di intervenire, in quella misura che viene consentita, sulla trama in alcuni casi in stretta cooperazione con gli sceneggiatori. Per trovare i posizionamenti più efficaci, l’azienda deve considerare alcune variabili, a seconda del risultato che vuole ottenere. Come le Marche diventano protagoniste L’utilizzo di una marca o un di prodotto può raggiungere l’apice quando questi diventano protagonisti assoluti, indispensabili per l’attore principale o addirittura determinanti per l’intera trama. Questa pratica comincia all’incirca negli anni Sessanta come ad esempio con il film “Colazione da Tiffany”: la trama si sviluppa con la protagonista che passa tutte le mattine davanti all’omonima gioielleria in New York. In “Uno, due, tre” James Cagney è il direttore della filiale della Coca Cola in una brillante satira diretta da Wilder ed ambientata Berlino Ovest. Un prodotto di marca diventa addirittura culto e star incontrastata di alcune pellicole come succede in “Herbie, il maggiolino tutto matto” che viene considerata come la più importante campagna attuata da Volkswagen per promuovere la sua utilitaria. Le best practice si susseguono affinandosi nella loro tecnica fino ad importanti posizionamenti come Fedex in Cast Away o Mini Morris in “The Italian Job”. Far diventare una marca elemento centrale di un film è una delle cose più difficili e nello stesso tempo più entusiasmanti per una Azienda che vuole impiegare questa tecnica pubblicitaria. Il brand deve riuscire a far trasparire tutte le sue caratteristiche ma, contemporaneamente, deve entrare in sintonia con lo stile della storia per non “infastidire” lo spettatore. Il pubblico deve seguire la storia, accorgendosi del prodotto sponsor, essere cosciente che sia uno sponsor e rimanerne appagato e non infastidito. Tutto questo può essere ottenuto solo con la perfetta interazione fra Azienda/Marca, casa di produzione e consulenti di product placement, ciò presuppone che si evidenzino gli estremi per poter intervenire sulla sceneggiatura, che deve entrare in perfetta comunione con il prodotto che si vuole pubblicizzare. Negli Stati Uniti dove il product placement rappresenta una componente rilevante nel reperimento di fondi per una produzione di un film, le scuole di scrittura creativa addestrano gli sceneggiatori a “pensare creativamente“ anche in funzione di eventuali prodotti o servizi che potranno essere pubblicizzati, a prescindere dalla Azienda/Marca che vorrà aderire al progetto. I seguenti elementi, sono i fattori che vengono presi in considerazione per l’analisi di una operazione di product placement Successo del film Il successo di un prodotto cinematografico, audiovisivo o di un videogioco, non è mai calcolabile a priori. Per fare delle valutazioni è necessario basarsi su dei precedenti. Esso, inoltre, va calcolato non solo sul potenziale buon risultato di botteghino, ma anche sul potenziale esito raggiungibile in tutte le successive fasi di distribuzione. Un film dopo la distribuzione nelle sale, viene distribuito in dvd, poi in pay-per-view, fino ad essere replicato nel corso degli anni n-volte sulle reti generaliste. In maniera, paradossale, la pirateria e il circuito di scambio su Internet viene preso in considerazione dall’Azienda sponsor nel calcolo quantitativo delle persone che andranno in contatto con il prodotto che promuovono attraverso il loro contributo alla produzione. Corrispondenza tra il film e il target di riferimento Il primo scopo di un’azienda che si avvicina al product placement è quello di raggiungere quantomeno il proprio target e, quindi, posizionarsi in film destinati a raggiungere lo stesso pubblico/obiettivo. Un esempio classico è quello de “L’uomo che sussurrava ai cavalli” nel quale per alcuni secondi si vede il sito Equisearch.com attraverso il quale la protagonista contatta Robert Redford. I contatti dell’azienda salirono del 400% nel giro di pochissimo tempo. Un’azienda era riuscita a colpire il target degli appassionati di equitazione, che attraverso il film vennero a conoscenza del sito. Il risultato economico del film fu un successo in termini di biglietti venduti (quindi di spettatori), paradossalmente però, anche seil film fosse stato un fiasco e avesse attirato solo gli amanti di equitazione, Equisearch avrebbe ottenuto un risultato senza precedenti attuando il suo product placement. Caratterizzazione del brand rispetto al target Un’azienda può decidere di colpire anche target limitrofi o differenti da quelli abituali, apparendo in film a loro dedicati. È praticamente il discorso fatto precedentemente sulla Coca-Cola: qualunque film può essere adatto per posizionarla basta solo seguirne le regole. La biancheria intima di Victoria’s Secrets, ad esempio, si posiziona in film dedicati al suo target femminile facendo leva sul fatto di essere l’oggetto del desiderio di qualunque donna, ma si rivolge anche ai maschietti comparendo in film a loro dedicati, in cui vengono riprese bellissime modelle, che indossano quella biancheria. Visibilità della Marca La visibilità della Marca è uno dei parametri più discussi. La Marca deve essere visibile e riconoscibile, ma un’eccessiva esposizione non motivata potrebbe risultare dannosa. Bisogna anche in questo caso studiare caso per caso. Per meglio comprendere questo fattore, prendiamo in esame due film abbastanza recenti: Cast Away e Minority Report. In Cast Away la comparsa della marca Fedex entra in scena per moltissimo sia all’inizio che alla fine del film. Nel secondo la Guinness compare per meno di due secondi ma, essendo una scena spettacolare ad alto coinvolgimento emotivo, la sua visibilità è massima. Quando si analizza la visibilità bisogna tener presenti le seguenti variabili: brand identity e importanza del marchio, immagine visiva dei prodotto/marca, tipologia di posizionamento (apparizione, uso, citazione, comparazione), modalità di posizionamento (statico/dinamico, ripetuto/unico, con citazione/senza citazione), tempificazione del posizionamento (durata, momento di inserimento in sceneggiatura), grado di integrazione del posizionamento con la storia e i personaggi e, infine, la sua credibilità. Posizionamento del brand La visibilità del brand dipende ovviamente dai tipo di posizionamento utilizzato che può anche essere un semplice cartello, oppure l’utilizzazione del prodotto come oggetto di scena, il coinvolgimento della marca/prodotto nella storia, la citazione o il posizionamento di testimonial, ripresi ad esempio nella trasposizione in advertising utilizzando il cross media promotion. Per la scelta del posizionamento è molto importante che l’azienda stabilisca il suo livello di coinvolgimento nel film analizzando anche l’interazione tra prodotto, storia e protagonista. Interazione tra prodotto e storia Il product placement diventa tanto più importante quanto più interagisce con la storia. Come in “Uno, due, tre” di Billy Wilder dove James Cagney è il direttore della Coca-Cola Germania e risolve tutti i suoi problemi che ha con la figlia che si innamora di un “comunista ortodosso” tedesco della Germania est e che riesce a convertire al “capitalismo” con l’aiuto della famosa bibita. Interazione tra prodotto e protagonista I prodotto può semplicemente essere utile al protagonista senza per questo influenzare le vicende della storia, oppure diventare parte integrante della narrazione. Si va dai classici prodotti utilizzati nei film come oggetti di scena a pellicole come “Parla con lei” di Pedro Almodòvar, nel quale il protagonista lavora per il quotidiano EI Pais. Il quotidiano spagnolo, pur essendo ricordato più volte, è ininfluente ai fini del racconto. In Cast Away, invece, le genialità degli sceneggiatori del film (che si sono ispirati, adattandola, alla storia di Robinson Crusuoè) consacra un prodotto oggetto di una attività di product placement a coprotagonista di un film. L’amico di Robinson Crusoe, Venerdì, viene sostituito con Wilson, (un pallone appunto prodotto dalla Wilson produttore di articoli sportivi), con cui Tom Hanks recita lunghi monologhi per buona parte del film. Analogie prodotto-protagonista Le analogie prodotto-protagonista sono quelle che maggiormente fanno avvicinare il product placement alla publicity. L’esempio classico riportato in letteratura è 007,James Bond, ma qualunque personaggio può costituire un buon testimonial, l’importante è la sua credibilità agli occhi del pubblico e le analogie con il prodotto. La marca interagisce con il personaggio definendo le sue caratteristiche e a sua volta il personaggio le trasferisce sul prodotto Coinvolgimento emotivo dello spettatore Come visto il principale vantaggio del product placement rispetto ad altri strumenti di comunicazione promozionale è quello di giocare sull’attenzione attiva dello spettatore. Un’Azienda può, pertanto, posizionare un prodotto cercando di coinvolgere emotivamente lo spettatore. La scena in cui Wilson viene portato via dalle onde è sicuramente la più commovente di Cast Away, nella quale lo spettatore si commuove per un pallone da pallavolo. L’aver fatto diventare una marca il migliore amico del protagonista di un film è stata una delle operazioni di product placement che farà scuola. Sono in fase di sperimentazione attività di product placement in grado di incrementare il coinvolgimento emotivo dello spettatore allo scopo di rafforzare l’attenzione attiva dello spettatore. Alcune di queste sperimentazioni, ad esempio, tendono a coniugare diversi aspetti della comunicazione di marketing, come il cosiddetto “marketing tribale [3]” e il “marketing virale [4]”. Rafforzamento immagine-prodotto L’ultimo parametro riguarda il rafforzamento dell’immagine del prodotto. L’Azienda può decidere di apparire al meglio associando un suo prodotto a un determinato stile di vita oppure facendo compiere ai suoi prodotti prestazioni eccezionali. Come può succedere di solito con le automobili di James Bond (in uno degli ultimi film, per la prima volta, anche con quelle del suo nemico, dal momento che Aston Martin e Jaguar sono entrambe marche della Ford), sia rafforzando una sua particolare caratteristica. O come traspare ancora una volta in Cast Away, in cui l’appartenenza e la sua fedeltà ai gruppo Fedex da parte di Tom Hanks, e di conseguenza l’affidabilità dell’azienda, viene dimostrata dal fatto che, nonostante tutte le sue disavventure, il naufrago sopravvive per portare a termine la consegna del pacco che gli era stato affidato. Sintesi In linea generale, si parla di product placement tutte le volte che un prodotto o un brand appare all’interno di una qualche forma di spettacolo ed è legato allo sviluppo della sua trama o della sceneggiatura. Risultano pertanto esclusi gli inserimenti pubblicitari, le promozioni, le sponsorizzazioni, ecc. Le modalità di inserimento sono sostanzialmente tre:
Il prodotto può essere rappresentato visivamente (screen) in primo piano, pienamente visibile dallo spettatore e in tal caso garantisce la massima esposizione della marca. Oppure può essere inserito sullo sfondo, sia in interni che in esterni, come parte della scenografia. Nel secondo caso è evidente che è più difficile riconoscere il prodotto, ma a ciò si ovvia in genere con l’elevata frequenza o con la lunghezza del periodo di esposizione. Inoltre, nell’ambito dell’intero programma, è possibile combinare diverse modalità di inserimento, per ottenere effetti più o meno intensi sullo spettatore. La seconda dimensione dell’inserimento è quella verbale (script): meno frequente e meno evidente di quella visiva, la modalità verbale consiste nel far parlare del prodotto dai personaggi del programma o del film. Anche in questa modalità sono possibili diversi livelli di esposizione: il prodotto può essere l’oggetto di una discussione tra i protagonisti o uno scampolo casuale di conversazione tra due passanti o, ancora, un break pubblicitario di una trasmissione radiofonica inserita nella scena. Anche in questo caso sono possibili ripetizioni per aumentare il livello di esposizione. Gli inserimenti puramente verbali sono relativamente rari; più spesso sono associati a un’inquadratura del prodotto per aumentarne l’efficacia. L’inserimento integrato consiste nel costruire la sceneggiatura (il plot) in modo tale da attribuire al prodotto un ruolo sostanziale nello sviluppo della storia. L’inserimento dei prodotti nei film risponde a obiettivi e logiche di due distinte categorie di soggetti: i produttori e gli inserzionisti. Dal punto di vista della produzione cinematografica, è necessario considerare anzitutto l’aspetto economico-finanziario: attraverso i contratti di product placement è possibile finanziare la produzione e, al contempo, anticipare flussi di entrate che altrimenti si manifesterebbero solo momento dell’uscita del film. Inoltre, i contratti di product placement prevedono speciali clausole relative alla promozione del film e del prodotto: l’inserzionista, in occasione dell’uscita del film, realizza campagne di comunicazione sul proprio prodotto che richiamano direttamente il film e i suoi personaggi. Al di là dell’aspetto economico, in questi casi si realizza un’efficace sinergia tra modalità e canali di comunicazione diversi. Teoricamente parlando, l’inserimento dei prodotti nei film può avere effetti positivi su notorietà e atteggiamento in relazione ai seguenti elementi:
Quanto più tali esperienze sono risultate piacevoli, tanto più lo sarà quella di utilizzo del prodotto. I vantaggi e i limiti del Product Placement Qui di seguito vengono sintetizzati i vantaggi e i limiti del Product Placement Vantaggi
(i limiti qui sotto esposti si rifanno ad esperienze per lo più osservate per attività di PP inserite in feature film distribuiti nelle sale cinematografiche)
Con riguardo ai tempi ed ai modi di fruizione del prodotto cinematografico, bisogna ricordare come il successo e la diffusione di una pellicola siano tipicamente non programmabili a priori. In tal senso, accanto a film ad elevata diffusione e notorietà a livello nazionale ed internazionale, si affiancano pellicole di scarso successo. Anche noti registi e attori, sostenuti spesso da consistenti investimenti pubblicitari, possono dare vita a film poco apprezzati, per i quali la vita utile si limita al passaggio per poche serate in un ridotto numero di sale cinematografiche. Il ‘placement’, associandosi ai film, ne ‘subisce’ in tal modo il successo o l’insuccesso. Nel primo caso, può quindi trovare diffusione a livello nazionale ed internazionale oltre che sui circuiti televisivi e di home video, talvolta anche con opportunità di ripetizione della visione da parte dei medesimi soggetti. Nel secondo caso, quando invece il film è un insuccesso, anche il ‘placement’ che vi trova spazio resta esposto alla visione di pochi ‘pionieri’ e difficilmente accede ad ulteriori canali di diffusione.
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Luglio 2015
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