Ma cos'è l'Arte? Uno spunto di riflessione |
COSA OSTACOLA IL PROCESSO DI GUARIGIONE? L'ostacolo primario per il nostro guaritore interno è il cervello razionale. L’IO, ovverosia le convinzioni, gli schemi mentali e la cerebralità, il ruminìo mentale, il modo di pensare, i falsi obiettivi e/o progetti che ci imponiamo, le credenze e il modo di agire nella realtà ci orientano verso un’operatività rigida, legata a contingenze quotidiane. |
(*) Dott.Nicoletta Brusciani: fisioterapista, Osteopata, medico ayuverdico, Master REIKI Coach
18/12/2014
dietro la filosofia di R.A.N.K.E.D. - Rebel Alliance Empowering, domande al fondatore
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dietro la filosofia di R.A.N.K.E.D. | Rebel Alliance Empowering |
domande al suo fondatore
a cura di D. Mangiapia
Qui di seguito le risposte ad alcune delle domande formulate dagli studenti alle quali risponde il fondatore di Rebel Alliance Empowering.
Sig. Dublino, come nasce il concetto di Rebel Alliance Empowering?
Rebel Alliance Empowering è un progetto concepito dopo un percorso di studio, ricerca e sperimentazione dei processi produttivi nel comparto della Industria Creativa dei Contenuti (Digitali) durato circa 10 anni; un percorso iniziato nel 1995 con il programma di ricerca Umanesimo & Tecnologia, promosso dalla Università degli Studi di Napoli Orientale, e proseguita con una costante collaborazione tra le autorità locali di governo, università, aziende e singoli professionisti.
Nel corso di questi anni di ricerca e di analisi dei risultati, la maggior parte dei temi trattati sono quelli che costituiscono, oggi, la missione aziendale di Rebel Alliance Empowering, definendo un sistema basato su un nuovo paradigma per l’Industria creativa della Comunicazione, dell’Intrattenimento e della Cultura in cui gli Umanisti e i Tecnologi si confrontano tutti i giorni in un sistema intelligente, inter-organizzato in una struttura matriciale, con lo scopo di assolvere a funzioni di business-on-demand declinando la sua offerta attraverso problem solving-team capaci di definire soluzioni efficaci, innovative ed economiche. All’interno della nostra organizzazione ogni suo membro si caratterizza per due variabili: la skill attraverso la quale sviluppa il suo core business nel proprio settore di appartenenza, fuori dal Sistema RAE; la Conoscenza che diventa utile ad una solution-area all’interno del Sistema RAE al quale si associa. In questo modo Rebel Alliance riesce a competere sul mercato affrontandolo per settori con solution-area che presidiano il know-how e il profilo dell’offerta segmentata, che vede la convivenza sia di progetti di consulenza ad elevato contenuto specialistico che di implementazione di processi produttivi complessi e ad elevato contenuto innovativo.
Perché Rebel Alliance Empowering si è insediata nell’Industria creativa dei Contenuti ?
Con l'avvio, nel 1995, del programma “Umanesimo & Tecnologia”, in collaborazione con la cattedra di Sociologia della Letteratura dell'Università Orientale di Napoli, il tema principale della ricerca si poneva, inizialmente, lo scopo di esplorare il nuovo rapporto che si andava instaurando rispetto all’estetica tradizionale (cioè di matrice creativa analogica) tra gli autori, le loro opere ed il pubblico che le fruisce, permettendo all’arte di diventare digitale.
La ricerca Umanesimo & Tecnologia, dunque, prendeva avvio con lo studio delle proprietà comunicative di quelle forme emergenti di narrazioni "non-sequenziali, multi-lineari, interattive, talvolta immersive", introdotte con i media digitali; lo studio delle proprietà strutturali di narrazioni che sperimentano la digressione, i molteplici punti di vista, le interruzioni di tempo, di spazio e di trama nelle varie forme ipertestuali e multimediali pensate per una distribuzione transmediale.
Nel corso dei primi anni del programma Umanesimo & Tecnologia, il team di lavoro, oltre che impegnarsi nella ricerca teorica, si è confrontata anche in una ricerca sul campo. Ciò ha portato alla costituzione di un laboratorio sperimentale in cui ricercatori e sperimentatori creativi di area umanistica ed altri di area tecnologica si sono confrontati in un nuovo paradigma metodologico, con lo scopo di costituire un team multidisciplinare ed inter-organizzato per funzioni, con l'obiettivo di sperimentare strumenti capaci di facilitare il "dialogo costruttivo tra le parti", cercando di abbattere le barriere culturali, con lo scopo di produrre innovazione nel campo dell'Industria dei Contenuti. Con le attività di questo laboratorio si avviano i processi di elaborazione del modello Rebel Alliance, prima nei contenuti del progetto di ricerca L.I.N.K.E.D. | Learning and Information Network for Knowledge Enhancement and Development (presentato in Europa nel 1997) seguito poi da R.A.N.K.E.D. | Rebel Alliance Network for Knowledge Empowering and Development, progetto di ricerca applicata che costituisce le fondamenta del modello d’Impresa Olonico Virtuale Rebel Alliance, che si sta espandendo in diverse nazioni, oltre che in Italia.
Con il termine “Empowering”, ha voluto enfatizzare qualche concetto in particolare legato al suo modello di business?
Con il termine inglese empowerment si intende una raccolta di conoscenze, competenze e compiti del team di lavoro volti ad aiutare un individuo o una società per raggiungere gli obiettivi finali e pianificare strategie, utilizzando proprie risorse iniziali.
È un processo dell'azione sociale attraverso il quale le persone, le aziende e le comunità acquisiscono competenze al fine di cambiare il loro ambiente sociale e politico e migliorare la loro qualità di vita; tale definizione esamina l'aspetto psicologico di potenziamento nonché quello organizzativo, presentandolo come un multilivello costruito.
Rebel Alliance Empowering è un progetto che si attua come approccio metodologico necessario per facilitare il controllo della vita professionale e personale. Si tratta di un nuovo approccio verso l'individuo, il gruppo e la società.
Open Innovation, Hub Working, Impresa olonica, Lean Production, Case advanced Management: tutti concetti che ancora non sono utilizzati normalmente nelle strategie di marketing strategico e gestione organizzativa da parte di molte realtà che operano sul territorio nazionale. Ha riscontrato difficoltà nel trasferire tali concetti che sono alla base del vostro modello e delle vostre soluzioni al mercato italiano?
Abbiamo iniziato a sviluppare la nostra esperienza nella Comunicazione alla fine degli anni '50, quando approdava il marketing moderno in Italia e, seppur siamo rimasti una piccola realtà, in termini di fatturato, abbiamo vissuto in prima persona tutte le fasi di “rivoluzione” e di “evoluzione” del mercato della Comunicazione negli ultimi 50 anni, lavorando per un significativo numero di quei Brand e rispettive Aziende annoverate tra i maggiori big spender italiani.
Nonostante il mondo, i mercati sono molto diversi da 50 anni fa, alcuni problemi dovuti al ritardo culturale con cui vengono recepite le innovazioni, ed attuati processi innovativi, sono ancora presenti nel nostro paese.
Purtroppo sono ancora tanti gli imprenditori, i manager, che agiscono su logiche di pensiero a "compartimenti stagni" tra le varie funzioni operative aziendali, carenti in una visione d’insieme, direi olistica, alla gestione del business. Notiamo quasi una discrasia tra ciò che si vorrebbe fare (perché consapevoli della necessità di innovare per competere in maniera creativa) e ciò che in effetti si fa, perché legati a preservare rendite di posizione oppure per paura di rischiare in una sperimentazione alternativa a modelli tradizionali. Questo, a nostro avviso, è una delle cause maggiori dietro la tanta decantata perdita di competitività dell’intero sistema paese Italia e di sicuro anche causa delle difficoltà che incontriamo a trasferire i nostri concetti.
Avete maturato diversi anni di esperienza nel campo della comunicazione di marketing, nei servizi below-the-line, poi anche above-the-line. In che modo ritiene si possa applicare il suo modello di business in un mercato che ormai sembra saturo di aziende che, come la sua, escludendo il settore dei contenuti digitali, operano in questo mercato?
Come visto, il modello organizzativo di Rebel Alliance Empowering è stato definito sulle linee guida di un masterplan ispirato alle teorie che regolano le nuove organizzazioni produttive e del lavoro. Una volta elaborato il modello organizzativo ci siamo chiesti per molti anni quale strategia fosse più indicata a trasferire al mercato le potenzialità del modello. Finalmente siamo approdati alle "teorie ricostruzioniste" tra cui quella che , rivisitando Joseph Schumpeter, è stata elaborata dagli economisti Chan Kim e Renée Mauborgne, questo nuovo modello è conosciuto con il nome “Strategia Oceano Blu”.
Uno dei pilastri concettuali della teoria "Oceano Blu" assume che un azienda può, deve, modificare dal suo interno i confini del mercato in cui opera! La massima “i confini esistono solo nella mente del manager e la struttura esistente del mercato non deve limitare il suo pensiero strategico” mette in sintesi questo concetto.
Dunque la strategia di business è influenzata dal tipo di organizzazione, che trova sbocco nelle leve del nuovo paradigma “Oceano Blu”: questa è la strategia adottata ad esempio da importanti aziende nel comparto delle tecnologiche come Apple o nell’entertainment come da Cirque du Soleil.
Rebel Alliance Empowering, assumendo il motto Oceano Blu “non competere con i rivali, rendi loro irrilevanti … ”, mira all’allargamento dei sui confini di mercato attraverso la valorizzazione delle competenze distintive, attraverso le quali le capacità di tutto il sistema organizzativo per la creazione del valore costruito unitamente al cliente (e non per il cliente), ridefinisce i confini del suo mercato potenziale anche per le singole società (o dei singoli professionisti) che ne fanno parte.
La nostra non è un'alleanza tattica o un semplice consorzio tra imprese, ma rappresenta, al contrario, un'alleanza di natura strategica, che coinvolge un vasto numero di soggetti all'interno di un sistema, garantendo loro la massima autonomia operativa con il supporto di una base superiore di conoscenza a livello sistemico.
Ad esempio nella Comunicazione di Marketing, le nostre specializzazioni sono proprie di molti di quei segmenti della comunicazione di marketing e dei servizi per il marketing operativo che, fino a ieri, venivano classificati sopra o sotto la famosa linea e si mantenevano separati.
Incrociando le competenze e le esperienze acquisite negli anni in questi due comparti, associandole alle skill del comparto Entertainment sulle linee guida dei bisogni che si stanno evidenziando nei processi evolutivi in corso con il passaggio al marketing 3.0, Rebel Alliance Empowering diventa proattivamente una organizzazione capace di erogare servizi e prodotti connotati da creatività e innovazione unici nella comunicazione through-the-line per il brand entertainment e il marketing esperienziale, introducendo il concetto di Advertainment.
Da dove nasce l’intuizione di applicare la tecnica dell’Advertainment all’interno del suo modello di business?
Le componenti dell'entertainment sono numerose e soprattutto tendono a evolvere negli anni, talvolta, in modo sorprendente, ma sempre collegate al concetto delle varie modalità di utilizzare il tempo libero. L’entertainment rappresenta la risposta al bisogno di impegno di tempo libero in grado di generare piacevoli esperienze nell’individuo.
L'unione multidisciplinare delle competenze dei professionisti di Rebel Alliance Empowering, l’esperienza nell'entertainment come fornitore di contenuti innovativi e l’esperienza maturata nella tradizione della comunicazione di marketing operativo, ci consente la progettazione e la produzione di format di advertainment specifici per ogni tipologia di brand e mercato.
Ho avuto l’opportunità di assistere ad un evento organizzato da voi, all’interno del progetto “La Cultura sviluppa il tuo business…ArtExperience”: da dove nasce l’idea di questo format?
È un progetto di ricerca applicata che si attua perseguendo una metodologia open innovation e un approccio di studio, analisi e progettazione multi-inter-disciplinare. La fusione, quindi, di discipline quali la psicologia, l’antropologia culturale, la sociologia, l’arte ed il marketing, ha posto le basi per l’ideazione e la realizzazione del progetto. L’arte diviene “esperienza concreta”, offrendo la possibilità di riconoscere sé stessi nel mondo e nella società, elaborando una nuova cultura che riflette un nuovo atteggiamento dell’uomo nei confronti della vita e del mondo.
“La Cultura sviluppa il tuo business…ArtExperience”, individua particolari declinazioni che sono in grado di generare esperienze attraverso attività di advertainment, legate ai brand, ma anche ai Patrimonio Culturali.
Antropologia Culturale è un concetto che, probabilmente, è lontano da noi economisti: in che modo questa disciplina, afferente alla sfera umanistica, può essere associata al marketing?
Con l’introduzione della Business Anthropology nella gestione aziendale e dei mercati, si assume che, cito da Polanyi, “La Grande Trasformazione”, del 1944, “la produzione, la distribuzione ed il consumo dei beni dipendono da fattori sociali come la cultura, le abitudini, il senso di responsabilità e la reciprocità verso gli altri, tutti fattori che regolano le relazioni personali, che sono integrate in reti sociali che generano fiducia e che creano relazioni di scambio diverse da quelle della razionalità economica”.
In che modo le nuove tecnologie possono essere impiegate nella comunicazione di marketing di un’impresa contribuendo allo sviluppo del marketing esperienziale?
Coloro che utilizzano strumenti tradizionali non sono estromessi dalle grandi questioni della contemporaneità, poiché quello che importa è ciò che si esprime e la maniera originale per esprimerlo.
Ad esempio la presenza della tecnologia nell’arte ha portato a dei mutamenti che interessano l’opera d’arte, lo spettatore, il modo di fruizione dell’opera, i luoghi d’esposizione, l’artista e il suo modo di operare. Questa contribuisce alla formazione e diffusione di nuovi linguaggi formali, che a loro volta partecipano a modificare l’intero sistema dell’arte e le stesse abitudini culturali.
Le nuove attività tecnico/creative che circondano queste nuove opere, dunque, iniziano a consentire un nuovo modo di comprendere la realizzazione dell’esperienza, introducendo una nuova prospettiva per lo spettatore, come partecipante nell'installazione.
In pratica, vengono progettate e sviluppate occasioni di intrattenimento esperienziale applicando i nuovi linguaggi, nel rispetto dei concetti di transmedialità e cultura convergente, più adatti a quelle che sono le mutevoli realtà contemporanee ed in linea con il mainstream culturale, coerente con i nuovi trend di consumo di cultura, raggiungendo, in tal modo, target trasversali per caratteristiche anagrafiche, sociodemografiche e socioculturali.
Avete lavorato alla ideazione, progettazione e creazione dell’ologramma di Cazuza, una rock-star brasiliana deceduta oltre 20 anni fa. Come può, uno strumento tecnologico, suscitare tali emozioni in un individuo?
L’utilizzo degli strumenti tecnologici permette allo spettatore di essere più libero, in quanto non necessita né di un aiuto che lo guidi nella fruizione, né di luoghi deputati esclusivi per la contemplazione dell’opera. Il pubblico può avvicinarsi all’opera a diversi livelli, fermarsi a livello motorio oppure andare oltre e scoprire ciò che c’è dietro. Con questi nuovi mezzi l’opera si apre, non è più immodificabile, chiusa in se stessa, ma stabilisce un nuovo rapporto con lo spazio e con il fruitore, non esiste una versione ufficiale, non ci sono più ambienti deputati per accoglierla, proteggerla e accudirla; è un’opera che vive e agisce in una dimensione transculturale e poli-contestuale.
intervista a Gerhard Roth |
Roth: ritengo che non si possa fare una teoria della mente senza tutti i dati della neurobiologia, in quanto le speculazioni possono andare in qualsiasi direzione, ma spesso le verità sono controintuitive.
Le caratteristiche dell'avere un'esperienza personale, del modo in cui pensiamo e di come percepiamo il mondo, non sono identiche a quelle dei processi cerebrali che hanno luogo nel cervello. Noi non percepiremo mai i meccanismi di sincronizzazione o l'attività diffusa, la topologia, della corteccia perché la nostra esperienza personale è illusoria in questo senso. È parte del senso comune pensare che ci sia un'istanza che pensa, che ragiona, che ha una certa percezione, ma poi studiando il cervello ci si rende conto che queste attività sono tutte in parallelo e distribuite. L'attività neuronale ha una forma molto diverso rispetto all'attività cosciente delle sensazione che noi sperimentiamo, tale esperienza è infatti un'illusione creata dal nostro cervello.
-L'esistenza della mente come la conosciamo attraverso l'introspezione è dunque fallace. Ma allora perché parliamo di mente e non solo di processi neuronali quando cerchiamo di spiegare l'attività cosciente umana?
Roth: da una parte si può dimostrare che quando abbiamo certi pensieri, certi sentimenti, c'è sempre un relativo substrato neuronale nel cervello. È possibile che un certo pensiero sia rappresentato da diversi processi neurobiologici, ma c'è necessariamente un rapporto tra stato mentale e stato cerebrale. Se si studiasse per lungo tempo un cervello di un individuo, alla fine, si potrebbe indovinare quello che pensa e quello che vede. Se lo si facesse bene si noterebbe che per ogni sensazione, ogni pensiero, ogni percezione e ogni emozione esiste un determinato substrato neurobiologico definito. Quindi si potrebbe identificare l'attività neurobiologica con l'attività mentale. Dall'altra parte però dal solo studio del cervello e della sua attività non si può capire, dall'aspetto neurobiologico e dal comportamento delle cellule, il significato, il “ meaning” di tale attività, che può essere determinato solamente dopo esperimenti psicologici, per esempio chiedendo ad una persona cosa pensava o cosa provava durante gli esami neurobiologici.
Dalla sola attività della corteccia, non si può determinare ciò che quella attività significa, tale significato non è per niente evidente. Se invece si domanda al paziente: hai visto qualcosa? Ed egli risponde per esempio: “sì, una freccia rossa”, a quel punto registrando l'attività della corteccia si può affermare che quei determinati processi sono l'equivalente di “vedere una freccia rossa”, ma dall'attività neurobiologica soltanto non si può dedurre niente. Soprattutto si deve considerare che quello che è il substrato della coscienza e della percezione, nella mente, non è determinato soltanto dall'attività che si può misurare, è molto di più. Si possono misurare poche cose dell'attività delle sinapsi.
In realtà c'è molto di più. Quindi non si può sostenere che un pensiero non sia nient'altro
che il “firing” di una certa popolazione neuronale, perché ciò non è vero; è molto più complicato e
dobbiamo ammettere solamente che quando i neuroni interagiscono in un certo modo emerge la
coscienza o un pensiero ed il rapporto è sempre di uno ad uno: uno stato mentale implica uno stato
neuronale, ma non si può ridurre l'esperienza all'attività neurobiologica.
-Per quanto riguarda la coscienza lei dice che il cervello produce la coscienza e fornisce le prove
delle basi neurofisiologiche di questa produzione. Si può dire che questo spieghi la coscienza?
Roth: In un certo senso sì. Nei miei ultimi libri ho riformulato il concetto di coscienza fino ad arrivare a considerare almeno dieci tipi diversi di coscienza e si può mostrare come tutte queste coscienze abbiano un sostrato definibile nel cervello. D'altra parte però si può anche spiegare perché abbiamo bisogno della coscienza. Per esempio senza la coscienza non sarebbe possibile rendersi conto di ciò che si vede e si legge. In oltre anche la verbalizzazione è basata sulla coscienza. Possiamo avere percezioni non coscienti ma non possiamo darne conto in un atto verbale. Non possiamo effettuare alcun “report”. Ogni atto verbale prevede coscienza. Essa è dunque una forma di “information porcessinig”. Si può perciò spiegare la funzione della coscienza nell'ambito delle leggi naturali e dell'information processing. Non c'è un aspetto mistico in essa, anche se nessuno può esattamente spiegare come funziona. Forse in futuro ciò potrà avvenire...
-Che rapporto esiste invece tra processi consci ed inconsci? Cosa possiamo conoscere della nostra
mente e cosa ci rimane inaccessibile?
Roth: questo è un problema di sviluppo individuale. I centri che producono l'Es (i processi inconsci)
si sviluppano molto prima dei centri che producono la coscienza, i quali si basano sull'attività della corteccia. Tutto quello che un neonato percepisce è o inconscio o comunque non può essere ricordato, non può essere memorizzato a livello cosciente. Forse il neonato può sviluppare prima dei tre anni processi consci, ma non può ricordare tali processi, perché la memoria non è ancora completamente sviluppata.
In oltre l'attività dell'amigdala e del sistema limbico è inconscia. Questi sistemi, del resto, si sviluppano molto prima e poi dominano il nostro comportamento decisamente più che i processi consci, che si sviluppano più tardi e non hanno poi grande influsso sul nostro comportamento rispetto a quegli inconsci; infatti il 90 per cento di ciò che facciamo è basato su processi inconsci.
C'è anche un altro punto importante: molte cose che un tempo erano coscienti (erano state apprese attraverso processi consci) ora non lo sono più sono pre-coscienti, intuitive.
Il 70 percento dei processi mentali sono “fuori dalla corteccia”, inconsci, prodotti dal sistema limbico. In oltre nella memoria a lungo termine si trovano tracce delle cose che una volta abbiamo imparato coscientemente ma che ora sono “sommerse”, sono diventate intuitive, automatizzate.
Tutto ciò è importante poiché questi processi guidano il nostro comportamento senza che ce ne
rendiamo conto. Pochissima parte del nostro comportamento viene regolato dalla ragione cosciente, poco, pochissimo, l'un per cento.
Questa è perciò la relazione che esiste tra pre-cosciente, incosciente, intuitivo e la coscienza acuta: tre anni fa ero a Siena e ho fatto tante cose, ho parlato con alcune persone e ho visto determinate cose, queste esperienze però non sono più presenti in dettaglio. Solamente quando sono di nuovo a
Siena questa memoria inconscia(delle esperienze già vissute) si riattiva, mi guida, anche se non mi posso rendere conto (non posso accedere in prima persona) che cosa sia che mi guida. Ero con il professor Nannini in un ristorante e ho mangiato qualcosa che mi ha fatto stare male, sono quasi morto. Adesso solo questo ricordo è presente coscientemente, tutto il resto (delle esperienze) mi guida ma non è presente coscientemente, almeno non in modalità attenzionale (non posso rendermi conto che tali esperienze mi guidano).
-Ultimamente stanno emergendo sempre più conoscenze sui processi del cervello. Molte scoperte
portano ad ammettere che l'io non esista e che sia un'illusione, lei cosa ne pensa?
Roth: Sì, io ho molto lavorato, negli ultimi tempi, con psicologi dello sviluppo dell'infanzia e insieme abbiamo verificato come si possa dimostrare l'esistenza di diverse fasi dello sviluppo dell'io del bambino. Ad esempio una forma di io estremamente primitiva è quella che permette al bambino di riconoscere i propri bisogni. Sviluppatasi questa capacità si evolve l'io dell'identificazione di sérispetto alla madre, poi l'io come agente, cioè la padronanza dei propri movimenti; l'io sociale e l'io linguistico si sviluppano più lentamente. Si può dimostrare che l'evoluzione di queste forme di io parallela a quella del cervello.
L'io però è sempre un “label”, un attributo, non un meccanismo. Per esempio quando un bambino fa
qualcosa e sente la madre dire frasi del tipo: “Tu sei stato bravo”. Prima deve imparare che quando la madre afferma: “io ti dico che tu...” si riferisce a se stessa, poi deve capire che il “tu” è lui stesso.
Questo avviene in un certo periodo dopo il quale il bambino capisce che il “tu” è lui e allora capisce
(apprende il concetto) anche che tutto quello che è controllato dal suo corpo e dalla sua mente è il
suo “io”. In realtà però l'io non è una sostanza che controlla tutto, è un “label” un'istanza unificatrice.
Allora si può dire che da una parte l'io è un'illusione: l'illusione che l'io stia al di sopra di tutti gli
altri processi mentali e li controlli. Dall'altra parte però senza la costruzione dell'io gli uomini non
potrebbero agire. Per esempio pazienti che hanno perso l'istanza unificatrice dell'io non sono in
grado di agire nel mondo.
La mia posizione è che da una parte l'io è una costruzione del cervello che non esiste di per sé,
come sostanza, ma allo stesso tempo senza questo principio compositivo l'uomo non potrebbe agire.
Allo stesso modo nella società umana esistono delle costruzioni, come la dignità dell'uomo, che non
hanno una realtà fisica, ma sono concetti molto importanti. Concetti illusori possono essere molto importanti, democrazia per esempio!
-Nel cervello si può riscontrare una regione che può essere considerata la sede dell'io?
Roth: di io differenti! Esiste, per esempio, una regione della corteccia prefrontale chiamata pre- SMA (Supplementary Motor Area) che si attiva solamente quanto agiamo in conformità con la nostre motivazioni interne. Tale area si attiva solamente nel caso in cui sentiamo che la nostra azione è guidata da un bisogno spontaneo ed interno al corpo e non ci sono motivazioni imposte dall'ambiente esterno. Si deve notare che se in un paziente si stimola elettricamente questa regione
egli inizia un'azione e afferma di averlo fatto per sua volontà. È evidente invece che è stata la stimolazione elettrica a determinare tale azione.
È molto complicato capire il circuito neuronale che determina i motivi che ci spingono, per esempio, ad alzare un braccio. O tali motivazioni vengono da fuori, come nel caso del comando: “alza il braccio”, o vengono da dall'interno del corpo. Solo quando mi rendo conto che tali motivazioni provengono dal mio corpo, da me stesso quindi, posso sviluppare il concetto di “io agente”. Mi rendo conto cioè che sono il fautore dei miei atti.
Questo è solo un esempio di come l'io emerga dal cervello, ma ci sono molti altri tipi di io: della percezione, del linguaggio e della memoria, per citarne alcuni, e tutti questi tipi di io, quando ne diventiamo coscienti, posseggono diverse localizzazioni nella corteccia. Si può dimostrare subito, ad esempio, come a causa di una lesione del cervello il senso dell'io come agentività possa scomparire mentre senza che ciò disturbi la percezione e la capacità intellettiva; pazienti con tale lesione hanno l'illusione che qualche forza esterna li guidi.
Un altro esempio può essere fornito studiando la capacità di riconoscersi allo specchio. Può succedere che alcuni pazienti si alzino la mattina e vedano nello specchio, al posto di loro stessi, una persona che non conoscono. Questo accade perché i centri parietali che sono addetti al riconoscimento del viso solo lesionati o distrutti e non si può riconoscere nessuno, nemmeno se stessi. Dall'altra parte, pur non riconoscendosi nello specchio, il resto del loro io è sano e quando fanno qualcosa affermano tranquillamente“sono io che lo faccio”, ma non riescono a riconoscersi nello specchio. Allora si può intuire come i diversi io siano distribuiti nella corteccia quando sono coscienti, altrimenti se ci fosse un solo centro dell'io ci sarebbe un tutto o nulla; o l'io c'è o l'io non c'è. Invece come ho mostrato può darsi che alcune forme di io sussistano anche se altre sono sparite, questo perché la loro distribuzione nella corteccia è altamente differenziata.
-Un altro annoso problema con il quale oggi le neuroscienze si confrontano è quello del libero
arbitrio. È un problema ancora più grande di quello dell'io perché tutte le persone si sentono libere...
Roth: Non tutte! Ci sono pazienti che affermano: “io non sono libero, una forza dentro di me mi
dice quello che devo fare, io non sono libero”. Si potrebbe anche citare chi soffre di impulsi
ossessivi: egli è costretto a fare qualcosa, come lavarsi le mani ogni cinque minuti, lo deve fare!
Ne è obbligato a causa di una malattia che attacca i gangli basali. Il suo cervello lo obbliga ad agire
senza che egli possa compiere una scelta libera.
Quando abbiamo molta sete, in ogni caso, dobbiamo bere, non siamo liberi, può succedere che si
beva anche se l'acqua è sporca e non ci sentiamo liberi, siamo spinti da un bisogno molto forte.
Perciò possiamo dire che sentirsi liberi significa: non c'è una forza esterna o interna che ci comanda,
che ci domina e l'assenza di queste due forze significa “essere liberi”. Queste sono le precondizioni,
questo basta. Gli psicologi che studiano le condizioni nelle quali le persone dicono “io mi sento
libero...a partecipare a questo convegno o a bere o a non bere un caffè, ecc.” assumono
semplicemente che essi siano liberi se nessuno li costringe e potrebbero agire altrimenti. Se ad
esempio ho davanti del tè e del caffè, la libera scelta, io scelgo il tè invece del caffè e mi sento
libero. Se tu mi domandi chi ha deciso per il tè invece che per il caffè, io affermo:io! Sentirsi liberi
basta per la gente. In realtà studiando il cervello umano si potrebbe determinare esattamente quali
siamo i processi cerebrali che hanno spinto a prendere il tè invece del caffè. Si possono spiegare i
motivi totalmente. Allora io mi sento libero quando ho una scelta, ma questa scelta è determinata
dai miei geni, dall'esperienza infantile, dalle esperienze fino ad oggi e tutti questi motivi mi
determinano in continuazione.
Se si studiano a livello neurologico e psicologico le persone che bevono indifferentemente caffè o
tè, non si potrà dire preventivamente se prenderanno uno o l'altro. Infatti quando i motivi per
effettuare una scelta si equivalgono, non ne esistono di prevalenti, può darsi che per scegliere si sia
costretti addirittura a ricorrere al dado, al caso. Questo significa che a volte i meccanismi del
cervello non trovano una motivazione forte per una soluzione o per l'altra. Non sempre quindi il
nostro cervello determina esattamente le nostre scelte.
Hume affermava: “siamo liberi, ci sentiamo liberi, quando abbiamo una scelta”.
Quando decidiamo qualcosa, questo evento è sempre determinato dalla nostra personalità. Bisogna
rendersi conto che la possibilità di decidere, la possibilità kantiana di decidere senza pulsioni, è
assurda, non esiste. Quando Kant scriveva parlava principalmente della moralità. La moralità è
agire contro i propri interessi, contro le proprie motivazioni interne. Per esempio se vedo qualcosa
di molto attraente e nessuno mi guarda potrei volerlo rubare, ma non lo faccio per senso morale.
Anche aiutare un amico, o la propria moglie non è morale, perché dettato dal sentimento. La
moralità è la coscienza della moralità. La moralità ha ragione in se stessa diceva Kant, ma questo è
assurdo!
La gente ruba quando le probabilità di non essere presa sono minime; poche persone lo fanno anche rischiando. La ragione, quindi, entra in gioco solamente per calcolare le probabilità di successo, l'essere morale invece deriva dall'educazione ricevuta. La moralità è basata sull'esperienza individuale e sociale. Io, per esempio, sono stato educato da mio padre e dalla mia famiglia a non rubare anche se nessuno se ne accorge. Perché diventi un sentimento morale, però, un precetto deve essere ripetuto molte volte. È educazione. La libertà morale di Kant non esiste: la moralità è educazione.
Per esempio, se accade che ti facciano molto arrabbiare e tu non uccida chi ti ha offeso significa che
hai imparato a controllare i tuoi impulsi, che quella è diventata la tua natura, oppure che il tuo
cervello ti ha allertato che ti possano prendere e mettere in prigione. Se però perdi veramente il
controllo e uccidi, in tribunale il giudice ti condanna: “tu avevi la possibilità di resistere alla
tentazione, e non l'hai fatto, sei responsabile delle tue azioni” dirà. In realtà tu potresti sostenere che
ciò non era sotto il tuo controllo. Non sei responsabile dei tuoi geni e della personalità che ti hanno
portato a fare quel gesto. Questo è un grosso problema etico che non si può risolvere in quanto il
nostro diritto penale è basato sull'idea della libera volontà, che non esiste. O tu resisti perché hai una
certa educazione e certi geni o non resisti perché hai un'altra educazione.
Noi studiamo i giovani criminale e investighiamo i motivi per cui commettono dei reati e possiamo
sostenere che il 20, 30 per cento del loro comportamento è influenzato dai geni e il resto
dall'educazione, della famiglia in primis. Essi non sono mai liberi in quanto questo tipo di
determinazione avviene nei primi anni di vita, quando non siamo ancora coscienti a pieno. Poi ci
condiziona per tutta la vita.
Il settanta-ottanta per cento della nostra personalità si forma durante l'infanzia. Molti studi
dimostrano che nello sviluppo della personalità e del comportamento i geni hanno un'incidenza del
20/30 per cento; almeno 50 per cento viene dall'esperienza primaria, da neonato fino a tre anni, poi il restante 20 per cento è determinato dall'esperienza da adolescente e da adulto. Questo vale per tutti, per persone normali, ma anche per criminali e pazienti. Noi cresciamo con una personalità che si forma molto presto, di cui non abbiamo nessuna coscienza. Dobbiamo ammettere l'idea di essere controllati da forze che non riconosciamo. Ognuno ha la sua personalità, ma non abbiamo nessun idea da dove venga tale forma. Solo dopo uno studia approfondito di molti anni si può determinare se un tratto della personalità venga dai geni o dalla prima infanzia e così si può ricostruire l'intera personalità. Ed è quello che facciamo con i giovani criminali. Sono soprattutto tecniche psicologiche quelle che usiamo, anche studi del cervello, ma soprattutto tecniche psicologiche.
Facciamo interviste, facciamo indagini sulla famiglia. Assenza di padre, madre drogata, mancanza
di soldi, niente educazione, miseria. Da ciò si può capire come evolve la personalità di questi
ragazzi, in modo quasi standard. Dire che avevano la libertà di non rubare non esiste.
- Concluso il tema del libero arbitrio, lasciandoci dietro molte domande aperte, come ogni dialogo
deve fare, la vorrei interrogare su di un tema più metafisico, nel senso di riflessione sulla fisica, in
questo caso sulla neurobiologia. Lei ci dice che il cervello “crea” la realtà, che ciò che percepiamo
non è una semplice rappresentazione della realtà, ma una vera e propria costruzione “Bildung”. La
realtà che il cervello crea è piena dei nostri ricordi, delle nostre emozioni; è un mondo fenomenico.
Lei la chiama Wirklichkeit. Ce la può descrivere?
Roth: Questa è un'idea che è diventata molto comune nella neurobiologia di oggi, nessuno avrebbe
qualche dubbio che è così.
Quando tu visiti un certo luogo per la prima volta tutto è nuovo, interessante. Quando ritorni nello
stesso luogo una seconda o una terza volta tutto è interessante, ma non come la prima volta. Se vivi
in un posto per dieci anni, poi, lo vedi completamente diverso dalla prima volta. Anche in amore è
così. Tu ti innamori di una bellissima ragazza, poi se vivi con lei per dieci anni ti scordi di perché ti
appariva così bella!
Quella dei sensi è sempre un'attività selettiva, ma noi vediamo il mondo sempre attraverso la nostra
memoria. La memoria non riflette il mondo esterno. La stessa memoria a lungo termine riscrive
sempre la nostra esperienza, ogni giorno. Essa non è una conoscenza statica, è un processo: se torni
in un luogo dove sei già stato, questa percezione ti viene riformata in modo sempre diverso. Allora
dobbiamo riconoscere che l'uomo vede il mondo più o meno identico, ma sempre in relazione ai
dati forniti dalla memoria.
Il cervello vede quello che aspetta. All'inizio, appena nati, prima di nascere, in realtà, siamo come
ciechi. Il cervello deve fare un'interpretazione di quello che vediamo una prima volta. Questo
meccanismo di interpretazione che inizia con la nascita, prima della nascita e non termina che con
la morte implica come suo costituente che ogni volta che si ha una nuova esperienza
l'interpretazione viene attualizzata modificandone o rinforzandone certi aspetti. Ogni volta il
cervello crea un nuovo mondo basato sulla nuova esperienza. È un processo totalmente interno. Se
conosci una persona da dieci anni sai che non è identica a come l'hai conosciuta dieci anni prima
perché nel frattempo hai vissuto un lungo periodo di tempo che ti ha riscritto tutte le esperienze che avevi memorizzato.
Il nostro grande cervello percepisce ciò che si aspetta. Noi vediamo ciò che aspettiamo basandoci
sulla memoria. Spesso siamo consapevoli solo delle variazioni che un esperienza ci presenta rispetto alle caratteristiche registrate attraverso la memoria. Se questa differenza appare molto profonda il cervello riscrive e modifica il contenuto dell'esperienza, se altrimenti la differenza è minima il cervello vede ciò che si aspetta di vedere in base alle sue precedenti percezioni, e questo, a volte, è anche estremamente pericoloso. Una cosa molto comune deriva, ad esempio, dall'incontro con un amico che ha portato la barba per 10 anni e se la taglia. Quando lo vedi dopo il cambiamento o non percepisci alcuna modificazione o vedi qualcosa di vago che ti disturba, ma non riesci a capire cosa.
Non percepisci immediatamente che non ha più al barba perché il cervello ti fa percepire il mondo
su per giù come se lo aspetta e ci vuole del tempo perché riscriva le nuove informazioni dando vita
ad una nuova esperienza percettiva. Questo è molto pericoloso, come dicevo in precedenza, se
stiamo guidando nel traffico su una strada che percorriamo costantemente da 10 anni. Può
succedere di non accorgersi di eventuali nuovi cartelli che segnalano che quella strada è ora senso
unico perché la nostra percezione è oscurata dall'abitudine, dalle nostre esperienze passate; è come
essere ciechi!
Tutto questo avviene perché per il nostro cervello è molto pratico basare la percezione sulla
memoria e riscrivere i dati in suo possesso solo in presenza di grandi differenze è un risparmio di
energia!
- A questo punto devo chiederle quale sia l'illusione per cui si crede di essere in prima persona gli
autore delle proprie scelte quando invece è un sistema complesso mente-cervello che ci rende ciò
che siamo.
Roth: L'illusione è che ci sia un io che è padrone. Se uno accetta la propria personalità, il fatto che
si è sviluppata dai geni e dall'esperienza passata, allora si accetta il proprio essere. Allora può dire:
“questo sono io”.
Io sono composto da un mosaico di tante cose. La possibilità di cambiare la propria personalità è
limitata in età adulta. Bisogna accettarsi. Siamo come siamo. Così sparisce anche l'ansia. Si deve
semplicemente accettare quello che siamo. La personalità è controllata dall'inconscio, non solo
freudiano. È controllata da tutto ciò di cui non ci rendiamo conto, come ad esempio le intuizioni, e
dalle esperienze passate che non si ricordano coscientemente, ma alle quali si può accedere con la
coscienza attraverso la memoria. Anche i pensieri sono guidati da componenti inconsci di cui non ci
rendiamo conto. Ciò va accettato. Nonostante tutto esiste comunque la scelta! Solo che ogni scelta
sta entro l'ambito della personalità. Per esempio, un amico ti propone di andare al cinema e tu
accetti, poi ci pensi meglio e dici di no, ma non sai perché. Se finalmente viene fuori che non vuoi
andare al cinema per la paura di essere circondato dalla gente, ad esempio, ne diventi consapevole,
ma non sai comunque perché hai questa fobia. Nonostante la consapevolezza, rimangono celati i
motivi profondi del perché le cose stanno in un certo modo e non in un altro. E questo accade
spesso. Noi facciamo e diciamo delle cose di cui non sappiamo spiegare il perché. Se tu mi domandi
perché vuoi restare a casa nonostante sia un film molto bello io invento qualcosa, ad esempio, che
devo finire un compito, ma non è vero, in realtà, ho paura.
Spesso la gente dà spiegazioni molto complicate dei propri comportamenti perché nel profondo non sa perché agisce in quella determinata maniera e inventa, dando motivazioni superficiali. Mi accade spesso di verificare questo fatto quando parlo della mia professione con dirigenti dell'economia tedesca. Sovente tendono ad aver bisogno di esplicitare di essere in un determinato modo; hanno bisogno di riconoscersi ed affermarsi come ambiziosi e lavoratori. Potrebbe essere tutto falso, ma loro hanno bisogno di auto-rappresentarsi un quadro unitario della propria personalità. Solo se si accettano invece i fatti suddetti l'ansia di vivere sparisce; tu sei come sei.
- Il problema della personalità desta in me grande stupore. Ancora di più però c'è un punto della sua
teoria che mi affascina e mi sconvolge. Esattamente quando lei dice che la differenza tra mente e
cervello è una differenza all'interno del mondo fenomenico. (quindi una differenza apparente, non
reale). Ci può spiegare meglio?
Roth: io da neurobiologo mi metto a spiegare come il cervello produce la mente: faccio esperimenti
sul cervello. Quello che vedo dall'esperimento però è un cervello che il mio cervello ha creato. Lo
vedo davanti a me, ma tu invece puoi mostrare, attraverso un altro esperimento che è la mia corteccia visiva che ha creato il cervello che sto osservando. Quello che faccio, la mia mano quando
la vedo, è una costruzione del mio cervello. Tutto quello che vedo è una costruzione del mio cervello. Attraverso la fMRI posso vedere il mio cervello, ma in realtà non è il mio cervello, ma un cervello costruito dal mio cervello. Anche io sono un costrutto del mio cervello! Ogni mia esperienza è una costruzione del mio cervello. Il cervello che mi crea non esiste nella mia esperienza.
- Io: è incredibile!
Roth: Nessun neurologo avrebbe dubbio che è così. Io vedo la mia mano e domando al neurologo
dove si forma l'immagine che vedo ed egli mi risponde: nel cervello. Io sento qualcosa e mi
domando dove sta accadendo? Nel cervello, ovviamente! Allora la conclusione logica è che esiste
un mondo esterno reale dove esistono uomini, dove esisto anche io, (un uomo chiamato con il mio
nome ed un cervello): questa è la realtà (speriamo)!
Il mondo dove esisto io (come percezione di sé) è stato invece costruito da quell'uomo con quel
cervello ed il mio nome, ma io non lo potrò mai vedere! Tutto quello che vedo e sento è una
costruzione del cervello. Dobbiamo ammettere che c'è un mondo reale dove esistono gli uomini e
gli animali con dei cervelli che costruiscono mondi attuali (fenomenici), ma per noi questo mondo
attuale è il solo mondo che esiste, l'unico che possiamo conoscere e non possiamo vedere oltre.
Anche se studio il mio cervello non posso trascendere la realtà fenomenica perché ciò che vedo è
costruito dal mio cervello. Io non posso oltrepassare questo mondo. Anche logicamente non è
possibile. In questo momento, mentre parliamo, due costruzioni parlano in una mente che porta il
mio nome e quando tu ti percepisci discutere c'è una creatura con il tuo nome nella cui mente
avviene la conversazione ed abbina ai nostri costrutti la parola Io e la parola Tu.
- Come è possibile che due costruzioni che stanno in due menti (la nostre) che sono individuali,
separate, entrino in contatto. Come è possibile che si svolga una discussione tra noi se siamo
ognuno nella mente dell'altro?
Roth: Nel mio libro "Bildung braucht Persönlichkeit" ho trattato questo problema di nuovo. Ancora
una volta mi sono chiesto come, se ognuno è imprigionato dentro se stesso, sia possibile capirsi.
Capire l'altro è un risultato di un lungo processo. Noi ci capiamo perché siamo esseri umani. Questo
significa che possiamo capire l'espressione del viso, i gesti, gli aspetti emozionali degli altri, ci sono
cose che capiamo spontaneamente. C'è comprensione anche senza parole. Inoltre possiamo parlare
la stessa lingua, ad esempio l'italiano. Vale la pena sottolineare che ci saranno sempre delle
differenze nell'uso della lingua, ad esempio tra me e te, perché io sono stato educato in Germania e
tu in Italia. Anche dopo quarant'anni di confronto con gli italiani ci sono sempre cose che non
capisco. Tra gli italiani stessi ci sono delle differenze: due italiani nati entrambi a Milano si
capiscono meglio di uno nato a Milano e uno a Roma perché hanno ricevuto lo stesso tipo di
educazione. È difficile capirsi anche se si proviene da classi sociali diverse. Più l'educazione è
simile e più è facile capirsi. Questo serve a spiegare come la comprensione non sia un meccanismo
diretto, dagli stimoli di un cervello ad un altro. È il tuo cervello che ricostruisce gli stimoli percepiti
e, parallelamente, ogni cervello ricostruisce più o meno allo stesso modo gli stimoli in quanto i
meccanismi che compiono tale processo sono gli stessi.
Anche se si vive in stretto contatto per anni non si può mai essere certi di capire quello che succede
nella mente altrui. Ad esempio mia zia diceva di mio zio, dopo che era morto, che era un uomo
buono, ma in realtà era una sua costruzione, perché quello che succedeva nella sua mente non lo ha mai capito. Quindi si potrebbe sostenere che capirsi è una costruzione che due cervelli fanno in
parallelo l'uno dell'altro senza però potersi concludere con una reale comprensione e
compenetrazione reciproca. Ognuno vede il mondo secondo la sua esperienza e se le esperienze
sono molto simili, allora due persone vedono il mondo in maniera quasi uguale, mentre, se le
esperienze sono diverse il mondo è visto in maniera molto diversa. Uno che viene dalla classe
operaia è difficile si capisca con uno che viene dalla classe capitalista e se lo fa è perché hanno un
background di conoscenze/esperienze comuni.
- In questo mondo contemporaneo si parla molto di oggettività, ma alla luce di quello detto fin qui,
come si risponde alla domanda: che cos'è la verità?
Roth: Questa è una domanda che mi faccio sempre mentre compio le mie ricerche. Quando la
concezione del mondo è abbastanza stabile, si crede, ad esempio, nelle verità della chiesa, nella
parola del Papa, nelle affermazioni del governo, allora si può sviluppare un concetto di verità.
Credere in Dio, nel paradiso, nelle istituzioni in generale, permettere di credere in certe verità.
Il mondo però è in continuo cambiamento e non esiste verità. Ogni giorno ognuno di noi fa
esperienze sempre nuove e diverse che rendono continuamente rinnovabili le nostre conoscenze.
Anche nella mia scienza (la neurobiologia) è così. Dieci anni fa, ad esempio, alcuni esperimenti
portavano a credere ad una certa verità, che poi in base a nuovi esperimenti si è dimostrato essere
falsa; in realtà tempo dopo ancora, si è tornati sostenere la prima interpretazione e a ritenere che
quella fosse la verità e non l'altra. Ad esempio, per quanto riguarda l'intelligenza, in Inghilterra
Cyril Burt aveva fatto esperimenti sui gemelli monozigoti scoprendo che il 50% dell'intelligenza
deriva da caratteri ereditari. Questo non piaceva alla comunità degli psicologi del tempo, i quali
erano felici della mancanza di dati a sostegno di questa tesi, tanto che anche il suo discepolo Hans
Eysenck dovette negare la verità proposta del suo maestro. Sorprendentemente anni dopo si scoprì
che aveva ragione proprio Burt! Niente vieta comunque che in futuro si possa scoprire che in realtà
si sbagliava veramente.
Ogni volta che apro una rivista scientifica, soprattutto, leggo che molte delle verità che possediamo
e delle cose che pensiamo non sono più giustificate. Questa è un'esperienza molto comune tra gli
scienziati nel mio campo; allora cosa sarebbe la verità? Attraverso quale processo potremmo trovare la verità? La stampa dice la “verità”, il papa dice la “verità”, ma se io pubblico un articolo
scientifico non posso dire: questa è la verità. Posso solo portare degli esperimenti che non risultino
stupidi e, se confrontati con gli studi sul cervello dell'esperienza neuroscientifica degli ultimi cento
anni, risultino coerenti ed con risultati plausibili. La verità non esiste perché non c'è alcun modo per
trovarla. Articoli possono smentire altri articoli; si può dimostrare che alcuni esperimenti sono stati
eseguiti male e che quindi i risultati non sono attendibili, ma mai affermare che quella sia la verità.
Ci sono delle verità logiche, ma quello che ci interessa sono le verità empiriche e queste possono
essere ricercate solo attraverso la plausibilità, la coerenza e la consistenza di dati.
- La verità è allora un processo in divenire che sempre si rinnova in base a nuovi dati?
Roth: no, non si può proprio parlare di verità. Un filosofo potrebbe, per assurdo, affermare di
credere in Tommaso D'aquino e rifiutare le affermazioni della scienza dicendo che sono tutte
sbagliate. Noi crediamo che la scienza incrementi incessantemente le nostre conoscenze ma non lo
sappiamo con certezza. (Con tono ironico,ndr): Potrebbe essere un errore totale e potrebbe aver
avuto ragione Tommaso o Aristotele o Gesù.
Spesso i miei studenti mi chiedono: professor Roth, esiste una vita dopo la vita? Io rispondo: non lo
so. Quello che posso dire è che non esiste nessuna evidenza dell'esistenza di una vita simile a quella
di adesso dopo la morte. Se c'è una vita può essere solo totalmente diversa dall'esperienza che
viviamo in questa terra. Non possiamo saperlo. Ad esempio il dogma della verginità di Maria è
un'affermazione empiricamente indimostrata; non si è mai verificato nessun caso di concepimento
senza inseminazione. La chiesa nonostante questo continua a sostenere il dogma della verginità che si regge, comunque, su un errore di traduzione. Infatti nel testo originale si parla di “donna giovane” non di donna vergine. Nelle successive traduzione, dopo l'errore, è stata mantenuta questa
traduzione. Ogni teologo sa di questo errore, anche il Papa, ma nonostante questo continuano a
sostenere il dogma illogico della verginità. In ogni caso è una “verità”che non fa parte del mondo
indagato dalle scienze naturali, cioè di questo mondo. Si potrebbe anche sviluppare un concetto di
anima all'interno delle scienze naturali identificandola con la psiche, ma se si parla di anima
immortale allora io mi domando quale sia l'evidenza empirica che permette di affermare tale
“verità”.
- Dopo la morte io so che fine fa il mio corpo, so come si evolvono i processi di decomposizione del
corpo, ma non ho idea di cosa succeda alla mia psiche, ai miei pensieri ai miei ricordi, anzi questi,
come entità fisiche non sono nemmeno mai esistite.
Roth: perché no? Certo che sono esistiti, sono stati prodotti dal cervello. Il pensiero è uno stato
fisico. É un po' strano, ma le emozioni esistono fisicamente. Se tu studi sotto quali condizioni il
cervello produce i pensieri puoi descrivere tali processi. Il pensiero, la mente sono entità fisiche.
Sembra strano ma non c'è dubbio di ciò. Lo testimonia il fatto che quando si pensa intensamente il
nostro cervello consuma più energia, ossigeno e zucchero. I pensieri, la mente sono entità fisiche
perché seguono le leggi della fisica e dell'evoluzione e se questa macchina, il cervello, sparisce
allora anche la mente sparisce, nel senso di come noi la sentiamo. Da teologo si può credere che la
mente sia qualcosa di diverso, ma da scienziato io posso domandare solamente quali sono le
evidenze per sostenere tali affermazioni. Tutte le evidenze sono che quando muore il cervello muore anche la mente. Ciò si vede anche con il deperimento dell'organo cervello nella vecchiaia che
corrisponde con un deperimento della mente, come nei casi di alzheimer e di demenza senile ad
esempio.
Se esistesse un'anima che sopravvive alla morte dovrebbe essere un'anima che nel nostro mondo
empirico non esiste. Io da agnostico posso dire: non lo so. Come filosofo del costruttivismo io non
posso dire: Dio non esiste. È vietato. Se si volesse dare di Dio una concezione empirica allora potrei
dire che Dio non esiste in quanto non ci sono prove di tale entità, ma se tu mi dessi una concezione
non empirica di Dio io potrei dire semplicemente: non lo so. Parlare di Dio equivale a dire che
esiste un pianeta che ha tanti aspetti interessanti ma che non è percepibile. Dipende quindi dal
concetto che si ha di Dio, se si vuole abbracciare un punto di vista costruttivo.
Per concludere vorrei ritornare sul concetto del “parlare” come elaborazione interna al cervello,
qual'è il sostrato che ci permette di elaborare un'interpretazione delle intenzioni del parlante?
Roth: Noi abbiamo una base genetica per capire la lingua umana. Questa capacità si sviluppa
nell'emisfero sinistro del cervello. Se io incontro un uomo che parla una lingua straniera, anche se
non capisco ciò che dice, capisco che è un uomo e che sta parlando una lingua umana perché questa possibilità di comprensione è geneticamente determinata. Se passo del tempo con lui, piano piano, capirò alcuni significati che attribuisce a determinati vocaboli fino ad arrivare alla comprensione del suo circolo linguistico, in un movimento quasi a spirale.
- La Realitaet invece è la realtà fisica?
Roth: no, questo non si può dire perché se diciamo che la realtà fisica è la vera realtà non ci
rendiamo conto che anche la fisica sia una costruzione del nostro cervello. La vera realtà possiamo
solo sperare che esista, perché altrimenti diventa difficile spiegare molte cose, ma è sicuramente
inconoscibile. Noi non possiamo descrivere la realtà perché dobbiamo usare il nostro linguaggio che
deriva dalla nostra mente e quindi dalla nostra Wirklichkeit (realtà fenomenica).
Ad esempio se diciamo che i colori non esistono realmente, dobbiamo chiederci cosa esista allora?
Le frequenze della luce, potremmo rispondere, ma luce e frequenze che cosa sono? Sono concetti
fisici. Sono costruzioni. Possiamo scrivere una formula per descrivere l'andamento delle frequenze
della luce, ma una formula è una costruzione esclusiva della mente. Non c'è nessun modo per
descrivere la realtà indipendentemente dalla nostra esperienza. Anche se riduco la fisica alle
formule matematiche queste formule devono essere apprese da una mente, richiede uno studio di
molti anni. È una costruzione che io mi faccio, anche se credo che il mondo segua queste leggi
naturali. Bisogna rendersi conto che anche il concetto di legge naturale è un concetto costruito.
Questa costruzione però, stiamo attenti, non è “invenzione”, perché nelle scienze naturali abbiamo
sviluppato un metodo che massimizza la plausibilità delle affermazioni. Se uno dicesse di aver visto
Gesù io gli chiederei come ha fatto a accorgersi che era proprio Gesù e se mi rispondesse che lo
sentiva non potrei che chiedergli di darmi una prova evidente di quello che sostiene, prova che in
scienza è necessaria per giustificare ogni affermazione. La scienza però non ha niente a che fare con la verità, bensì con gradi di plausibilità.
Nessun fisico che conosco direbbe che la descrizione del mondo della fisica è identica alla realtà.
Nessun fisico può spiegare il perché della causalità, nessun fisico può spiegare il perché della
gravitazione. Come si può dire che la fisica è la realtà se la base della fisica non è nota. Nessuno sa
se questo mondo è esteso, nessuno sa se la luce viaggia; non si capisce come la luce immateriale
abbia una velocità, seppur grande; ci sono i paradossi di Einstein per cui la velocità della luce non è
additiva. Probabilmente non esiste la velocità, soltanto quando noi misuriamo ci sembra che esista.
Nessuno può spiegare se la luce è corpuscolare o è un onda. Certi esperimenti presuppongono sia
un'onda, altri che siano corpuscoli. Questa non è verità. Questa non è la realtà.
- Esiste soltanto il mondo delle persone: konsensuelle Bereichs...
Sì, certo. Il mondo consensuale ci dice che talvolta sono corpuscoli talvolta onde. A volte ci dice le
luce viaggia, che ha una velocità. Dall'altra parte ci sono i paradossi di Einstein, la meccanica
quantistica è piena di paradossi. La realtà è piena di paradossi.
Change management, part. 04 a cura di V. Dublino
C'E' BISOGNO DI NUOVE VISIONI NEL MANAGEMENT
tratto da "Leader's Dilemma" di Peter Bunce; adattamento ed integrazione di Vittorio Dublino
La maggior parte degli imprenditori considerano ancora le organizzazioni aziendali come una macchina dotata di leve obbedienti che possono essere manovrate per cambiarne la sua efficienza, la sua velocità, la sua direzione. Tale concezione ha origine nel modello di mondo fisico elaborato da Isaac Newton, pensando che un’organizzazione aziendale sia un meccanismo cronometrico – con un turno di lavoro che crea un altro turno di lavoro, e così via. Questo concetto basato sulla “causa-effetto” investe psicologicamente l’Uomo “manager” ponendo in risalto una delle più profonde paure dell’Uomo: quello di perdere il controllo. La maggior parte dei manager usa ancora le “metafora delle macchine” nell’esposizione dei concetti di cambiamento di business, come ad esempio la 'reingegnerizzazione delle parti' finalizzando iul concetto ad ottenere un’organizzazione che abbia il “focus su tutti i cilindri del motore”. L’autrice di “Leadership e nuova Scienza”, Margaret Wheatley, si esprime così : <Tra tutti i fatti che dimostrano che il nostro mondo sta cambiando radicalmente, pensiamo a chi ancora crede alle “Organizzazioni in termini meccanicistici”, come una collezione di parti sostituibili in grado di essere riprogettate> Il pensiero ancora ricorrente porta spesso ad assumere un comportamento che parte dal presupposto che anche le persone siano macchine, cercando di disegnare le organizzazioni del loro lavoro come stessimo preparando un diagramma di ingegneria, nell’inganno dell’illusione che il Capitale umano svolga al meglio le specifiche impartite comparandolo all'obbedienza delle macchine. Nel corso degli anni, le idee ricorrenti la leadership hanno sostenuto questo mito metaforico. Si è cercato esasperatamente la via della gestione basata sulla “previsione e controllo” addebitando ai leader la responsabilità di fornire al Sistema tutto ciò che si ritiene assente nella macchina: la visione , l’ispirazione, l’intelligenza e il coraggio. Di conseguenza questi si sono impegnati solo per dover fornire l’energia e la direzione per spostare veicoli arrugginiti mascherandoli come le “organizzazioni del futuro”. Secondo Beinhocker, tuttavia, il sogno di un “Universo ad orologeria è da ritenersi concluso per la scienza nel XX secolo, ed è in procinto di finire anche per l'economia nel XXI secolo”. L'economia è troppo complessa, troppo lineare, troppo dinamica e troppo sensibile alle condizioni ambientali e fattori devianti per essere suscettibile di pronostici validi, soprattutto nel medio lungo termine. Beinhocker, naturalmente, ci parla dell'economia nel suo complesso, ma lo stesso punto di vista è valido per i suoi sottoinsiemi, comprese le organizzazioni di qualsiasi genere, compreso quelle aziendali. Negli ultimi anni, le ipotesi economiche tradizionali sono sotto attacco. Considerando che gli economisti tradizionali credono ancora nell’integrazione funzionale, nella teoria dell'agente e nello “Homo Economicus, egoista ed immorale”, una nuova generazione di economisti comportamentali - come ad esempio: George Akerlof, Herbert Simon, Daniel Kahneman and Amos Tversky, Robert Oxobi, Arjun Appadurai, Steven Pinker, Erving Goffman, Abraham Maslow, Richard Lipsey, Thomas Malone, Geert Hofstede - hanno dimostrato invece che, mentre le persone sono intelligenti nel loro processo decisionale, sono intelligenti in modi molto diversi dal quadro presentato nelle analisi dell’economia tradizionale, introducendo la “Economia Comportamentale”. Modelli in cui all’Homo Economicus scienziati come Bruno Frey introducono il concetto di “Homo Economicus Maturus” cioè un modello di Uomo in cui “si evidenzia un equilibrio tra le motivazioni estrinseche con quelle intrinseche nelle sue decisioni”: il “nuovo uomo economico non nega affatto che le leggi di mercato incidano sul processo decisionale, ma non consente che queste svolgano un ruolo esclusivo o necessariamente dominante”. Le sue azioni dipendono infatti dall’interazione tra le motivazioni personali e il sistema dei prezzi. “La reazione positiva dell’Homo Economicus Maturus di fronte a incentivi monetari o regolamentazioni, a differenza di quanto sosteneva la teoria economica classica, ora non è per niente scontata”. I recenti studi sulle Scienze Cognitive e la Psicologia comportamentale ci dimostrano che le persone reali hanno, mediamente, una scarsa propensione a voler effettuare calcoli logici complessi, ma sono molto bravi e rapidamente istintivi nel riconoscimento dei modelli, nell'apprendimento ed interpretazione delle informazioni ambigue e nella costruzione di conseguenti schemi mentali utilitaristici. ( inserire scienze cognitive) Le persone reali, quindi, sono fallibili nell’interpretazione della realtà e soggetti a pregiudizi basati sulle loro sovrastrutture culturali e sulle conseguenti loro credenze, nel corso dei loro processi decisionali. Con l’Economia dell’Identità, dunque, “si avvicina la Teoria Economica alla Realtà dei fatti”. Per poter studiare attori economici cosi importanti, gli studiosi hanno dapprima adattato ai loro fini la “teoria dei giochi”; che implica specificare quali siano gli attori, quali siano le informazioni a loro disposizione, quali siano i tempi delle loro decisioni, quali siano le loro scelte strategiche, tutto tramite osservazioni del contesto di riferimento. Gli studi basati sulla teoria dei giochi fondano oggi la scienza economica, affrontando argomenti diversi, in maniera multidisciplinare. Lo studio dell’ “Economia comportamentale” ha reso la teoria economica più coerente con i risultati degli studi in psicologia sperimentale, inducendo gli economisti a parlare di “deviazioni dalla razionalità perfetta”, ad esempio usando concetti come “l'incoerenza temporale, la formazione delle abitudini e l'avversione alle perdite”. Herbert Simon introduce il concetto di “Satisficing” (sufficiente soddisfazione), per cui ci si accontenta di un risultato che sia "abbastanza buono" piuttosto che il migliore in assoluto. Mentre gli economisti perseguono la loro visione dell'Economia come un sistema di equilibrio, durante la seconda metà del ventesimo secolo, fisici, chimici, biologi, neuroscienziati, psicologi divennero sempre più interessati allo studio dei Sistemi che si stanno rivelando sempre più lontani dal concetto di equilibrio così come intesi in passato; mentre si stanno affermando concetti con cui si descrivono Sistemi dinamici e complessi, Insiemi che non si riducono mai a situazioni di riposo. A partire dagli studi di Gary Becker, dal 1970, gli scienziati cominciarono a riferirsi a questi tipi di sistemi come sistemi complessi da interpretare in una visione olistica d’insieme. In breve, un sistema complesso è un sistema di molte parti o particelle che interagiscono dinamicamente. In tali sistemi le interazioni di micro-livello delle parti o particelle portano alla nascita di modelli di macro-livello di comportamento. Beinhocker usa l'esempio di una vasca idromassaggio per spiegare questo comportamento. "Una singola molecola di acqua seduta in isolamento è piuttosto noiosa", osserva Beinhocker; “ma se si mette un paio di miliardi di molecole d'acqua insieme e aggiunge qualche energia nel modo giusto, si ottiene un modello macro complesso di una vasca idromassaggio.” Il modello di vortice è il risultato delle interazioni dinamiche tra le singole molecole di acqua. Non si può avere una vasca idromassaggio con una singola molecola di acqua, anzi, l’idromassaggio è una proprietà collettiva o "emergente" del sistema stesso “. Le Organizzazioni sono come vortici e, nonostante le belle parole spese in dichiarazioni di missioni e nell’elaborazione di strategie, sono migliaia le decisioni che ogni giorno sono prese da parte di centinaia di manager che distruggono oppure creano valore per i clienti, le proprie aziende e, infine, per gli azionisti a seconda di valutazioni esercitate con un pensiero tradizionale oppure in linea con i nuovi pensieri emergenti. | The greatest part of entrepreneurs are still considering companies as a machine with obeying levers which can be manipulated to change its efficiency, speed and direction. Such concentration starts in a model of physical world as elaborated by Isaac Newton, thinking that a company is a chronometric mechanism – with shifts that are mutually generated, and so on. This “cause-effect” based concept psychologically involves the “Manager”, highlighting one of men’s deepest fears: loss of control. Most of the managers still use the “machine metaphor” in the exposition of concepts of busyness change, for example “parts regeneration”, finalizing the concept in order to obtain an organization which can be “focused on all of the cylinders of the engine”. Margaret Wheatley, author of “Leadership and New Science” states that: <<amongst all of the fact that show that the world is radically changing, we have to think in the ones who still believe in “mechanical organizations”, as a collection of interchangeable parts, capable of being redesigned>>. The recurring thought often leads to gain a behavior which starts from the assumption that people are machines, trying to design the organization of their work as if they were speaking about an engineering blueprint, in the deception of the illusion that the Human Capital best performs its functions if compared to machines’ obedience. During the latest years, the leadership’s recurring ideas have held this metaphorical myth. The route based on “forecast and control” has been exasperatingly pursued, trying to give to the leaders the responsibility to supply the system with all that’s considered missing in the machine: vision, inspiration, intelligence, courage. As a consequence, the aforesaid leaders were only committed to supply energy and direction to move the rusted vehicles masking them as “companies of the future”. According to Beinhocker, the dream of “a clockwork universe is to be intended over for the 20th century science, and it is almost over also for the 21st century economy”. Economy is too complex, linear, dynamic and sensible to environmental conditions and deviant factors to be submitted to actual forecasting, especially on the mid-long term. Beinhocker, naturally, is speaking about economy in its whole, but the same point of view is effective for its subsets, including various organizations and companies. In the latest years, traditional economic hypothesis are under attack. Considering that traditional economists still believe in the functional integration, in the theory of the agents and in the “immoral and selfish Homo Economicus”, a new generation of behavioral Economists Sociologists, Anthropologists and Psicologists (such as George Akerlof, Herbert Simon, Daniel Kahneman and Amos Tversky, Robert Oxobi, Arjun Appadurai, Steven Pinker, Erving Goffman, Abraham Maslow, Richard Lipsey, Thomas Malone, Geert Hofstede) have demonstrated that while people are intelligent in their decision-making processes, that same intelligence is way more different in the portrait which were submitted by traditional economy, so it is introduced “Behavioral Economy” and new visions to which to refer to set up new paradigms. Models in which, together with the concept of “Homo Economicus”, scientists as Bruno Frey introduce the concept of the “Homo Oeconomicus Maturus” , which is the model of a man in which is highlighted a balance between external and internal motivations in his decisions”: the “new economic man doesn’t deny that the market laws can influence his decision-making process at all, but he doesn’t permit that these can play an exclusive or dominant role”. In fact, his actions depend from the interaction between personal motivation and pricing system. “The positive reaction of the Homo Oeconomicus Maturus in front of monetary incentive or rules, differing from what was stated by the classical economic theory, isn’t obvious at all nowadays” Recent studies about cognitive sciences and behavioral psychology show us that real people have, in average, a poor inclination towards complex logic calculation, but in the meantime are instinctive in the recognition of models, in learning and in the interpretation of ambiguous information and in the construction of following utilitarian mental schemes. So, real people are fallible in the interpretation of reality and are amenable to prejudice based on their cultural superstructures and the resulting beliefs, during their decision-making processes. With the “Economy of Identity”, we see the approach of “the Economic Theory of the Facts”. To master in the study of such economic actors, the researchers have first of all adapted to their aims the “Game Theory”; this requires to specify which ones are the actors, the information available, the times of their decisions, their strategic choices, all of it through the observation of the referring context. The studies based on the Game Theory build what today is the “Economic Science”, addressing different topics on a multidisciplinary base. The study of “Behavioral Economy” made the economic theory more coherent with the results of the studies in experimental psychology, making the economist speak about the “deviation of the perfect rationality”, for example using concepts such as chronologic incoherence, the formation of routines and the aversion to loss. Herbert Simon introduces the concept of “Satisficing” (Satisfy+Suffice = Enough Satisfaction), according to which people settle with a result which is “good enough” more than “the best possible”. While economists pursue their vision of economy as a balanced system, during the second half of the 20th century physicists, chemists, biologists, neuroscientists, psychologists became more and more interested in the study of Systems which are apparently further from the main concept through which we can describe Dynamic and Complex Systems, sets which are never in “condition of rest”. Starting from Gary Becker’s research, since 1970, scientists started to speak of these sets as complex sets to interpret in a new holistic overview. Synthetically, a complex system of many parts or particles which interact dynamically. In these sets, micro-interactions of parts or particles bring to the birth of new behavioral macro-models. Beinhocker uses the metaphor of a Jacuzzi to explain this behavior: “a single H2O molecule sitting by itself is boring; but is we get to have a couple billions of H2O molecules together, adding the right kind of energy in the right way, we get a complex macro-model of a Jacuzzi”. The vortex-model is the result of the dynamic interaction among the single water molecules. We cannot have a Jacuzzi with a single water molecule, as a matter of fact a Jacuzzi is a collective property which “comes from the system itself”. A company is similar to a vortex, and despite the declaration of mission and the elaboration of strategies, there are thousands of decisions which every day are pursued by thousands of managers which destroy or create value for clients, for their companies and, eventually, for the stakeholders, inspired by obsolete points of view or led by contemporary visions. |
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24/11/2013
Change management, part.03 | Eccesso di Fiducia nelle nuove organizzazioni evolutive aziendali: Overconfidence, Psicologia dell’Autodifesa e Teoria della Autoaffermazione
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Change management, part. 03 a cura di V. Dublino
SUL CONFLITTO PER ECCESSO DI FIDUCIA NELLE NUOVE ORGANIZZAZIONI EVOLUTIVE AZIENDALI: Overconfidence, Psicologia dell’Auto-difesa e Teoria dell’Auto-affermazione [*] [**]
Gli studiosi ci sollecitano ad immaginare :“un mondo in cui le persone non abbiano fiducia.
In questo mondo difficilmente saremmo in grado di affrontare ogni nuovo giorno, lottare e trovare il coraggio di mostrare il nostro lavoro ai nostri superiori o fare domanda per un lavoro; i chirurghi si frustrerebbero nel dubbio degli esito dei loro futuri interventi; i militari esiterebbero nei momenti chiave in cui risolutezza nelle decisioni è essenziale; i politici sarebbero inabili nel perseguire la loro visione e non sarebbero in grado di difendere le proprie posizioni contro la costante pioggia di critiche personali ed intellettuali.”
La fiducia è un’essenza vitale per la conduzione di tutte quelle nostre attività che svolgiamo in maniera scontata durante la nostra vita quotidiana. Ma è anche ritenuta un elemento di grande importanza ogni qual volta proviamo a spiegare dei risultati che sono fuori dal comune.
La fiducia è ampiamente considerato un ingrediente, quasi magico, nell’ottenere successo nello sport, nell’intrattenimento, nel business, sui mercati azionari, nei combattimenti ed in molti altri domini della socialità: potrebbero essere saliti alla ribalta Donald Trump , Muhammad Ali e il generale Patton, senza essere dominati dalla loro frizzante fiducia? In nessun altro modo .
Ma allo stesso tempo, l"eccesso di fiducia" può essere pericoloso!
Come il fuoco , può essere estremamente utile se usato in modo e quantità controllate. Ma una eccesso di fiducia (in inglese "Overconfidence") può facilmente diventare un incendio fuori controllo ed essere causa di costosi errori decisionali alla base di fallimenti politici e di guerre .
Ad esempio, l’Overconfidence è stata accusata di essere la causa di una serie di gravi catastrofi finanziarie come lo scoppio della "bolla dotcom" negli anni 90 , il crack delle banche del 2008 , del cambiamento climatico in corso: "il non accadrà a me" impera .
Questi eventi non sono piccoli incidenti di percorso, nella linea temporale dello sforzo evolutivo umano.
Storici e politologi hanno imputato alla eccessiva fiducia tutta una serie di clamorosi fiaschi, dalla Prima Guerra Mondiale al Vietnam all'Iraq .
Restiamo sorpresi da problemi ricorrenti, dovuti all'eccesso di fiducia, e ce ne chiediamo "perché le persone non imparano dai loro errori?"
Come suggerisce l'archetipo auto-scettico Woody Allen:
<<La fiducia è quello che hai prima di capire il problema >>.
Tuttavia il ricorrente ripetersi di fenomeni di Overconfidence è un argomento che sorprende gli psicologi, ed è diventato oggetto di studio.
Solitamente, molte persone, mentalmente sane, tendono ad avere le cosiddette "illusioni positive": ciò avviene relativamente alle nostre capacità , al nostro controllo sugli eventi, alla nostra vulnerabilità ai rischi.
Numerosi sono gli studi che dimostrano come le persone tendano a sopravvalutare la loro intelligenza: sopravalutiamo spesso la nostra attrattiva sugli altri, come le nostre abilità.
Spesso abbiamo anche la tendenza ad assumere che siamo noi ad avere la migliore morale, essere in buona salute e godere di maggiori capacità di leadership, rispetto agli altri.
Un sondaggio, su un milione di studenti di scuole superiori, ha evidenziato che il 70% di loro pensa di essere un leader al di sopra della media, solo il 2% classifica se stesso sotto la media .
In un altro studio, il 94% dei professori universitari ha affermato che la loro ricerca era al di sopra della media.
Tutti crediamo che vivremo più a lungo rispetto agli altri, che non saremo mai vittime di calamità comuni - come un incidente stradale, della criminalità , di un terremoto o di una grave malattia.
Come i bambini del Lago Wobegon di Garrison Keillor, crediamo di essere tutti al di sopra della media!
Le "Illusioni positive" sembrano essere sostenute da molteplici forme di pregiudizio cognitivo e motivazionali, diverse, ma tutte convergenti nell'aumentare la fiducia nella gente .
Questo fenomeno è pericoloso, perché è la causa per la quale le persone sono sempre più propense a pensare che siano meglio degli altri, il che rende più probabile la propensione verso l’aggressività, il conflitto e persino indurre alla guerra.
Come sostiene Daniel Kahneman: <<noi tendiamo a percepire gli altri come fossero più minacciosi di quanto in realtà siano: esiste una linea di base che ha influenzato molti dei giudizi che sono stati identificati negli ultimi 15 anni, che hanno guidato le decisioni prese sotto una presunta minaccia verso quella tendenza sostenuta dalla linea dei falchi.>>
Già in passato, in molti studi che hanno messo sotto analisi casi bellici della storia, è stato teorizzato che l’eccesso di fiducia è stata una delle cause principali di casi di aggressione di un popolo verso un altro; oggi l'analisi dei risultati quantitativi e sperimentali di studi più approfonditi (come ad esempio quelli relativi agli esperimenti compiuti durante i "wargames") ci forniscono le prove del nesso esistente.
Uno studio del 2007 suggerisce che la fiducia e il conservatorismo sono associati con l'aggressività nelle crisi decisionali, e dunque gli alti livelli di fiducia che caratterizzano alcuni decision-makers ci dovrebbero plausibilmente far prevedere l'adozione di politiche aggressive nelle preferenze decisionali di crisi, anche nel mondo reale.
Lo studio dimostra che "la Sicurezza di sé, a quanto pare, è un potente fattore che esercita un'influenza anche al di là dell’ideologia politica." [**]
Fowler e Johnson ci dicono: “la fiducia sembra essere pertanto un grande puzzle composto da tessere che da un lato vanno a rappresentare una diffusa e potente caratteristica della cognizione umana, ma che, d'altra parte, sembra essere causa di valutazioni errate in grado di scatenare gravi catastrofi .
Ciò sembra avere poco senso. Perché questa propensione dell’Uomo ad illudersi con false credenze sopravvive in competizione con ciò che è sostenuto dai fatti?
Come si è evoluta questa contraddizione?
Una risposta potrebbe essere suggerita appunto dall'Overconfidence: questa può essere vantaggiosa perché aumenta l'ambizione, la determinazione e la persistenza nell’assolvere molti compiti, anche se il prezzo da pagare si rivela nella possibilità di incorrere in disastri occasionali; come accade ad esempio ai bravi giocatori di poker che, molto spesso, devono al bluff la forza della loro mano di gioco se vogliono vincerla, allo stesso modo gli individui troppo sicuri di sé possono essere in grado di superare i rivali se credono in se stessi abbastanza per andare avanti, quando invece gli altri vi darebbero un taglio."
L'idea che l’Overconfidence sia vantaggiosa è interessante.
Ma dietro un'idea, si cela sempre una valida ipotesi alternativa.
Mentre l’overconfidenza ci potrebbe effettivamente incoraggiare a puntare in alto, è comunque possibile incorrere in un errore decisionale.
Di conseguenza, molti economisti sostengono che la strategia vincente dovrebbe essere quella che vede il mondo esattamente così com'è: "l’Uomo, dunque, freddamente calcolatore delle sue capacità dovrebbe raccogliere la sfida e combattere solo se è sicuro di vincere. […] Come possiamo decidere tra queste due visioni alternative tra loro?
Una visione in prospettiva evoluzionistica qui torna utile. Perché ci costringe a pensare al come queste strategie alternative avrebbero funzionato in diretta concorrenza l’una con l'altra nel concetto Darwiniano di selezione naturale.
Immaginiamo un mondo in cui ci sono tre tipi di persone che la pensano come:
- un’economista (che è imparziale nella sua valutazione);
- Muhammad Ali (che è un’ overconfidente, tanto sicuro di sé da pensare: "okay , sono il più grande , sono certo di vincere!";
- ... e Woody Allen che è un archetipo di underconfident ."
Se questi tre tipi di personalità vanno in competizione per nutrirsi, Woody Allen rifuggirà dai conflitti perché tenderà ad evitare costosi scontri (il che significa che tenderà a morire di fame); l’economista avrà una migliore idea di quale conflitto potrebbe vincere, ma sarà comunque magro in quanto a volte lascerebbe del cibo sulla tavola che avrebbe potuto conquistare; al contrario Muhammad Ali raramente rifugerebbe dal lottare, e quindi avrebbe sempre un colpo da infierire per mangiare e sopravvivere; finché il valore del cibo da conquistare sarà sufficientemente maggiore del costo del conflitto, Muhammad Ali riuscirà a vincere. Dunque? Un grado di eccessiva fiducia sembra essere, almeno apparentemente, mediamente utile, anche se potrebbe provocare disastri occasionali; ma ciò è valido finché il premio in palio supererà sufficientemente il costo del competere per conquistarlo: la fortuna aiuta gli audaci!
Tuttavia, nonostante un certo margine di eccesso di fiducia sia ottimale: non assegnare limiti all’overconfidenza può essere dannoso.
La volontà, cieca, di combattere a tutti i costi, soprattutto quando si scontrano due strategie con obiettivi simili, può portare ad un conflitto di tali proporzioni che alcun guadagno ne avrà valsa la pena.
L'attacco di Napoleone a Waterloo nel 1815, come le pratiche speculative sub-prime che hanno portato al tracollo delle banche durante il crack finanziario del 2008, ci fa capire finalmente che ci si spinge oltre i limiti della fiducia consentita, troppo. […], ma alla gente di solito piace competere perché il premio è sempre apprezzato.
In un mondo in cui la tecnologia cambia tumultuosamente, le variabili di probabilità del gioco, e un errore di calcolo basato sulla non completa conoscenza di queste variabili, ci fa rischiare di perdere di vista i costi da subire nel caso di una decisione sbagliata, che potrebbe significare il collasso del sistema bancario o lo scatenamento di un fungo atomico globale; la strategia underconfident di Allen potrebbe essere più adatta? […] Il vero problema sta dunque nel fatto che non è mai evidente quanta quantità di fiducia sia quella giusta.
Nella vita , in amore, nella finanza e in politica , c'è una linea sottile tra il perdere quando avremmo pensato di poter vincere, procurandoci gravi ustioni per aver usato troppo fuoco, cioè abusando dell’ Overconfidence!"
Il nostro cervello ha sviluppato nel corso di milioni di anni (durante i quali abbiamo vissuto in piccoli gruppi parentali di cacciatori-raccoglitori) la predisposizione all’Overconfidence per sopravvivere ed evolverci.
E ' solo negli ultimi 10.000 anni che abbiamo cominciato a vivere con estranei nelle grandi società urbane. L’Overconfidence è una potente e pervasiva eredità evolutiva che continua a dominare il nostro giudizi e i nostri processi decisionali, anche in contesti politici, sociali e tecnologici complessi, quali quelli in cui oggi viviamo. Tuttavia sembra che tale fenomeno sia in grado di portare vantaggi con sempre minore probabilità, piuttosto sembra aumentare semplicemente la probabilità di essere causa di disastri.
Possiamo affermare che l’overconfidence è probabilmente utile per aiutarci in quei contesti "evolutivamente salienti " che sono simili alle sfide di adattamento del nostro passato […] ma è meno probabile che ci possa aiutare in "nuovi contesti evolutivi"
L’abuso di Overconfidenza oggi diventa una strategia sempre più pericolosa, senza dotarsi delle necessarie competenze grazie ad una formazione continua.
Il mondo moderno è molto diverso da quello in cui siamo evoluti. In cui le nostre decisioni e i nostri comportamenti si adattavano tramite selezione naturale.
Le grandi decisioni di oggi dipendono da molteplici e complesse "burocrazie variabili"che interagiscono tra numerosi stakeholders.
In questi nuovi contesti, processi di pianificazione basati su valutazioni precise e scrupolose, elaborate sulla scorta di reali competenze appaiono noiosi, mentre invece diventa fondamentale quando si aspira a perseguire obiettivi di successo, in condizioni ambientali caratterizzati da continue novità evolutive, cambiamenti per i quali non siamo stati progettati.
Particolare attenzione sarebbe da dedicare al fenomeno dell’overconfidenza abusata in campo politico ed economico. In questi campi sta capitando sempre più spesso che le probabilità che alcune decisioni siano fuori luogo, avendo ripercussioni negative per milioni di persone.
Potremmo non essere in grado di eliminare questa naturale "distorsione" presente nei nostri processi decisionali, perché è inscritta nel nostro DNA, ma diventa sempre più cruciale che almeno assumiamo consapevolezza del problema, con lo scopo di resettare i nostri istituti decisionali, se vogliamo cercare di evitare "catastrofi autoimposte".
Vengono osservate situazioni in cui le persone valutano la probabilità che accada un evento in base alla facilità con cui si possano ricordare eventi simili. Ad esempio, una persona trovandosi a dover valutare il rischio di un infarto tra le persone di età media, tende a richiamare alla mente tutte le situazioni simili tra persone di sua diretta conoscenza, più che a valutare le statistiche oggettive.
In altre parole gli individui, quando si trovano in una situazione di incertezza, tendono a colmare le “lacune percettive” cercando parallelismi fra quelle caratteristiche della situazione che stanno vivendo e le caratteristiche di situazioni già vissute.
In questo modo, questi soggetti ritengono di poter sfruttare informazioni di cui solo loro sono in possesso (cioè che non sono a disposizione di tutti), sovrastimandole. Se poi accade che le decisioni che, loro, hanno preso sulla base di tali informazioni (acquisite attraverso le loro esperienze) trovano conferma nel verificarsi degli eventi che si succedono, questi soggetti allora accrescono la propria autostima attribuendo l'esito positivo della propria decisione alle proprie "infallibili" capacità.
Se, al contrario, il verificarsi dell’evento dovesse smentire le proprie convinzioni, gli individui sostengono che l’evento era totalmente imprevedibile, sottostimando il proprio errore.
L’Uomo Overconfidente, dunque, quando assume la veste di "decision-maker", può rivelarsi una persona che sovrastima la precisione dei segnali forniti dalle informazione personali, e che invece non attribuisce grande peso alla informazione pubblica.
"[…] il ragionamento evolutivo e la Conoscenza del problema ci suggeriscono i modi per evitare le situazioni più pericolose in cui l’overconfidenza è probabile che insorga; in primo luogo, potendo fare in modo che l’overconfidenza si alimenti in ambienti in cui un atteggiamento rampante aiuti la prestazione, (come ad esempio nello sport) ma sia soppresso in ambienti in cui la valutazione accurata è più importante dell’impulso istintivo volontario. In secondo luogo , studiando i contesti di fondo in cui il fenomeno di overconfidenza si alimenta o si limita.”
Per esempio, si nota che siamo esposti all’overconfidenza solo quando non siamo sicuri di essere in grado di vincere una sfida; in questo caso entra in gioco la "Teoria dell’Auto-Affermazione" (ben definita nell’ultimo decennio) che sembra poter spiegare quali ne siano le motivazioni: sostanzialmente dovute ad una premessa di base "le persone tendono a difendere la propria integrità!"
Gli esperti ci suggeriscono: “dovremmo incoraggiare quanto più possibile la condivisione e la circolazione delle informazioni in un momento di crisi in cui l’overconfidenza potrebbe farci prendere le decisioni sbagliate; quanto più l’interazione che abbiamo con i nostri avversari è supportata da informazioni utili (all’accuratezza dell’analisi) più è probabile che si giunga a valutazioni condivise sui punti di forza e di debolezza presenti da ciascun lato delle parti in causa.
E' esattamente il ragionamento al quale si sono imposti di sottostare l'URSS e gli Stati Uniti, acconsentendo alle reciproche ispezioni dei loro impianti di armi nucleari, al termine di un lungo periodo storico (la guerra fredda) durante il quale l"approccio overconfidente", presente sia nell’una che nell’altra parte, è sembrato voler prevalere in alcuni momenti.
Col tempo si è capito, infatti che i wargames (strumenti usati da ambedue le due parti per simulare scenari bellici impostati su modelli matematici) non erano la via da seguire in maniera pedissequa. Fortunatamente, si è compreso che le variabili in gioco nel mondo reale sono influenzabili da aspetti sociali e psico-comportamentali che non sottostanno alle rigide regole della matematica, dunque le variabili avrebbero potuto interagire in modo diverso sotto influenze meccanicamente imponderabili.
E' ragionando su queste riflessioni che risulta evidente come gli studi sugli effetti dell’overconfidenza possano assumere un ruolo molto importante anche nelle scienze economiche e in quelle discipline che studiano i fenomeni del management delle organizzazioni.
Recentemente è stato avviato lo studio del fenomeno dell’overconfidenza allo scopo di capire quanto questa possa influenzare i decision-makers aziendali, o politici.
Gli studi stanno dimostrando che, mediamente, il "top management" attribuisce troppa importanza alla "fiducia", una grande percentuale di manager mantiene in considerazione troppo pesantemente la propria autostima, al contrario facendo poco affidamento sui, cosiddetti, segnali pubblici.
Se ciò è vero, allora le conseguenti previsioni di questi manager evidenzierebbero una propensione verso maggiori tassi di errore che influenzano le loro decisioni. Si sta scoprendo, inoltre, che l’errore di previsione nel management è strettamente correlato con il suo successo ottenuto in passato come manager.
Le decisioni prese da questi manager, troppo sicuri di sé, dimostrano di essere state prese con un tasso di divergenza tanto maggiore delle considerazioni degli analisti quanto queste analisi che gli vengono sottoposte in aiuto si rivelano molto accurate.
Per concludere, sarà mai che la conoscenza approfondita di questi studi possa essere significativamente importante per capire le cause alla base di tanti disastri finanziari, economici o di gestione politica ai quali abbiamo assistito negli ultimi anni?
Forse con i tempi che corrono l'Eccesso di fiducia non dovrebbe essere bilanciato da una buona dose di "Paranoia Costruttiva"?
Le nostre considerazioni circa le influenze dell’Overconfidence nel management aziendale saranno trattate nella seconda parte di questo post.
[*] Per introdurre la conoscenza di quest’argomento abbiamo selezionato un articolo pubblicato, nel 2011, da “Seed” di James Fowler [1] e Dominic Johnson [2].
[**} from: “Humans are Overconfident Creatures …” di J. Fowler & D. Johnson, traduzione ed adattamento di V. Dublino
[1] James Fowler, professore di Genetica Medica e Scienze Politiche @ University of California, San Diego
[2] Dominic Johnson, professore in Biologia Evolutiva e Scienze Politiche @ Università di Edinburgo.
Daniel Kahneman, psicologo cognitivo, premio Nobel per l’economia nel 2002 «per avere integrato risultati della ricerca psicologica nella scienza economica, specialmente in merito al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni d'incertezza»
Further references
- D.K. Sherman (University of California, Santa Barbara)& G.L. Cohen (Yale University), The Psychology of Self-Defense: Self-Affirmation Theory (2006) In M. P. Zanna (Ed.) Advances in Experimental Social Psychology (Vol. 38, pp. 183-242). San Diego, CA: Academic Press
- D. Johnson (University of Edinburgh) & R.McDermott (Department of Political Science, Brown University) & J.Cowden (Department of Social Work SJSU, San José, CA) & D.Tingley (Department of Government, Harvard University) Dead Certain, Confidence and Conservatism Predict Aggression in Simulated International Crisis Decision-Making (2012) Springer Science+Business Media;
- C. Camerer (Division of the Humanities and Social Sciences, California Institute of Technology, Pasadena) & D. Lovallo (Wharton School, University of Pennsylvania, Philadelphia) “Overconfidence and Excess Entry: An Experimental Approach (2011) American Economic Association
- J.Clark & L.Friesen Overconfidence in forecast of own performance: an experimental study (2006) Department of Economics, College of Business and Economics, University of Canterbury Christchurch, New Zealand
- G. Hilary (Associate Professor of Accounting and Control at INSEAD, France) & C. Hsu (Assistant Professor at Hong Kong University of Science and Technology, Hong Kong) Endogenous Overconfidence in Managerial Forecasts (2011) Journal of Accounting and Economics
Challenging the Consensus – Playing the Devil’s advocate (2013) Israel Defence Force’s Intelligence Control Division
errormanagement_cognitiveconstraints_adaptivedecisionmakingbias.pdf | |
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12/11/2013
Change management, part. 02 | No Business Plan Survives first Contact with a Customer
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Change management, part. 02 a cura di V.Dublino
from " The Lean start-up : Business model canvas analysis and application"
di Francesco Checcarelli Betti - Università Bocconi
Innovation is the creative response of companies and not the simple adaptive reaction to the changing economic environment, it takes place both in small as in large enterprises, the size is neither necessary nor sufficient to drive it. Therefore, in business, innovation is the fuel to growth. The rapid advancements in transportation and communications over the past few decades, in particular Internet, have dramatically modified the concepts of key resources and comparative advantage typical of the old war.
Many important founders of nowadays greatest tech companies gave their opinion on why it is important to innovate in business. For example, when Steve Jobs said with no fear that “Innovation distinguishes between a leader and a follower ”, he wanted to remark that companies face everyday a fork, to be the leader, creating innovative businesses, or to be the followers trying to adapt to the leader’s changes. With even more direct words, Robert Noyce (Intel Co-Founder) said: “Innovation is everything. When you're on the forefront, you can see what the next innovation needs to be. When you're behind, you have to spend your energy catching up.” So, for having competitive advantage in a company, one of the necessary skills is the ability to bring innovation as a first mover or in the “best way” for the targeted market, investing resources without wasting them to catch up competitors.
WHEN THE FAILURE LEADS TO SUCCESS
Innovation becomes even more critical when it is the time to launch a new enterprise, both that it is a new tech company or an initiative within a large company, since it has always been a hit‐or‐miss proposition. For decades the formula which leads to success has always been the same: write a business plan, pitch it to investors to collect money, organize a team, develop the product/service and start selling it as hard as possible.
But recent researches show that most of the start-ups fail. Carmen Nobel, Senior Editor of HBS Working Knowledge, says in his web article “Why Companies Fail and How Their Founders Can Bounce Back” (Harvard Business School, 7 March 2011), that “the statistics are disheartening no matter how an entrepreneur defines failure”. In fact, he adds, if failure means liquidating all assets, with investors losing most or all the money they put into the company, then the failure rate for start-ups is 30 to 40 percent, according to Shikhar Ghosh, a senior lecturer at Harvard Business School who has held top executive positions at some eight technology‐based start-ups.
If failure refers to failing to see the projected return on investment, then the failure rate is 70 to 80 percent. And if failure is defined as declaring a projection and then falling short of meeting it, then the failure rate is a whopping 90 to 95 percent. “
The reasons behind this discouraging data can be summarized in two key concepts. From one hand Ghosh explains that most start-upsfail due to lack of foresight, lack of wiggle room in the business plan, bad timing, or lack of funding. But from the other one, he also adds that too much funding for an unstable business model can take what would have been a small failure into a huge one.
In such a high‐risk environment, where the probability to fail seems much higher than the one to success, an innovative approach, called “the lean start-up ”, has been developed by the contribution and support of many relevant characters of the Silicon Valley. In particular three techniques have been realized to lead new ventures to a less-risked path. In 2005, Steve Blank, who has moved from being an entrepreneur in high-tech start-ups to teaching entrepreneurship at U.C. Berkeley, Stanford University, Columbia University, has formalized the Customer Development methodology in his book “The Four Steps to the Epiphany”. Then, Alexander Osterwalder and Yves Pigneur have provided the Business Model Canvas, a visual framework to define a company business model. At last but not least, Eric Ries has applied the theories of the lean thinking to formalize the agile development. Before analyzing the methodologies it is important to understand what are the assumptions that have been used as driver.
THE LEAK OF THE PERFECT BUSINESS PLAN
In his article “Why the Lean Start-up Changes Everything” (Harvard Business Review, May 2013), Steve Blank explains that the typical approach entrepreneurs have used, due to the conventional methodologies, is first to write a business plan, a static document that describes the size of an opportunity, the problem to be solved and the solution that the new venture will provide.
It is a quite complex document with a lot of pages enriched by marketing analysis and financial forecasts from three to five years. Even if it is very useful to be presented to stakeholders and potential investors, due to its complexity and its visual nature (the “small book” format), it does not fit well to its strategic planning function. In fact, reviewing the company strategy through the business plan is rather complicated, since it is divided by all the functional areas typical of a company‐like marketing, operations, sales ‐ and it lacks of a visual framework, which could easily let to change parts having a general view on how those changes will modify the entire business strategy.
Blank criticize the business plan, focusing on the digital industry, for three main reasons.
First, saying that “No Business Plan Survives First Contact With A Customer”, he stress the fact that typically entrepreneurs, once having raised the necessaries funds, start building and launching their product before having a real feedback from the customers they are serving, and that, too often, they learn too late that customers do not need or want many of the product features. In fact, the business plan is typically used by companies to present the existing strategies and operations to be performed, for example in the case of a line extension of a product. But in this context, customers, market and product are known. By contrast, the entrepreneur who creates a start-up faces a number of unknown elements. In this situation, writing a static document is not efficient in a dynamic phase, in which the primary objective is to research, through a repetition of hypothesis and tests, the more effective business model. Second, he observes that a five‐year financial forecast is quite an ambitious prevision for a business that does not have a track record and, even if the forecast is an useful way to understand the revenue model, it usually becomes a waste of time, since the revenue model it is not tested yet. Third, he remarks the difference between large companies and start-up s: while existing companies are big organizational complexes which follow a master plan, executing a business model, start‐ups rather are looking for one. This distinction shapes the lean definition of start‐up: “a temporary organization designed to search for a repeatable and scalable business model”.
BUSINESS PLAN VS BUSINESS MODEL
Having defined what a start‐up is, it is necessary to focus on the key concept of business model. According to Alexander Osterwalder “a business model describes the rational of how an organization creates, delivers and captures value.” In other words it is the set of organizational and strategic solutions through the company acquires competitive advantage. Basically, a company creates value when helps its costumers doing a “critical” task, satisfying a need and/or solving a problem. The success or failure of a business strictly depends on the ability of the company to create value for its customers. So, the first activity when creating a new start-up , or re-designing an existing business, should be searching for a proper business model, in order to know what to do, how do to it and for which customers deliver value.
Rather than planning and researching for months “inside the building”, writing a document that explains the execution of an untested business model, the lean method suggests as a key principle that on day‐one entrepreneurs accept to have only a series of hypothesis about their business model. This series of hypothesis need to be tested through a process called Customer Development which is going to change day‐by‐day the framework designed on day one. Therefore, a business model is designed to change rapidly, adapting to what is found “outside the building” in talking to customers, as Blank explains. Since it is a very dynamic element, also its representation must be done with a model that reflects this nature. The Business Model Canvas in this context is more effective than the Business Plan. First of all, what is usually explained in 30‐40 pages is summed up in a board. In addition it is easy to change, since in the areas of the Canvas , elements are summarized. Finally, it offers an overview that allows to highlight connections and critical factors between the areas.
The business plan can be considered a good exercise to implement and refine the various parts of a business model, especially when the financial part is developed in order to plan what actions need to be implemented to make the organization profitable. However the business plan of a start-up does not contain real facts but assumptions, which needs to be validated through a direct comparison with the market. Indeed, the lean method consider the business plan as a “final document", which must be drawn up only after the validation of the business model. In this way, takes place its main function, the fund-raising, especially if paying attention to adapt the plan according to the audience who is going to read it (banks, business angels, venture capitalists, partners, prospective partners, etc..).
22/9/2013
Change management, part. 01 | Attivisti di Conoscenza: Mediatori Invisibili o Manager
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Change Management, part 01 a cura di V.Dublino
ATTIVISTI DI CONOSCENZA: MEDIATORI INVISIBILI O MANAGER
tratto da “Develop Knowledge Activists!” di I. Nonaka, G. von Krogh, K. Ichijo adattamento italiano: V. Dublino Introduzione Ikujiro Nonaka, Georg von Krogh e Kazuo Ichijo, introducono il concetto della figura “Activist Knowledge” come il fattore abilitante della Conoscenza Aziendale. Un “Activist Knowledge” fa riferimento a Qualcuno, ad un Gruppo oppure a un Dipartimento che si assume la particolare responsabilità di energizzare e coordinare gli sforzi per la circolazione e la realizzazione di nuova Conoscenza all’interno di tutta l’azienda. Questa funzione racchiude in se, tre ruoli:
In primo luogo , il compito di un Attivista di Conoscenza non è quello di consentire la creazione di Conoscenza sotto controllo; in secondo luogo, non è preposto come unico collegamento ad altri con altri, ma deve garantire e facilitare processi di auto-connessione. Infine, la mancanza di creazione di Conoscenza all’interno di una azienda non può essere surrogata dalla sola istituzione di un Attivista di Conoscenza, tutte le funzioni aziendali devono entrare con consapevolezza e cognizione di causa nei processi di creazione di Conoscenza Aziendale. L'attivazione di nuove conoscenze, sarà in larga misura dipendente dall’energia, l’impegno e la durata del tempo messo a disposizione di questi processi di creazione della conoscenza. La funzione di “Activist Knowledge” trova il suo esponente tra diverse fonti nelle diverse società. Tra le possibili scelte, nel Centro di R&D, tra gli strateghi dell’azienda, la conoscenza e le modalità di trasferimento tecnologico vengono trattate e discusse allo stesso modo sia da singoli individui che interi dipartimenti che si costituiscono Attivisti della Conoscenza all’interno dell’Azienda. Un Activist Knowledge, quindi, può risiedere in un determinato reparto o in una persona in particolare, ma può anche essere situata in reparti e funzioni già esistenti, oppure può essere preso come un incarico speciale da parte di individui o dipartimenti. Il ruolo di “Catalizzatore nella Creazione di Conoscenza” di un Activist Knowledge E' opinione generale che i processi di organizzazione sociale e di cambiamento hanno bisogno di un qualche tipo di innesco. Alcuni di questi possono essere negativi, come l' identificazione dei senzatetto come problema importante problema sociale, una crisi dovuta a cambiamenti nelle politiche fiscali o delle regole del lavoro, un guasto ad una centrale elettrica, l' ingresso nel mercato nazionale di un forte concorrente globale, una catastrofe naturale. Altri eventi sono visti come positivi, ad esempio la creazione di programmi di ricerca finanziati a livello governativo, le riforme nei servizi di assistenza medica o l'avvento di una nuova tecnologia informatica. Frequentemente, il cambiamento viene innescato dalle iniziative di gruppi di attivisti; nel nostro caso il loro lavoro viene visto come quello di un Catalizzatore nei processi chimici. Come per alcuni processi chimici che si verificano, un agente attivo o un catalizzatore deve essere presente, allo stesso modo, per alcuni processi sociali che si verificano, un catalizzatore è indispensabile. La creazione di conoscenza, essendo un processo fragile, molto spesso ostacolato da forti barriere , ha bisogno di un catalizzatore. Come catalizzatore di creazione di conoscenza, il Knowledge Activist svolge due funzioni. In primo luogo, viaggia liberamente in giro nella società, parlando con i membri dell'organizzazione, noncurante dei confini organizzativi e dei livelli, estrapolando una serie di nuovi dati, idee, intuizioni, opportunità, domande, questioni e problemi. Raccoglie tali segnali ed elabora progressivamente alcuni "fattori scatenanti di processo". Questi “trigger” di processo sono in forma di domande: “perché”, “come”, “cosa”, “dove” e “quando”. Ad esempio, un Knowledge Activist, potrebbe imbattersi in uno studio abbandonato eseguito da alcuni studenti universitari sulla fidelizzazione dei clienti (in cui viene studiata la percentuale di clienti che acquisterebbe nuovamente il prodotto dopo aver terminato il suo consumo) su un determinato prodotto. I dati ottenuti evidenziano un allarmante tasso di conservazione. Un tipico trigger di processo potrebbe essere: perché la fidelizzazione al nostro prodotto è così bassa? Perché il cliente preferisce acquistare i prodotti dei nostri concorrenti, dopo aver provato i nostri? Quali cambiamenti dobbiamo fare nel prodotto, nella promozione, nel packaging, nel prezzo o nella distribuzione al fine di soddisfare al meglio il cliente? Il Knowledge Activist pone anche la domanda chiave “Chi?” E la sua risposta dovrebbe essere l’indicazione della funzione in cui si dovrebbe creare ed accumulare la conoscenza per rispondere alla domanda; il Knowledge Activist dovrebbe portare, dunque, il trigger di processo ad un funzionario commerciale, un direttore marketing, un product manager, un “product developer”, e così via . Tenendo presente che generalmente la Conoscenza è in parte tacita e che la creazione di conoscenza è fortemente legata alle nostre percezioni alle [cioè alle nostre mappe mentali (n.d.r.)] perché siamo esseri umani, la seconda funzione di un Attivista di Conoscenza dovrebbe essere quella di creare un ecosistema o un contesto per la condivisione e successivamente la Creazione di Conoscenza. Questo ecosistema ha un duplice scopo: utilizzare e sfruttare l’esperienza personale dei partecipanti per la condivisione della conoscenza, alleviando gli stessi del pesante fardello delle esperienze passate, cioè creare i presupposti affinché le esperienze passate del singolo non rappresentino un Dogma insormontabile per il cambiamento delle Mappe mentali precostituite attraverso le esperienze, positive o negative che siano. Le esperienze sono fonti di spunti di riflessione ed osservazioni, ma lo spazio destinato alla Creazione di nuova Conoscenza deve essere in grado di colmare il divario tra la cosiddetta “saggezza comune” e la ” saggezza comune obsoleta”. Tale spazio richiede una fusione innovativa tra novità architettoniche, tecniche di intervento e di moderazione, strumenti innovativi per la comunicazione visiva e un “sound” misto di persone provenienti da diversi background culturali e settori funzionali. Ad esempio, l'architettura innovativa di uno spazio destinato alla creazione di conoscenza potrebbe essere un edificio con diverse sale per diverse fasi di creazione di conoscenza, spazi diversi per la condivisione di conoscenze tacite, la creazione di pensieri di concetto, lo sviluppo del concetto di motivazione, lo sviluppo di prototipi, e il cross-levelling della Conoscenza. […] Partecipanti con background eterogeneo risulterebbero fattori positivi nel processo di creazione di conoscenza, soprattutto nelle fasi di creazione dei concepts e di argomentazione delle loro motivazioni creative. Poiché sembra che ci sia una relazione positiva tra eterogeneità e creatività in team inter-funzionali e poiché il concetto di creazione pone i cardini sulla creatività, piuttosto che sulle competenze, sarebbe consigliabile avere diverse esperienze dei partecipanti. Per “motivare un concetto”, poiché è necessaria una vasta gamma di punti di vista, il Knowledge Activist farebbe bene a formare un gruppo eterogeneo tra persone provenienti da diversi background culturali, livelli organizzativi e competenze funzionali . In sostanza , l'idea di alla base di questo “Spazio della Conoscenza” è l’idea di creare ciò che il sociologo francese Pierre Bourdieu chiama “Habitus” (Bourdieu , 1980): una sorta di “principio socialmente costruito su un’improvvisazione regolata” (Calhoun , 1991) dove la tradizione e la creatività si intersecano per creare nuova conoscenza”. Si dovrebbe anche notare che le iniziative di creazione della conoscenza hanno bisogno di un processo di intenzionalità a lungo termine. Nel caso del Maekawa (un processo di innovazione di una nuova macchina per il disossamento di polli) è durato 14 anni, complessivamente. Come catalizzatore di creazione di conoscenza, l'Knowledge Activist farebbe bene a ricordare le parole di Paul Ricoeur: “ […] parlare di iniziativa significa parlare di responsabilità”. Pensando ad un contesto sociale, infatti, Ricoeur attira la nostra attenzione alla: volontà, intenzione e capacità di resistenza per seguire gli impegni, bisogni e desideri. Una iniziativa di creazione di conoscenza a volte ha bisogno di questo tipo di “energia” per portare avanti il processo. Knowledge Activist come Connettori di iniziative per la Creazione di Conoscenza […] Grandi e medie imprese dovrebbero obbligarsi ad avere un ampio spettro di creazioni di conoscenza, che si verifichino simultaneamente. A livello dipartimentale, la gente coinvolta nei processi di creazione, giunge a idee di nuovi prodotti e servizi, a diversi modi di produzione, a nuovi modi di pensare e pratica di controllo, e così via. A livello di gruppo, le nuove idee vengono scambiate e sviluppate ed alcune delle quali potrebbero trasformarsi in un business forte per l’ espansione dell'azienda. I singoli membri dell'organizzazione hanno un grande potenziale creativo, prodotto da loro visioni, speranze e aspirazioni. […] March e Olsen (1976) hanno descritto questo fenomeno con il loro modello di organizzazioni “Garbage can”. Persone, scelte, problemi e soluzioni sono vagamente collegati e si incontrano in modo casuale. Per esempio, un ingegnere di produzione di alluminio grezzo potrebbe avere difficoltà ad ottimizzare i suoi processi di produzione attraverso la realizzazione di strumenti di controllo di processo . La sua prima reazione è quella di cercare tali soluzioni al di fuori della società , contattando un certo numero di consulenti tecnici. Quello che lui non sa, però (e non si preoccupa di scoprire), è che il direttore di produzione di una diversa divisione di produzione di leghe di ferro ha avuto un problema simile qualche tempo fa. Per questo motivo, a quel tempo, aveva già acquisito una consulenza tecnica esterna. L’impianto ha attraversato una serie di prove ed errori prima di fissare un valido processo di control-system. Anche se i materiali prodotti sono diversi, ingegneri di impianti di alluminio possono ottenere importanti informazioni dal gestore dell'impianto fusione di ferro, come ad esempio una consulenza sul lavoro, quali sono i fattori da considerare nella scelta di un nuovo sistema , l'esperienza di implementazione di un nuovo sistema di controllo, tempi e budget per un tale processo, e così via. I costi di tempo e di denari per l'azienda che si dibatte in prove ripetute e nell’analisi degli errori nella fabbrica di alluminio, potrebbero rivelarsi sostanziali, ma potrebbero essere molto ridotti da uno sforzo attivo teso a collegare la “soluzione” e il “problema”. Molte aziende manifatturiere ora si rendono conto dell'importanza di connettere le persone, problemi, soluzioni e scelte al fine di ridurre i costi. Un produttore hardware americano, per esempio, ha istituzionalizzato e computerizzato una biblioteca di migliori pratiche in cui vengono pubblicate le soluzioni ed i problemi tra loro abbinati. Il problema della frammentazione è ancora più accentuato quando si guarda più da vicino il processo di Creazione della Conoscenza. Per la creazione di conoscenza bisogna porre particolare attenzione anche al posizionamento dell’azienda che deve essere collocata in connessione attiva alle iniziative delle varie sedi locali. Più grande è l' azienda, maggiori devono essere gli sforzi dati a questo compito. Due reparti che lavorano su concetti e prototipi simili, ma in posti diversi, potrebbero innescare processi di “cross-fertilization”, comunicando più estesamente. Inoltre, esiste sempre il pericolo che un nuovo concetto sviluppato in un reparto abbia grandi somiglianze con un concetto sviluppato in precedenza in un altro reparto, in un altro paese. Questo reparto potrebbe avere realizzato un prototipo, o anche aver esperito esperienze negative dal tentare di giustificare l'idea, studiando le relative implicazioni avute con un cliente. Anche se i motivi che giustificano un concetto potrebbero cambiare, per lo meno questa esperienza deve essere portata all'attenzione e collezionata all’interno del processo di creazione di conoscenza. Per agevolare questi collegamenti il compito spetta all’Attivista di Conoscenza. A questo punto, è importante introdurre tre concetti che possono aiutare il Knowledge Activist a plasmare il suo ruolo di connettore: la “micro-comunità di conoscenza”, la “comunità immaginata” e le “mappe condivise di cooperazione”. In primo luogo, riflettiamo su come si verifica in una micro-comunità la creazione di conoscenza. Queste comunità non sono delimitate solo da gruppi, dipartimenti o divisioni, queste entità si potrebbero sovrapporre. Una micro-comunità è un piccolo nucleo di partecipanti che si impegnano nella condivisione di conoscenze tacite, nella creazione di un concetto, nella motivazione di un concetto, nello sviluppo di prototipi e nel cross-levelling della conoscenza in tutta la società. […] Quando si attiva nella creazione di conoscenza, una comunità si caratterizza per i suoi rituali, i suoi linguaggi, le pratiche, norme e valori. Una micro-comunità è caratterizzata da interazione faccia a faccia e, nella creazione di conoscenza, i partecipanti hanno anche la possibilità di imparare gradualmente a conoscere di più su ogni altro membro, compreso quale tipo di comportamento sia accettabile o inaccettabile (Schutz, 1967). Questa conoscenza sociale è la chiave per la creazione di conoscenza effettiva. Tutte le descrizioni di creazione di conoscenze riportate da Nonaka e Takeuchi (1995) accadono nelle micro-comunità. Persone si sono riunite con spirito creativo nello stesso spazio fisico e attraverso la condivisione di loro idee, prodotti e servizi innovativi in tale processo hanno avuto modo di conoscersi a un livello profondo, fino al punto in cui la conoscenza tacita, finalmente può essere condivisa. Tuttavia, nelle grandi organizzazioni tali micro-comunità possono anche rappresentare una sfida per le ragioni sopra indicate. Non ci sono limiti al numero di partecipanti nella creazione della conoscenza, in particolare nelle fasi di condivisione di conoscenza tacita, la creazione di un concetto e lo sviluppo di un prototipo. Troppi punti di vista come anche troppe e varie fonti di conoscenza tacita, troppa saggezza obsoleta, possono rendere difficile la creazione di conoscenza. Tuttavia le iniziative di creazione di conoscenza devono avvenire nella consapevolezza reciproca tra le micro-comunità. A questo punto torna utile introdurre il concetto di “comunità immaginate”. Questo termine è preso in prestito dal lavoro dei due sociologi Benedict Anderson ( 1983) e James Calhoun (1991). Calhoun tenta di descrivere l'America come una comunità immaginata: Mi sento un tutt'uno con altri americani che non ho mai incontrato, un senso di appartenenza comune con persone che non ho mai incontrato o sentito parlare, con le persone che nell’ interazione diretta potrebbero respingermi o provare rabbia. Calhoun continua a descrivere come questo senso di comunità potrebbe anche portare la gente a combattere guerre per la causa comune di tutelare le loro tradizioni e modi di vita. Iniziative di creazione di conoscenza sparsi per l'azienda si verificano in micro-comunità, ma queste comunità hanno anche bisogno di avere una consapevolezza di altre iniziative o, come dice Anderson, “nella mente di ognuno vive l'immagine della loro comunione”. Il Knowledge Activist può facilitare le inter-connessioni con la creazione di comunità immaginate di questo tipo. Si devono condividere storie di micro-comunità, comunicando chi è coinvolto, quanto tempo hanno lavorato insieme, le loro idee, gli ideali e le loro frustrazioni, i concetti realizzati, i loro tentativi di concetti motivati e dei prototipi derivanti dall'iniziativa della creazione di conoscenza, e così via. Egli deve monitorare i loro progressi nella creazione di conoscenza e diffondere resoconti dettagliati delle loro opere. Si deve creare un senso di appartenenza ad un movimento, diffondendo le ultime notizie attraverso le tecnologie dell'informazione, i contatti faccia a faccia e anche attraverso le newsletter. Mentre micro-comunità condividono un senso di comunione, rendendo il coordinamento delle iniziative di creazione di conoscenza più semplici, l'Attivista della Conoscenza non può fermarsi alla creazione di comunità immaginate. Egli deve anche creare mappe condivise di cooperazione. Una mappa è importante per stabilire le comunità immaginate. Le persone sono a conoscenza di coloro con i quali condividono una nazionalità e sanno anche, con riferimento alla mappa, se sono geograficamente vicini o distanti. Per lo stesso motivo, la mappa condivisa di cooperazione mostra come varie iniziative di creazione di conoscenze in tutta l'azienda sono correlate. Ci sono vari tipi di tali mappe condivise. Il più semplice è un organigramma che mostra la posizione di varie persone che lavorano sulla creazione di conoscenza o di uno strumento di gestione dei progetti che mostra la partecipazione, i bilanci, le tappe, gli obiettivi ed i tempi delle iniziative di creazione di conoscenza. Un altro approccio più sofisticato è quello di mostrare un processo di creazione di conoscenza graficamente, dalla condivisione di conoscenza tacita al cross-livellamento della conoscenza, che indica la partecipazione, budget, tempi, previsto, risultati raggiunti e responsabilità. Un secondo approccio sofisticato sarebbe quello di mappare le configurazioni di competenza (von Krogh e Roos , 1992), mostrando i compiti delle differenti micro-comunità e alla soluzione di questi compiti portata dalla conoscenza. Si tratta di un approccio potente, perché altre micro-comunità possono discutere apertamente su come la loro conoscenza potrebbe contribuire alla performance o dove possono trovare la conoscenza utile per il proprio compito. Queste mappe di cooperazione devono essere condivise in tutta la micro-comunità; dovranno essere visivamente accattivanti, facili da capire e da usare, fornite con le coordinate di ciascun partecipante e hanno bisogno di mostrare come ogni micro-comunità contribuisca alla creazione della conoscenza in Azienda. Le mappe hanno bisogno di essere espresse in un linguaggio che sia comunemente inteso in tutta l'azienda . Un possibile inganno è il rendere queste mappe statiche, al fine di fornire solo una rappresentazione del processo di creazione di conoscenza. Poiché la creazione di conoscenza è un viaggio verso l'ignoto, le mappe condivise di cooperazione dovranno cambiare con il terreni su cui si applicano. Mappe dinamiche mostrano come procede la creazione di conoscenza, come nuovi concetti sono creati, quali problemi vengono considerati in un processo di giustificazione, lo sviluppo di nuovi prototipi e così via. Nel cross-livellamento della conoscenza o nella condivisione di informazioni con gli altri membri nella società, le mappe condivise di cooperazione prepareranno le micro-comunità ad impegnarsi nello scambio di conoscenze. Le mappe devono essere capite come strumenti per strutturare una discussione in corso su come varie iniziative di creazione di conoscenza si intersecano e come il cross-livellamento contribuisca alla creazione di un vantaggio competitivo per l'azienda. A intervalli regolari, l'Knowledge Activist potrebbe anche creare “mostre della conoscenza" in cui le varie micro-comunità presentano i loro sforzi per migliorare lo scambio di esperienze. Knowledge Activist? Mercante di Lungimiranza Il Knowledge Activist deve assumersi la responsabilità di realizzare mappe condivise di adattamento in collaborazione con il terreno che la società esplora nello sviluppo del suo business. Egli deve collegare le iniziative in cui la fecondazione incrociata porta ad economie di scopo e di scala nella creazione di conoscenza. In questo lavoro, egli deve anche assumere un terzo ruolo, cioè quello di un “Mercante di lungimiranza”. Con la descrizione di questo ruolo, si intuisce che il Knowledge Activist fornirà la direzione generale per la creazione di conoscenza che avviene nelle varie micro-comunità. Come un Mercante di Lungimiranza, il Knowledge Activist deve porsi rispetto alla Conoscenza aziendale con un punto di vista che mantiene una prospettiva “a volo d'uccello”, cioè guardando dall’alto i processi di creazione di conoscenza che si verificano all'interno della società . Una questione chiave per l’Attivista di Conoscenza, è la sua capacità di capire come le varie micro-comunità percepiscono la realtà aziendale e quale sia la loro visione rispetto all’aggregato di Conoscenza in funzione di quello che loro credono sia il posizionamento della società in cui lavorano. Questa visione dovrebbe definire il "campo" o il "dominio" d’azione offerto alle imprese dai suoi membri, i quali avendo una propria mappa mentale del mondo in cui vivono, forniscono delle coordinate che devono essere elaborate per una direzione generale della qualità delle conoscenze che si dovrebbero cercare e/o creare” (Nonaka e Takeuchi, 1995). Nel lavoro con i partecipanti ai processi di creazione di conoscenza, il ruolo di Knowledge Activist sarà il capire il contributo potenziale di ogni micro-comunità per lo sviluppo della società come anche l’individuare in che modo le iniziative portate avanti in tutta la società, potrebbero davvero contribuire a cambiare la sua posizione strategica. Riuscendo a costruirsi, nello sviluppo della sua funzione, una Visione generale delle varie conoscenze presenti nell’azienda, un altro compito importante del Knowledge Activist è, dunque, quello di mercanteggiare questa Visione generale dell’Azienda, puntando al ruolo delle diverse Conoscenze presenti all’interno dell’Azienda per la creazione di un vantaggio competitivo sostenibile. Dovrà sfidare i partecipanti istigandoli a dare il loro contributo allo sviluppo di questa Visione generale, suggerendo come potrebbero regolare il loro lavoro per adattarsi meglio con questa Visione. Ogni micro-comunità, impegnandosi nello sviluppo e creazione di conoscenza, deve concepire il suo lavoro in un contesto più ampio, non è un compito facile quando ci si blocca nei dettagli. In altre parole, il Knowledge Activist dovrà combattere contro la miopia che spesso ostacola i processi di Creazione della Conoscenza. Questo è di particolare importanza nella fase di giustificazione nella presentazione di nuovi Concetti. Concetti, utili allo sviluppo di nuovi prodotti o di servizi oppure alla definizione di una strategia che conseguono alla condivisione di Conoscenza Tacita devono poter essere giustificabili nei confronti della Visione generale precostituita che è il prodotto di Conoscenza aziendale obsoleta. Vendere lungimiranza è come vendere un bene intangibile come il gas, in un processo in cui il cliente non può davvero vedere quello che sta comprando; il mercante di gas ha bisogno di strumenti tarati e facilmente comprensibili nella loro lettura, per dimostrare l’esistenza del flusso di gas, convincendo il cliente che sta effettivamente consegnando la merce. Il Commerciante si dovrà preoccupare del funzionamento di questi strumenti, della loro taratura, instaurando un rapporto sintonico ed empatico con il Cliente. Allo stesso modo, traendo spunto dalla metafora, il Knowledge Activist, “Mercante di Conoscenza” dovrà essere in grado di collocare la Conoscenza aziendale in un’ottica lungimirante per lo sviluppo consapevole tra tutti i livelli, di nuove visioni aziendali; deve essere capace di illustrare in che modo le varie iniziative di creazione di Conoscenza in azienda supportano la sostenibilità di tali visioni, tarando gli strumenti di comunicazione e calibrando le mappe condivise di cooperazione in conformità ai diversi “ background culturali” e, quindi, alle mappe mentali dei membri delle diverse micro-comunità; a determinati intervalli periodici, si occuperà di definire e diffondere interventi per dimostrare che effettivamente le Conoscenze che si producono contribuiscono e si concentrano allo sviluppo delle Visioni aziendali, portando tutti a riconoscere che gli sforzi delle micro-comunità sono un valore per tutta l'azienda. Cosa non è un Knowledge Activist […] In primo luogo, l'Attivista di Conoscenza lavora sull'abilitazione, non sul controllo della circolazione e lo sviluppo di Conoscenza. Attraverso la combinazione dei tre ruoli - di catalizzatore, di connettore e di mercante - il Knowledge Activist sarà solo colui che all’interno dei vari livelli della società influenza i processi di creazione della conoscenza […] si deve immediatamente abbandonare l'idea di controllare la creazione di conoscenza. Se la conoscenza fosse un bene stabile nel tempo e nello spazio, si potrebbero applicare procedure tecniche per controllare il suo sviluppo. Ma così non è […]. A contatto immediato e costante con diverse micro-comunità, egli ha accesso a conoscenze esplicite, concetti e prototipi ed è egli stesso che modifica continuamente le “Mappe di cooperazione”, assumendo una posizione da “Creazionista” visionario [n.d.r.]; il creazionista è colui che guarda alla Conoscenza come ad un “potenziale di innovazione” ed un’effettiva nuova fonte di vantaggio competitivo, egli deve essere consapevole e convivere con il fatto che la Conoscenza ha anche caratteristiche “malvagie”: è fluida, è dinamica, è in parte tacita ed in parte esplicita, legata a singoli individui come a gruppi di persone. Per questo motivo, l'Attivista per la conoscenza non può essere un controller, piuttosto un facilitatore del suo incremento e di sviluppo di nuova. […] Ciò che conta, dunque, sono i processi che crea e con cui le persone si incontrano ed interagiscono, allo scopo di creare la sintonia necessaria per la condivisione di idee private (a volte inconsapevolmente nascoste, n.d.r.) smantellare i “noxiants” ad una proficua collaborazione (impostando i limiti dei comportamenti indesiderati; n.d.r.), liberare il potenziale creativo del gruppo, estendendo le loro menti ad abbracciare nuovi concetti e applicare con cura la loro sapienza tecnica per sviluppare nuovi concetti e nuovi prototipi. Un Knowledge Acitist con la mentalità di un controller sarà piuttosto un ostacolo per la creazione di conoscenza. In secondo luogo, l'esercizio di attivismo della conoscenza non lavora solo sulla connessione di altri, ma anche sulle sue auto-connessioni, accumulando conoscenza. Quale commerciante di lungimiranza, il Knowledge Activist si troverà in una posizione vulnerabile (sgradevole); nell’ intento di collocare la conoscenza si troverà ad affrontare costantemente le considerazioni a breve termine, le proprie aspirazioni, i bisogni e le paure delle micro-comunità. Egli corre in genere il rischio di essere definito come un visionario senza alcuna base solida nello svolgimento delle sue attività. Le mappe di cooperazione che egli crea potrebbero essere viste come una sua stessa finzione, piuttosto che essere interpretate come uno strumento di navigazione per la creazione di conoscenza con “i piedi per terra”. Per superare quest’ostacolo, il Knowledge Activist deve sviluppare una sensibilità molto alta, allo scopo di facilitare il funzionamento di creazione di conoscenza di ciascuna micro-communità. Egli dovrà costruire la fiducia, dimostrando capacità di resistenza e un intento di collaborazione continuativa. Egli dovrà padroneggiare l'arte delicata dell’indagine attenta e del dialogo, in base alla quale egli attribuisce l'intento di ogni comunità finalizzandola all’ intento della società che vuole costruire Conoscenza. […] Senza la chiara e consapevole intenzione di creare conoscenza in tutta l'Azienda, il Knowledge Activist sarà solo un investimento in più che non paga nel lungo periodo. Il suo ruolo è quello di consentire, non creare. Egli non potrà mai compensare una carente vocazione dell’azienda a voler effettivamente creare conoscenza per sviluppare il business […]; non si deve dimenticare che il Knowledge Activist è solo una condizione che consente, catalizza, collega e commercia visioni di lungimiranza attraverso la creazione di conoscenza. Non si deve guardare al Knowledge Activist in modo isolato, ma come parte di un pacchetto completo, per il quale nuove fonti di vantaggio competitivo sono garantite per il futuro dell’azienda. Chi può (o dovrebbe) essere un Attivista della Conoscenza ? In sostanza, tutti i membri dell'organizzazione, di volta in volta, possono attivare la creazione di conoscenza in una società. Si dovrebbe pagare per avere un task autonomo per la pratica di Attivismo di Conoscenza? Noi crediamo di sì. Anche se la creazione di conoscenza dovrebbe già attivarsi [autonomamente, n.d.r.] nelle micro-comunità, un collegamento efficace con l’Intento e la strategia di una Società della Conoscenza potrebbe in effetti rivelarsi debole. Il progetto potrebbe mancare di lungimiranza ed agli interventi a favore di questa potrebbe essere data scarsa attenzione. Chi, allora , potrebbe essere un attivista della conoscenza? L’attivismo di Conoscenza non ha sempre le stesse origini in aziende diverse. In molte grandi aziende, diversificate nelle loro attività e con elevata attività di Ricerca e sviluppo a livelli internazionali abbiamo osservato che il ruolo del Centro Corporate R&S è destinato a cambiare. Invece di condurre la ricerca di base, la ricerca applicata o anche lo sviluppo del prodotto, questi centri assumono il ruolo di coordinare l'attività di R&S in tutta la società. La R&S applicata è essenzialmente vista come una attività connessa alle imprese collegate alle industrie distinte, mercati, gruppi di clienti e prodotti. Il ruolo fondamentale della R&S aziendale è quella di collegare vari risultati di ricerca e sviluppo in tutte le attività con l'intento di creare economie di scopo. Il Corporate Center di R&S potrebbe funzionare da catalizzatore per la creazione di conoscenze locali, fornendo la ricerca di base. Questi possono innescare questioni connesse alla propria attività, utilizzando i risultati della ricerca di base come leva per consentire l’entrata in processi di innovazione a livello del business. Allo stesso tempo, questi centri di R&S sono strettamente legati alla strategia aziendale attuata dalla società e, quindi, assumono una particolare responsabilità nel definire il suo intento di Creatore di Conoscenza. Questo attaccamento all’intento di Creatore di Conoscenza richiede che i Centri di R&S aziendali coordinano le iniziative di creazione della conoscenza, in modo da sostenere la sua realizzazione o impegnandosi in intensive conversazioni con l'alta dirigenza allo scopo di argomentare la necessità di un cambiamento verso l’intento di creare Conoscenza. I "pro" e i "contro" sono abbastanza chiari. In qualità di Knowledge Activist, i Corporate Center di R&S può essere un catalizzatore efficace per la creazione di nuova conoscenza. Questi sono anche vicini alla realizzazione della strategia aziendale e possono quindi comunicare ed influenzare la creazione di un intento di accumulo e creazione di conoscenza. D'altra parte, soprattutto se hanno dei propri bilanci per la R&S , i loro interessi possano entrare in conflitto in maniera radicale con quelli delle micro-comunità a livello di business. La questione del dove dovrebbe avvenire la creazione di conoscenza è un tema ricorrente. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di limitare la ricerca di base sui livelli aziendali e la ricerca applicata e lo sviluppo del prodotto al livello di business. Ma, come alcuni manager di R&S hanno sperimentato, questa distinzione tra ricerca di base e ricerca applicata è intrinsecamente sfocato. In una mappa di cooperazione, l’organizzazione e la divisione del lavoro di Creazione di Conoscenza deve essere risolto su una base che si sviluppa caso per caso. Come suggerito da Gary Hamel, “strateghi che sentono il bisogno di lavorare come attivisti, inducono il cambiamento in tutta l'organizzazione e creano impegno per un Ideale. Il Personale preposto alla pianificazione strategica e i Centri di previsione possono svolgere un ruolo importante come Attivisti della Conoscenza per la creazione di valore. Dal momento che la Conoscenza è una fonte di vantaggio competitivo, gli strateghi sono tenuti a prendere la Conoscenza e ad altre Risorse Immateriali [come il Capitale umano, n.d.r.], in considerazione, nei processi di pianificazione strategica . Ciò a sua volta richiede anche che questi strateghi sviluppino una elevata sensibilità alle varie iniziative di Creazione di C onoscenza che si verificano in tutta l'azienda, comunicando intensamente con gli sviluppatori di prodotti, ricercatori, personale di vendita e di marketing, responsabili della comunicazione aziendale e così via. Gli strateghi formano il nesso dei flussi di informazioni in tutta l'azienda, assumendosi la responsabilità per l'individuazione e il lancio delle tipologie di nessi nella strategia di evoluzione. I “pro” nell’impiegare gli strateghi come Attivisti della Conoscenza consiste nel fatto che questi sono vicini all’ Intento di Conoscenza della società e in grado di comunicare e spiegare la direzione da perseguire in questo intento. Possono lavorare attivamente come mercanti di preveggenza, collegando varie iniziative di creazione di conoscenza ai cambiamenti esterni, come la minaccia di nuovi concorrenti, nuovi sviluppi tecnici, intensificando la concorrenza, esercitando una maggiore influenza sul lato dei fornitori, adeguarsi alle mutevoli esigenze dei clienti e così via. I “contro” sono altrettanto chiari. Gli strateghi sono persone molto occupate, sono sempre di fretta per cercare di tenere il passo con i cambiamenti ambientali. Forse, addirittura, non hanno a disposizione la necessaria pazienza per “catalizzare la creazione di conoscenza”. Come connettori di iniziative di creazione di conoscenza potrebbero funzionare bene, ma c'è sempre il pericolo che essi possano tendere ad esercitare un controllo per favorire la creazione di conoscenza con un Intento di Conoscenza in linea con la strategia, a sfavore di una Creazione di Conoscenza evolutiva di tipo bottom-up. Gli strateghi sono normalmente spesso identificati come portatori di una strategia deliberata e un intento strategico volutamente definito. Essi normalmente non acquisiscono la reputazione di far emergere le iniziative locali e amplificarle in tutta l'azienda. Per gli strateghi diventare, anche eccellenti attivisti di conoscenza, significa acconsentire ad un cambiamento di mentalità. Devono prestare sempre maggiore attenzione, incentivare e far emergere la Creazione di Conoscenza bottom-up . Alcune aziende, come ad esempio ABB, hanno stabilito che la “Conoscenza e il Trasferimento di Tecnologie (KTT)”, sia preposto ad unità che si assumono la responsabilità per le tecnologie di trasferimento, il riconoscimento delle migliori pratiche, le esperienze e così via, in tutta la società. Lo scopo di queste unità di livello globale è sfruttare le Conoscenze locali in modo sistematico e veloce. Le unità lavorano normalmente con i dipartimenti di ingegneria come sorgenti e ricevitori di [tecniche, n.d.r.] e tecnologia. La loro responsabilità è quello di individuare le competenze sulla tecnologia, individuare le tecnologie da trasferire, definire procedure di documentazione, sviluppare programmi di formazione e di gestire i progetti di trasferimento. La KTT sta diventando una disciplina che ha un notevole impatto sui vantaggi competitivi della società transnazionale, la sua capacità di eccellere in questa disciplina avrà quindi un impatto sulle prestazioni del settore a lungo termine. I “pro” sono che come “Connettori di iniziative di Creazione di Conoscenza”, le KTT sono ottimamente posizionati. Come gli strateghi, funzionano come “nesso di informazioni, di tecnologia e di conoscenza dei flussi nella società”. Le KTT sviluppano anche una particolare esperienza nella gestione di progetti che collegano iniziative di creazione di conoscenza. Sviluppano anche particolare esperienza nell'approccio al trasferimento di conoscenze, come il bilanciamento del trasferimento della conoscenza tacita attraverso la formazione e il trasferimento di conoscenza esplicita attraverso documenti di progettazione. I “contro”, invece, si potrebbero evidenziare con il fatto che le KTT sembrano essere troppo “contract” o “project oriented”. [Ciò va in contrasto con il terzo ruolo attribuito alla Funzione. In quanto Conoscenza creata con valore a “termine” non ha significato con quanto fino ad ora discusso]. Come “Mercanti di lungimiranza” o “Preveggenza” di una Visione Aziendale, quindi le KTTS, potrebbero non funzionare adeguatamente nel contesto dell'Intento di Conoscenza. Infatti, si deve dare un senso, uno scopo e una direzione nelle connessioni delle conoscenze facendo riferimento all'Intento. Un'altra difficoltà delle KTT potrebbe essere che a differenza di un centro di ricerca e sviluppo, non hanno le conoscenze tecniche di base necessarie per catalizzare la Creazione di Conoscenza. Allo stesso modo, queste unità potrebbero non essere abbastanza vicine al mercato, al fine di raccogliere nuovi segnali da parte del cliente che potrebbe innescare nuove creazioni di conoscenzae. Quindi, per funzionare bene come Activist Knowledge, le KTT hanno bisogno di lavorare a stretto contatto con i “listening-posts”, come ad esempio il personale di vendita e di marketing, gli strateghi, i ricercatori e i loro partner. Un'altra possibilità, che è la più convincente a nostro avviso, è quello di assegnare la responsabilità per l'Attivismo di Conoscenza ad un Individuo o ad un Reparto. L'attivista della conoscenza, in questo caso, svilupperebbe i tre ruoli in modo equilibrato, cercando di catalizzare nuove creazioni di conoscenza , collegare le iniziative di creazione di conoscenza, così come facilitare l'introduzione di alcuni dei processi locali di creazione di conoscenza. I “pro” e i “contro” di questo approccio sono riconducibili a tutta la discussione di cui sopra. In questo caso il Knowledge Activist, sarà qualcuno che riduce il tempo necessario per la creazione di conoscenza e sarà in grado di fornire il senso, la direzione e lo scopo di tutte quelle iniziative di Creazione di Conoscenze locali che accadono all’interno delle micro-comunità . Forse, in questo momento, alcuni lettori avranno già adottato l'idea d’incaricare un membro di una micro-comunità come Knowledge Activist all’interno della propria organizzazione. Rendendosi conto dei vantaggi procurati da questo approccio, tra cui l'accettazione a livello locale nella sua micro-comunità e una profonda comprensione del processo di creazione della conoscenza in generale, all’interno dell’intera organizzazione. La minaccia più rilevante all'efficacia, nell’uso, di questo approccio sarebbe, tuttavia, il fatto che il Knowledge Activist potrebbe perseguire gli interessi della propria micro-comunità e/o essere messo in dubbio da altre comunità per farlo. Inoltre, potrebbe essere difficile per lui infondere lungimiranza nelle iniziative di Creazione di Conoscenza, in ragione dell’alto grado di coinvolgimento nel processo di Creazione della Conoscenza interno alla micro-comunità di appartenenza. […] Come iniziare ? A questo punto della discussione, il lettore dovrebbe essere sufficientemente sensibilizzato rispetto al ruolo, le funzioni e le sfide dell’ Attivista di Conoscenza. Gestite con cura, noi siamo convinti che le idee presentate in quest’essay possono avere un impatto positivo sulla vostra intenzione di intraprendere misure tese alla Creazione di conoscenza nella vostra Azienda. Concludendo Per avviare un processo di Creazione di Conoscenza Generale, si potrebbero prendere in considerazione alcune azioni iniziali :
| DEVELOP KNOWLEDGE ACTIVIST! GEORG VON KROGH, Institute of Management, University of St. Gallen, Switzerland. IKUJIRO NONAKA, Japan Advanced Institute of Science and Technology. KAZUO ICHIJO, Faculty of Social Sciences, Hitotsubashi University, Japan. Ikujiro Nonaka, Georg von Krogh and Kazuo Ichijo introduce the knowledge activist as a knowledge enabler. A knowledge activist is someone, some group or department that takes on particular responsibility for energizing and coordinating knowledge creation efforts throughout the corporation. Therefore, he acts in three roles: as a catalyst of knowledge creation, as a connector of knowledge creation initiatives and as a merchant of foresight. To catalyze social processes of knowledge creation, a knowledge activist formulates 'process triggers' and creates space or context for knowledge creation. The concepts of microcommunities of knowledge, imagined communities and shared maps of cooperation help the knowledge activist to connect knowledge creation initiatives: since there are limits to the number of participants in microcommunities, the knowledge activist establishes imagined communities, whereby shared maps of cooperation are important. As a merchant of foresight, the knowledge activist finally provides overall direction to the knowledge creation taking place in various microcommunities. The authors warn of three possible misconceptions and pitfalls of knowledge activism. First, the task of a knowledge activist is to enable, not control knowledge creation. Second, knowledge activism is not only about connecting others, but also about ensuring self-connections. Finally, lack of knowledge creation should not be covered up by establishing a knowledge activist. Knowledge activism finds different sources in different companies. As possible options, the corporate R&D center, strategists, knowledge and technology transfer units are discussed as well as individuals or departments as knowledge activists. The 'TORIDAS' project at Maekawa serves as an illustration of the knowledge activist concept. [1-2]; 1997 Elsevier Science Ltd Introduction Imagine you work in a knowledge creation project developing a new service for your local customer group. In the course of time, you find out that the project seems to be failing. Imagine also that your boss at this time tells you that he has heard a rumour that some other group had tried something similar for a different customer group. You call up the person in question, and with striking confidence he tells you that they attempted a similar service offer two years ago, but that it virtually failed. He adds sarcastically that he could also tell you why it failed. Discouraged, you go back to your knowledge team and break the news to them. The reaction is immediate and drastic — no more knowledge creation in this century! You try to energize them, but you fail. They somehow feel that there is no direction set for the overall knowledge creation in the company. Likewise, they are discouraged that the coordination of innovations is so sporadic and ineffective. You desperately need the knowledge activist. Enabling new knowledge, we believe, will to a large extent be dependent on the energy, commitment, and durability put into knowledge creation. Against this background, we would like to suggest a new knowledge enabler, the knowledge activist. The knowledge activist is someone, some group or department that takes on particular responsibility for energizing and coordinating knowledge creation efforts throughout the corporation. We believe that such activism will have three purposes, the first of which is to initiate and focus knowledge creation, the second to reduce the time and cost needed for knowledge creation, and the third to leverage knowledge creation initiatives throughout the corporation. Knowledge activism can reside in a particular department or with a particular person, but it can also be situated in already existing departments and functions, or it can be taken up as a special assignment by individuals or departments. In the following we will discuss the roles of the knowledge activist, possible pitfalls of knowledge activism, and where knowledge activism could reside in the company. Lastly, we will examine the case of Maekawa, a Japanese engineering company, as an example of knowledge activism. The Roles of a Knowledge Activist We can distinguish three roles of knowledge activists in the knowledge creating company, as:
Catalysts of Knowledge Creation It is common wisdom that processes of social and organizational change in general need some kind of triggering event. Some of these can be negative, like the identification of homelessness as a burning issue, an external shock to business due to changes in taxation policies, a breakdown of a power plant, the entry into a domestic market of a strong global competitor, or a natural catastrophe. Other events are seen as positive, like the establishment of governmentally funded research programs, reforms in medical care services, or the advent of new information technologies like a personal communicator. Frequently, change is triggered by the initiative of activists alerting groups to such events. We can view their work as catalysis. For some chemical processes to occur, an active agent, or a catalyst, has to be present. Likewise, for some social processes to occur, a catalyst is imperative. Being a fragile process, impeded by strong barriers, knowledge creation sometimes also needs a catalyst. As a catalyst of knowledge creation, the knowledge activist performs two functions. First, travelling freely around in the company, talking to organizational members across organizational boundaries and levels, he is exposed to a variety of new data, ideas, insights, opportunities, questions, issues, and problems. He picks up on these signals and gradually formulates some 'process triggers'. These process triggers are in the form of questions: 'why', 'how', 'what', 'where', and 'when'. For example, a knowledge activist might have come across a forgotten study done by some university students on customer retention (what percentage of customers buy the product again after completed consumption) for a particular product. The data obtained showed an alarmingly low retention-rate. A typical process trigger could be: Why is our customer retention for this product so low? Why does the customer prefer to buy our competitors' products after having tried ours? What changes do we need to make in the product, promotion, packaging, price, or distribution in order to better satisfy the customer? The knowledge activist also poses the key question 'who?', its answer indicating the site for knowledge creation. To return to our example, the knowledge activist might bring the process triggers to a sales representative, a marketing director, a product manager, a product developer, and so forth. Bearing in mind that knowledge is partly tacit, and that knowledge creation is strongly tied to our senses as human beings, the second function of a knowledge activist would be to create a space, or context for knowledge creation. This space has a twofold purpose, both to make participants in knowledge creation utilize and leverage their personal experience, as well as to relieve themselves of the heavy burden of past experiences. Past experience is the source of insights and observations, but the space must enable one to bridge the gap between common wisdom and obsolete common wisdom. The space requires an innovative blending of architectural innovations, intervention and moderation techniques, innovative tools for visual communication, and a sound mix of people from various cultural backgrounds and functional areas. For example, innovative architecture for knowledge creation might be a building with different rooms for different phases of knowledge creation, different spaces for sharing of tacit knowledge, concept creation, concept justification, prototype development, and cross-levelling of knowledge. Furthermore, external intervention techniques might be of particular importance in the sharing of tacit knowledge and concept creation (see Nonaka and Takeuchi, 1995). The role of an external moderator might be to set the rules for the knowledge creation sessions and to encourage participants to adhere to these rules. Furthermore, the moderator might apply creative techniques whereby the participants identify metaphors and analogies that make their insights and experiences more explicit, and bundles of key words that can finally form a concept. Tools for visualizing concepts and prototypes range from flip charts and simple clay modelling to three dimensional CAD/CAM systems and computer simulation techniques. But we must bear one lesson in mind. Fascination with information technology often tends to make it an end in itself, and thereby blur its purpose — to be an enabler of knowledge creation. Participants with heterogeneous backgrounds would also be positive in the knowledge creation process, especially in the phases of concept creation and justification. Because there seems to be a positive relationship between heterogeneity and creativity in cross functional teams, and since successful concept creation hinges on creativity rather than expertise, varied backgrounds of participants would be recommended. In justifying a concept, since a broad range of perspectives is needed, the knowledge activist would be well advised to form a heterogeneous group including people from various cultural backgrounds, organizational levels, and functional expertise. In essence, the idea of space is to create what the French sociologist Pierre Bourdieu calls habitus (Bourdieu, 1980) a kind of 'socially constructed principle of regulated improvisation' (Calhoun, 1991) where tradition and creativity intersect to create new knowledge. One should also note that knowledge creation initiatives need long-term attention. In the case of Maekawa, the innovation of a new chicken deboning machine took 14 years altogether. As a catalyst of knowledge creation, the knowledge activist would do well to recall the words of Paul Ricoeur, 'To speak of initiative is to speak of responsibility'. Thinking of a social setting, Ricoeur here draws our attention to the will, intention and stamina to follow up commitments, needs and wishes. A knowledge creation initiative sometimes needs this kind of 'energy' to drive the process forward. Connectors of Knowledge Creation Initiatives Whereas the role of the knowledge activist as catalyst is marginal in some companies (experts somehow always find a way to introduce new innovations), his role as connector of knowledge creation initiatives will be of paramount importance to the knowledge creating company. Large- and medium-sized companies are bound to have a wide spectrum of knowledge creation occurring simultaneously. At departmental level, people come up with new product and service ideas, different ways of manufacturing, new ways of thinking and practising controlling, and so forth. At group level, new ideas are exchanged and developed, some of which may turn into a booming business for the company. The individual organizational members have great creative potential, consisting of their visions, hopes and aspirations, and we are quite certain that a majority of your employees play around with their own concepts. March and Olsen (1976) have described this phenomenon in their 'garbage can' model of organizations. People, choices, problems, and solutions are loosely connected and come together at random. For example, an engineer in raw aluminium production might have difficulty in optimizing his manufacturing processes through the implementation of process-control tools. His first reaction is to search for such solutions outside the company by contacting a number of technical consultants. What he does not know, however (and does not bother to find out), is that the manufacturing director at a different division producing ferroalloys had a similar problem some time ago. At that time he had already bought external technical advice. The plant went through a series of trials and errors before they settled on one process-control-system. Even though the materials produced are different, engineers in aluminium plants can gain important insights from the ferroalloy plant manager, such as what consultants to work with, what factors to consider when choosing a new system, the experience of implementing a new control system, the time frame and budget for such a process, and so forth. The costs to the company of repeated trial and error in the aluminium plant might be substantial, and can be much reduced by an active effort to connect the 'solution owner' and the 'problem owner'. Many manufacturing companies now realize the importance of connecting people, problems, solutions, and choices for the purpose of reducing costs. An American hardware producer, for example, has institutionalized and computerized a library of best practices where solutions and problems are being posted and then matched.The problem of fragmentation is even more accentuated when we look more closely at the process of knowledge creation, and for the knowledge creating company special emphasis has to be placed on actively connecting local initiatives. The larger the company, the more effort has to be given to this task. Two departments working on similar concepts and prototypes might have great cross-fertilization by communicating more extensively. Also, there is always a danger that a new concept developed in one department has great similarities to a concept developed previously in another department, even in another country. This department might possess a prototype, or even negative experiences from trying to justify the concept by studying its implications for a customer. Even though the grounds for justifying a concept might have changed, at the very least this experience needs to be brought to the attention of the new knowledge creation initiative. To facilitate these connections is the task of the knowledge activist. At this point, let us introduce three concepts that can help the knowledge activist to shape his role as connector: microcommunities of knowledge, imagined communities, and shared maps of cooperation. First, we might think of knowledge creation as occurring in microcommunities. These communities are not limited to groups, departments, and divisions, but might overlap within them. A microcommunity is a small core group of participants that engage in sharing of tacit knowledge, concept creation, concept justification, prototype development, and cross-levelling of knowledge throughout the corporation. Although the doors might be opened to a wider group of participants, the core-group takes on the commitment to knowledge creation. Note that the word 'communities' is not chosen by accident. When engaging in knowledge creation, a community is characterized by its own rituals, languages, practices, norms and values. A microcommunity is characterized by face-to-face interaction, and in creating knowledge, the participants also gradually get to know more about each other including what kind of behaviour is acceptable and unacceptable (Schutz, 1967). This social knowledge is the key to effective knowledge creation. All of the illustrations of knowledge creation given in Nonaka and Takeuchi (1995), happened in such microcommunities. Inventive people came together in the same physical space, innovated products and services, and through this process, got to know each other on a deep level, even to the point where tacit knowledge could be shared. In large organizations, however, such microcommunities also represent a challenge for the reasons given above. There are limits to the number of participants in knowledge creation, especially in the phases of sharing tacit knowledge, creating a concept, and developing a prototype. Too many perspectives, too varied sources of tacit knowledge, too many traditions, etc., make knowledge creation difficult. Nevertheless, in the knowledge creating company, the knowledge creation initiatives need to take place in mutual awareness among these microcommunities. Hence, we would like to introduce the concept of imagined communities. This term is borrowed from the work of the two sociologists Benedict Anderson (1983) and James Calhoun (1991). Calhoun attempts to describe America as an imagined community:I feel a oneness with other Americans I have never met, a sense of common membership with people I have never met or heard of as individuals, with people who in direct interaction might repel or anger me. Calhoun goes on to describe how this sense of community might even lead people to fight wars for the common cause of protecting their traditions and ways of life. Knowledge creation initiatives spread around the company occur in microcommunities, but these communities also need to have an awareness of other initiatives, or in the words of Anderson 'in the minds of each lives the image of their communion'. The knowledge activist can facilitate connections by creating such imagined communities. He must share stories of microcommunities, telling who is involved, how long they have been working together, their ideas, ideals and their frustrations, the concepts created, their attempts at justifying concepts, and the prototypes resulting from the knowledge creation initiative, and so forth. He must monitor their progress in knowledge creation, and spread detailed accounts of their works. He must create a sense of belonging to a movement by spreading the latest news through information technology, face-to-face contacts, and even through newsletters. While microcommunities share a sense of communion making coordination of knowledge creation initiatives easier, the knowledge activist cannot stop at creating imagined communities. He must also create shared maps of cooperation. A map is important for establishing the imagined communities. People know with whom they share a nationality, and they also know, by reference to the map, if they are geographically close or distant. By the same token, the shared map of cooperation shows how various knowledge creation initiatives throughout the company are related. There are various types of such shared maps. One is simply an organigram showing the location of various people working on knowledge creation, or a project-management tool showing the participation, budgets, milestones, goals, and time-frame of knowledge creation initiatives. Another more sophisticated approach is to show a knowledge creation process graphically, from the sharing of tacit knowledge to cross-levelling of knowledge indicating participation, budget, time-frame, expected and achieved results and responsibilities. A second sophisticated approach would be to map the competence configurations (von Krogh and Roos, 1992), showing the tasks of various microcommunities and the knowledge they bring to the solution of these tasks. This is a powerful approach, because other microcommunities can openly discuss how their knowledge could contribute to task performance at another site in the company, or alternatively where they can find knowledge which is of use to their own task performance.These maps of cooperation must be shared throughout the microcommunities. They will have to be visually appealing, easy to understand and use, supplied with coordinates of each participant, and they need to show how each microcommunity contributes to knowledge creation in the company. They need to be expressed in a language that is commonly understood throughout the company. A possible pitfall is to make these maps static, to understand them as a representation of knowledge creation. Because knowledge creation is a journey into the unknown, shared maps of cooperation will have to change with the terrain. Dynamic maps show how knowledge creation proceeds, how new concepts are created, what issues are being considered in a justification process, the development of new prototypes and so forth. In cross-levelling of knowledge or sharing insights with others in the company, the shared maps of cooperation will prepare microcommunities to engage in knowledge exchange. The maps should be understsood as tools for structuring an ongoing discussion of how various knowledge creation initiatives intersect, and how cross-levelling will eventually contribute to the creation of competitive advantage for the company. At regular intervals, the knowledge activist might also create 'knowledge exhibitions' at which various micro-communities present their efforts to improve exchange of experiences. Merchants of Foresight The knowledge activist must assume responsibility for making the shared maps of cooperation fit with the terrain that the company explores. He must connect initiatives where cross-fertilization leads to economies of scope and scale in knowledge creation. In this work, he also has to assume a third role, namely that of a merchant of foresight. By this role, we understand that the knowledge activist will provide overall direction to the knowledge creation happening in various micro-communities. As a merchant of foresight, the knowledge activist must scale up and get a bird's-eye perspective of the direction of the knowledge creation that occurs within the company. A key question is how various microcommunities contribute to the knowledge vision of the company. 'A knowledge vision should define the "field" or "domain" that gives corporate members a mental map of the world they live in and provides a general direction as to what kind of knowledge they ought to seek and create' (Nonaka and Takeuchi, 1995). In working with the participants in knowledge creation, the knowledge activist's role will be to understand each micro-community's contribution to the development of the company and to detect how the initiatives throughout the company really could change its strategic posture. Another important task is to sell in the knowledge vision, and point to the role of the knowledge vision for creating a sustainable competitive advantage. He will have to challenge the participants on their contribution to this vision, and suggest how they might adjust their work to fit better with the vision. Every micro-community engaging in knowledge creation has to understand its work in a broader context, not an easy task when you get bogged down in details. In other words, the knowledge activist will have to fight against the myopia which often hinders the process of knowledge creation. This is of particular importance in a phase of concept justification. A concept, be it a new product- or service-concept, resulting from sharing tacit knowledge in a microcommunity has to be justifiable in front of the company's knowledge vision. Selling foresight is like selling a gas like oxygen — the customer cannot really see what he is buying. The merchant of gas needs calibrated instruments showing the flow of the gas to convince the customer that he has delivered the merchandise he or she pays for. The working of these instruments and their calibration has to be understood by both the customer and the supplier. Likewise, the shared maps of cooperation have to be linked with the foresight of knowledge creation. At certain intervals, the knowledge activist must illustrate how the various initiatives in the company support the knowledge vision. The knowledge activist needs a 'calibrated' map to show that the knowledge creation initatives do indeed contribute to the knowledge vision. He has to demonstrate, like the gas supplier, that the knowledge vision really focuses knowledge creation in the company, and that the efforts of other microcommunities are of value throughout the company. What the Knowledge Activist is Not Before moving on to discuss who can be a knowledge activist, we would also warn of three possible misconceptions and pitfalls of knowledge activism that might have a detrimental effect on knowledge creation. Firstly, knowledge activism is about enabling, not controlling. Combining the three roles of catalyst, connector, and merchant, the knowledge activist will just influence the company-wide processes of knowledge creation. Because of the inherent indeterminacy of such activities, he should at the outset give up the idea of controlling knowledge creation. If knowledge were an asset, stable over time and space, we could indeed apply technical procedures to control its development. It is quite easy for the knowledge activist to conceive of himself as a controller of such knowledge. He has immediate contact to various microcommunities, he has access to explicit knowledge, concepts, and prototypes, and he continuously edits the maps of cooperation. The activist, however, has to remove himself from the asset-perspective of knowledge once and for all — he must take a creationist stand. The creationist looking at knowledge as a potential for new innovation, and ultimately a new source of competitive advantage must also live with the unpleasant fact that knowledge has a wicked character. It is fluid, dynamic, partly tacit, partly explicit, tied to individuals as well as groups of people. The knowledge activist cannot be a controller. Any attempt to control knowledge creation will have to refer to explicit historical knowledge, like an engineering drawing, a market study, or a production manual. This knowledge, however, is of minor importance to competitive advantage for the firm. What matters is the process where people come together, strike the tune needed for the sharing of private insights, dismantle noxiants to fruitful cooperation, unleash the group's creative potential, stretch their minds to embrace new concepts and carefully apply their technical wisdom to develop new prototypes. With the mindset of a controller, he will be another unpleasant barrier to knowledge creation.Secondly, knowledge activism is not only about connecting to others, but also about ensuring self-connections. As a merchant of foresight, the knowledge activist will be in a vulnerable position. In selling in a knowledge intent he always confronts the short-term considerations of the microcommunities, their own aspirations, needs and fears. He typically runs the risk of being dubbed as a visionary without any solid basis in day-to-day business. The maps of cooperation might be seen as a fiction of his own, rather than a navigator for down-to-earth knowledge creation. To overcome this obstacle, the knowledge activist must develop a very high sensitivity to the workings of each microcommunity of knowledge creation. He will have to build up trust by demonstrating staying power and an intent of continuous collaboration. He will have to master the delicate art of attentive inquiry and dialogue, whereby he attaches the intent of each community to the company knowledge intent. He will also have to act with integrity, at times proposing changes to the knowledge intent where this itself shows to be too ambitious, unclear, or in conflict with the ongoing knowledge creation initiatives. Thirdly, establishing a knowledge activist should not be a cover up for the lack of knowledge creation. Of course, knowledge activism is a most visible way of demonstrating the company's intention to innovate and nurture knowledge creation practices. It would be easy to say: 'Look at us — we really take this knowledge stuff seriously — we even have this knowledge activist guy who is responsible for knowledge in our company'. This would be a great mistake. The knowledge activist is not responsible for knowledge, nor is he an alibi for the lack of knowledge creation and innovation. Without an intent to create knowledge throughout the company, the knowledge activist will just be an extra investment that does not pay off in the long run. His role is to enable, not create. He will never compensate for the lack of knowledge creation at the business level, and even the most uninformed shareholder will start to question the lack of deep-rooted practices of knowledge creation. Do not forget that the knowledge activist is just an enabling condition, catalyzing, connecting, and trading in foresight. Do not look at the knowledge activist in isolation, but as a part of a total package, whereby new sources of competitive advantages are being secured for the future. Only then will the knowledge activist really pay off. Who Can (or Should) be a Knowledge Activist? In essence, all organizational members from time to time activate knowledge creation in a company. Would it pay off to have a separate task of knowledge activism? We believe it would. Even if knowledge creation would be triggered in mircocommunities, there might be a weak tie-in to a company's knowledge intent and strategy. The project might lack foresight, and even the well intended initatives might be given limited attention. Who, then, could be a knowledge activist? Knowledge activism stems from different sources in different companies. In many large diversified corporations, especially those with high international R&D activity, we have observed that the role of the corporate R&D center is about to change. Rather than conducting basic research, applied research, or even product development, these centers take on the role of coordinating R&D activity throughout the corporation. Applied R&D is essentially seen as a business-related activity linked to distinct industries, markets, customer groups and products. The role of corporate R&D is very much that of connecting various research and development findings across businesses with the intention of creating economies of scope. The corporate R&D center might work as a catalyst for local knowledge creation by delivering basic research. They can trigger questions related to business activities, using basic research findings as a lever to get into innovation processes at the business level. At the same time, these corporate R&D centers are closely related to the corporate strategy making of the company, and thus assume a particular responsibility in communicating its knowledge intent. This attachment to the knowledge intent also requires of the corporate R&D centers that they coordinate knowledge creation initiatives in such a way that they support the realization of the intent, or that they engage in intensive conversations with the senior management about the need for a change in knowledge intent. The pros and cons are quite clear. As a knowledge activist, the corporate R&D center can be effective catalysts for local knowledge creation. They are also close to the corporate strategy making and can therefore communicate and influence the creation of a knowledge intent. On the other hand, especially if they have their own budgets for R&D, their interests might conflict heavily with those of the microcommunities at the business level. The question of where knowledge creation should occur will be a recurrent theme endangering the success of knowledge activism. A possible solution would be to restrict basic research to corporate levels, and applied research and product development to the business level. But as several R&D managers have experienced, this distinction between basic research and applied research is inherently fuzzy. In a map of cooperation, the division of knowledge creation labor has to be solved on a case-to-case basis. It was suggested by Gary Hamel [3] that strategists need to work as activists, inducing change throughout the organization and creating commitment to an ideal. Strategic planning staffs and foresight centers can play an important role as knowledge activists as well. Since knowledge is a source of competitive advantage, strategists are bound to take knowledge and other intangible resources into consideration in strategic planning. This in turn also requires that they develop a high sensitivity to the various knowledge creation initiatives occurring throughout the company, by communicating intensively with product developers, researchers, sales and marketing personnel, corporate communication officers and so forth. Strategists form the nexus of information streams throughout the company, and they assume responsibility for scaling up and identifying patterns in the evolving strategy. The pros of using strategists as knowledge activists are that they are close to the knowledge intent of the corporation, and can communicate and explain the direction to be pursued by this intent. They can work actively as merchants of foresight, linking various knowledge creation initiatives to external changes like the threat of new entrants, new technical developments, intensifying competition, enhanced influence by suppliers, changing customer needs and so forth. The cons are equally clear. Strategists are busy people, always in a hurry to keep pace with environmental changes. Perhaps they even lack the patience required in catalyzing knowledge creation. As connectors of knowledge creation initiatives they might work well, but there is always a danger that they will tend to favor knowledge creation which is in line with the strategy and knowledge intent, and disfavor knowledge creation leading to an evolving, bottom-up knowledge intent. Strategists are normally often identified with a deliberate strategy, and a purposefully defined strategic intent. They normally do not acquire a reputation for picking up on local initiatives and amplifying these throughout the company. For strategists to become excellent knowledge activists, a mindset shift has to occur. They have to pay increasing attention to emergent, bottom-up knowledge creation. Some companies, like ABB have established knowledge and technology transfer (KTT) units that take responsibility for transferring technologies, best practices, experience and so forth throughout the corporation. The purpose of these units is to globally leverage local knowledge in a systematic and speedy fashion. The units normally work with engineering departments as sources and receivers of technology. Their responsibility is to identify expertise on technology, identify technology to be transferred, define documentation routines, develop training programs, and manage the transfer projects. KTT is becoming a discipline which has a considerable impact on the competitive advantages of the transnational corporation, and the ability to excel in this discipline will therefore have an impact on long-term industry performance.The pros are that as connectors of knowledge creation initiatives, the KTTs are excellently positioned. Like the strategists, they function as a nexus of information, technology and knowledge flows in the corporation. The KTTs also develop particular expertise in administering projects that connect knowledge creation initiatives. They also develop particular expertise in the approach to knowledge transfer, like balancing the transfer of tacit knowledge through training, and the transfer of explicit knowledge through engineering documents. The cons, however, might be that the KTTs seem to be quite contract- or project-oriented. Connecting knowledge creation and cross-levelling knowledge beyond the project or contract seems unrealistic. Hence, the perspective of the KTT might be quite short-term. As merchants of foresight, the KTTs might have to put particular emphasis on knowledge and technology transfer in the context of the knowledge intent. It must give sense, purpose and direction to knowledge connections by referencing the intent. Another difficulty of the KTT might be that unlike an R&D center, they lack the basic technical knowledge needed to catalyze knowledge creation. Likewise, they might not be close enough to the market in order to pick up new signals from the customer that could trigger new knowledge creation. Hence, they need to work closely with 'listening-posts', like sales and marketing personnel, strategists, researchers, and alliance partners. Another possibility, and the most convincing one in our opinion, is to assign responsibility for knowledge activism to an individual or department. The knowledge activist, in this case, would develop the three roles in a balanced way, seeking to catalyze new knowledge creation, connect knowledge creation initiatives, as well as introducing some foresight into the local processes of knowledge creation. The pros and cons of this approach are connected to the whole discussion above. The knowledge activist will be somebody who reduces the time needed for knowledge creation, and provides sense, direction and purpose to all those local knowledge creation initiatives happening throughout the microcommunities. Perhaps some readers at this time have adopted the idea of using one member of a microcommunity as knowledge activist. The pros of this approach would be local acceptance in his own microcommunity, and a profound understanding of the process of knowledge creation in general. The threats to the effectiveness of this approach would be, however, that the knowledge activist would pursue the interests of his own microcommunity, and/or be suspected by other communities of doing so. It would also be difficult for him to instill foresight into the knowledge creation initiatives, due to his high commitment to the details of one knowledge creation process. The `TORIDAS' Project at Maekawa Let us illustrate the knowledge activist in practice by means of a short case-study. Since its inception in 1924, Mycon [4] devoted itself to the accumulation of various forms of know-how (including elementary application and production technologies), and the creation of new markets by developing new products, focusing on customer needs in the food and thermal technology industries. Mycom was initially a company that developed and manufactured freezers for industrial use. Throughout its 70-year history, however, it has greatly extended the spectrum of its activities to services and technologies in the fields of energy, food processing and extremely low temperatures. The idea of developing an automatic chicken leg deboning machine, named TORIDAS, emerged at Mycom in 1980. Since its introduction on the market in 1994, it has been well received by the global food processing industry as an epoch-making product because of its high deboning performance. The development of TORIDAS, however, was not easy and took 14 years. The project was suspended for four years after the first prototype was introduced in 1986. This suspension divided the project into two stages. The project team's approach to the mechanization of deboning work in the second stage was completely different from the one in the first stage. Soon after the project started in the first stage, the members of the deboning machine development team discovered that the mechanization of deboning work was much more difficult than expected. The greatest challenge for them was to find an appropriate way to separate chicken meat from the bone. Though they had been advised by deboners at a chicken deboning plant not to cut the meat, they stuck to inventing a meat cutting machine. They believed it was the only way to develop a deboning machine, using their knowledge of and expertise in mechanical electronics. Although realizing automatic deboning, however, the first prototype, which was a huge chunk of metal with a complicated mechanical structure, had not reached a level of commercialization at all. What went wrong in the first stage of the TORIDAS project? First, the project team decided to use and further develop their existing knowledge of mechanical devices. They didn't create a new knowledge base. At this stage of the knowledge creation process, the knowledge activist formulates process triggers such as: What do we know about the chicken deboning process? How can we develop knowledge about this process? Why do we use just knowledge about mechanical electronics? These triggers initiate a new knowledge creation process. Secondly, the project team applied and further developed the wrong knowledge, because they lacked a knowledge intent. As a merchant of foresight, the knowledge activist sells the knowledge intent to provide overall direction to the knowledge creation process. During this first stage, the project team developed a deboning machine lacking a knowledge intent and using their existing knowledge.Maekawa restarted the project in 1990. A young development engineer became the knowledge activist. He told the project leader that he wanted to resume the development of the deboning machine to catalyze knowledge creation. This engineer had regularly visited some chicken processing factories for his tasks in developing freezers and other machines. Connecting to the work of the previous groups he realized that the machine's movements were completely different from manual deboning work he had watched at chicken deboning plants. He concluded that the development concept had been fundamentally wrong, and decided to experience deboning work for himself. He asked one chicken deboning plant to let him work there. Through this 'training and practice' at the plant, he learned the knack of stripping chicken meat off the bone after cutting the tendons. The point was that deboners cut only tendons. The following process should be described not as 'cutting the meat off the bone' but as 'stripping the meat from the bone.' In the beginning of the project's second stage, the project members, basing their work on the experience of the young engineer and his foresight of creating a machine that would work, framed a hypothesis that deboning work could be mechanized by analyzing the work done by human hands and translating it into mechanical movements. Then the project members started learning about chicken legs and experiencing deboning work for themselves so that they could share the experience of the young engineer. All the members of the project team started learning deboning work from scratch beside professional deboners. After grasping the knack of deboning, the team members started breaking down manual deboning work into several phases. Through this procedure, deboning skills acquired by and embodied in the team members were articulated and transformed into explicit knowledge. This conversion of tacit knowledge into explicit knowledge enabled the project members to complete the deboning machine 'TORIDAS' in 1994. During this second stage, the young engineer acts as a knowledge activist. Four years after the suspension of the 'TORIDAS' project, he picks it up again, asks himself why the project failed and finds the answer: the development concept was fundamentally wrong. He triggers a new knowledge creation process. While the project team works at the chicken deboning plant, space for knowledge creation is built up. The young engineer assumes the role of a catalyst of knowledge creation. While working at the deboning plant, the project team starts learning about the chicken legs and experiencing deboning work so that the deboner's knowledge can be transferred to them. In this stage of the knowledge creation process, the young engineer acts as connector of knowledge creation initiatives, starting communication and knowledge transfer between the deboning plant and his project team, within the team and with the previous teams. Based on the young engineer's experience, the project team formulates the knowledge intent, forming the hypothesis that deboning work could be mechanized by analyzing the work of human hands and translating it into mechanical movements. How to Get Started At this point, the reader should be sensitized with respect to the role, functions, and challenges of the knowledge activist. Managed carefully, we believe that the ideas presented here can have a positive impact on knowledge creation in your company. In order to get started with knowledge creation in general, you might take some initial actions: + Create a knowledge vision. + Establish knowledge activism as a concept in your company — include it in conversations on knowledge creation and innovation. + Initiate a broad discussion of how knowledge activism should work. + Appoint the knowledge activist and clarify expectations and roles. + Identify and name your microcommunities of knowledge, and indicate where new microcommunities could emerge. + Discuss to what extent local knowledge creation initiatives align with the knowledge vision. Connect microcommunities throughout the company by sharing stories and spreading the latest news. + Develop shared and dynamical maps of cooperation (graphical), e.g. by mapping your knowledge creation activities, innovations projects, or centers of excellence. + Discuss and then distribute these shared maps to various microcommunities, but make sure to update the maps on a regular basis. Launch 'knowledge exhibitions'. A last reminder: Knowledge creation enhances the value of your company, and you might want to support this process with the help of energetic knowledge activists. Good luck! |
References
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- Bourdieu, P. (1980) Questions De Sociologie. Editions de Minuit, Paris
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- Ricoeur, P. (1992) Hermeneutics and Human Sciences. Cambridge University Press, Cambridge
- Schutz, (1967) The Phenomenology of the Social World. Northwestern University Press, Evanston, Illinois
6/9/2013
Total Recall, ARS ELECTRONICA, Lienz 2013 | “Forse a volte una pianta sogna di volare”: Le piante hanno un’anima …!? di V.Dublino
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“Forse a volte una pianta sogna di volare” Le piante hanno un’anima …!? di Vittorio Dublino Un'interfaccia bioelettronica permette ad una pianta di "controllare" una body extension che le permette di volare. L'interfaccia misura l'attività elettrica della pianta e usa i dati per guidare il volo. La pianta, così, diventa un “sensore” dell’ambiente che lo circonda ed “attore” di una performance artistica, creando un sistema aperto in cui i visitatori e l'ambiente partecipano attivamente nell'influenzare il movimento che osservano. Questa è l’installazione artistica "The Dream of Flying" della ricercatrice ed artista Chiara Esposito, presentato per la prima volta a ARS ELECTRONICA 2013; un esperimento di comunicazione tra una pianta e un drone: un lavoro in forma di performance e di installazione, risultato della ricerca nell'ambito del rapporto tra Arte e Scienza nell'Interattività. L’opera di Chiara Esposito nasce all’interno dell”Interface Culture Lab: uno spazio di ricerca multidisciplinare nato all'interno dell'Università d'Arte e Design di Linz. Fondato nel 2004 da Christa Sommerer e Laurent Mignonneau, due artisti internazionalmente riconosciuti quali pioneri dell'arte interattiva, coadiuvati da Martin Kaltenbrunner (cofondatore del sistema Reactable) dirigono questo spazio dedicato alla ricerca nell'intersezione tra arte e tecnologia, con una particolare attenzione agli sviluppi del concetto di interattività nelle sue svariate forme. | “Maybe sometimes a plant dreams of flying” Do plants have a soul ... !? by Vittorio Dublino A bioelectronic interface allows a plant to “control” a body extension which grants the possibility of flying. In this way, the questioned plant becomes a “sensor” of the environment which surrounds it, and “actor” af an artistic performance, creating an opened system in which visitors and environment actively participate in the act of influencing the observed movement. This is the artistic installation called “The Dream of Flying”, by the artist/researcher Chiara Esposito, introduced for the first time during ARS ELECTRONICA 2013; a communication experiment between a plant and a drone: a work presented as a performance and installation, result of the research in the field of the relationship between Arts and Science in Interactivity. Chiara Esposito’s work was born inside the Culture Lab Interface: a multidisciplinary research space born in Linz’s University of Arts and Design. Founded in 2004 by Christa Sommerer and Laurent Mignonneau, two internationally famous artists known as pioneers of interactive arts, assisted by Martin Kaltenbrunner (co-founder of the Reactable System), direct this space which is dedicated to the research of the intersection that happens between arts and technology, particularly focused on the development of the concept of interactivity in its different forms. |
di Vittorio Dublino
WIR SIND HIER Siamo qui La cerimonia di apertura di Ars Electronica Festival 2013, ha avuto luogo con la performance WIR SIND HIER (Siamo Qui) : un progetto artistico cross-mediale pensato e lanciato dall’artista italiano Salvatore Vanasco [1] e supportato da molti artisti di fama. L’avvio del progetto si annuncia dopo 80 anni dal primo “Bücherverbrennung” [2] ad opera della gioventù hitleriana ed è stato pensato come occasione e strumento culturale per aumentare la consapevolezza collettiva sugli ultimi sviluppi nel controllo dell’informazione e sulla censura. La performance, che ha avuto luogo alla Tabakfabrik di Linz, ha rappresentato un primo momento di sintesi di quella partecipazione creativa che i primi Artisti supporters hanno iniziato due mesi avanti con un dibattito pubblico in rete, allo scopo di sviluppare un progetto collaborativo che, nelle intenzioni dei creatori, ha l’ambizione di diventare globale grazie all’uso del web. Il punto focale del progetto WIR SIND HIER ( SIAMO QUI) , infatti, consiste nelle attività generate sul sito http://www.wir-sind-hier.org/; dove questioni di grande rilevanza per i cittadini nella Società dell’Informazione (come appunto la censura, la privacy) vengono messe in discussione, offrendo l’opportunità di ricevere aggiornamenti sulle azioni in corso. L’obiettivo è la creazione e la diffusione di un luogo ideale, aperto, per esprimere pareri, prendere posizioni, dare consigli , sviluppare idee, fare richiesta e/o accumulare Conoscenza, un progetto partecipativo in cui si potrebbe attivare, finalmente, tra gli artisti un fenomeno di “Crowding-out”, così come teorizzato dall’economista/sociologo Bruno Frey con la sua teoria del “Crowding-out” [3], facilitando le “vocazioni artistiche” all’interno della costituenda comunità WIR SIND HIER. Il principio guida espresso dai suoi creatori è: “esprimi la tua opinione ed ascolta quando gli altri rispondono”. SIAMO QUI! FATTI SENTIRE … NEL CORO CHE STIAMO CREANDO! Leggendo lo statement concettuale ed assistendo alla performance, mi sono venuti in mente i concetti -esercitati in Sociologia della Cultura Digitale - di “Intelligenza Collettiva” [4], teorizzato da Pierre Lèvy, ed adattato in “Intelligenza Connettiva” [5] da Derrick de Kerckhove; come anche il concetto del cosiddetto “GEB - Gödel, Escher, Bach” di Douglas Hofstadter - sviluppato con i suoi studi sui processi cognitivi nello studio del senso dell’ “IO” e nei processi di creazione artistica [6]-, come anche altri teorizzati da eminenti scienziati, come ad esempio Douglas Engelbart con i suoi studi sulla “Dynamic Knowledge Repository” o Tom Atlee con il suo pensiero sull’uso della “Co-intelligence” quale strumento per la costruzione e lo sviluppo di una Coscienza Collettiva in grado di influenzare la politica e l’economia. Tutti concetti che esprimono il valore e la forza eccezionale dati dall’uso della Cooperazione. Sarà questo il progetto che riuscirà a trasformare quella Conoscenza Implicita (per usare un termine proprio del “Knowledge management”) in una forma Esplicita d’Arte Collaborativa multi-cross-mediale evolutiva di matrice europea, in grado di incanalare forze ed energie intellettuali di Artisti europei finalizzandola alla creazione di quel “Mainstream Culturale Unico Europeo” [7] che effettivamente ancora manca nell’Europa Unita? Il sociologo francese Frederic Martell, esperto di fenomeni culturali di massa nella globalizzazione, nel suo ultimo libro “MainStream”, offre una lettura critica di sintesi sull’attuale incapacità europea ad inserirsi con efficacia sui “Mainstream globali”; nonostante si cerchi di creare un’Europa (davvero) Unita, si elaborano strategie d’azione poco impattanti a livello globale e si concedano consistenti fondi pubblici europei alle sue nazioni membro (n.d.r.). Egli conclude il suo saggio : “ […] di fronte ad un mondo meno eurocentrico, forse gli europei troveranno conforto nel considerarsi i sostenitori di un’idea che finalmente diventa realtà, la diversità culturale […]”, come valore aggiunto in una produzione Culturale di respiro “Glocale”. [1] [2] [3] [4] [5] [6] [7] | WIR SIND HIER We are Here Ars Electronica Festival 2013's opening ceremony took place with the performance called WIR SIND HIER: an artistic cross-media project, which was thought by Salvatore Vanasco and his partners and supported by many other famous artists. The beginning of the project starts exactly 80 years after the first "Bücherverbrennung (planned in 1933 by Deutsche Studentenschaft)" as an occasion and cultural instrument to increase collective knowledge about the latest developments in information control and censorship. The performance, which took place at the Tabakfabrik in Linz, represented a synthesis moment of the creative participation of the first supporter artists, whom started two months ahead with an online public debate, focused on the development of a collaborative project which is aimed to become global through the internet. The focus of the WIR SIND HIER (We Are Here) project, consists in the activities posted on the website http://www.wir-sind-hier.org/, where questions of great importance for the Citizens of the Information Society start, giving the opportunity to get updates about the actions which are taking place. The aim, is the creation and diffusion of an open, ideal space usable for expressing opinions, taking positions, making suggestions, and developing ideas and asking and/or gathering knowledge; a friendly project in which a "crowding-out" phenomenon could finally take place among artists, as it was theorized by the economist/sociologist Bruno Frey though his "Crowding-out" theory, easing the "artistic vocation” in the building community called WIR SIND HIER. The basic principle expressed by the organizers/creators is: "express your opinion and listen to the answers". WE ARE HERE! GET LOUD! JOIN THE CHOIR … Reading the conceptual statement and assisting to the performance, I thought about some concepts - which they were exercised in Sociology of the Digital Culture - of "Collective Intelligence", theorized by Pierre Levy and transformed into "Connective Intelligence" by Derrick and Kerckhove; the concept of the so-called "GEB - Gödel, Escher, Bach" by Douglas Hofstadter - developed through his studies about cognitive processes in the study of the sense of "I" and in the processes of creating artworks and music-; and other theorization of renowned scientists or activists , for instance Douglas Engelbart with his "Dynamic Knowledge Repository" or Tom Atlee with his thought about the usage of "Co-intelligence" as an instrument for the constitution and the development of a Collective Conscience capable of influencing politics and economy. All of the aforesaid express the exceptional value and strength of the usage of Cooperation. Will this be the project capable of transforming the Implicit Knowledge in a form of multi-cross-media collaborative Explicit Knowledge for Arts based on an European Matrix, and capable of focusing intellectual strength and energies of European Artists, finalizing it to the creation of an "Unique European Cultural Mainstream"? The french sociologist and researcher Frédéric Martell (expert in mass phenomena in Globalization & Culture) offers, in his book "MainStream", some critical synthetic readings about today's European inability of channeling and spreading worldwide effectively an "European Cultural Mainstreams"; even though the states are trying to create a United (real) Europe, there are being elaborated action strategies which have a slight global impact in spite of substantial funds allotted to the member states to encourage a global competitive cultural production. Martel finishes his essay as follows: "[...] In front of a less Euro-centered world, maybe Europeans will find comfort in considering themselves as supporters of an idea which finally becomes reality: cultural diversity, [...]" … Cultural divertsity as meaning of added value to a "Glocal" Cultural Production. |
di Maria D’Ambrosio
John Dewey con la pubblicazione nel 1934 di Art as experience, ha sistematizzato e reso esplicita una prospettiva pedagogica – cosiddetta attiva - che ha posto l’esperienza estetica a fondamento del processo formativo, riabilitando e legittimando, così, la dimensione percettiva come condizione di ogni cognizione possibile e facendo dell’arte lo spazio formativo per eccellenza perché riconosce la totalità e la complessità della ‘creatura vivente’. La centralità del concetto di esperienza così come intesa da Dewey - proposta cioè come ‘emergenza’ della relazione tra uomo e ambiente e quindi come la realizzazione di un atto creativo di tipo percettivo-cognitivo operato dall’uomo nei confronti del suo mondo di vita – recupera la sfera del corporeo e della multisensorialità come parte di una proposta epistemologica e metodologica che non esita a riconoscersi in una certa pragmatica pedagogica che assume l’arte come concetto-chiave attraverso cui prende forma la pratica educativa, ovvero l’educazione e il sapere pedagogico come prassi. Va ricordato che il credo pedagogico di John Dewey è stato attuato dai fondatori del Blackmountain College, la cui nascita si deve a John A. Rice nel 1933 e coincide con la chiusura ad opera di Hitler della Bauhaus in Germania e quindi con la persecuzione di artisti ed intellettuali in tutta Europa. Il Blackmountain College ha rappresentato l’esperienza più significativa capace di unire il campo della ricerca artistica con quello della ricerca pedagogica, basandosi sull’assunto deweyano che apprendimento e arte fossero strettamente interconnessi e che da questa relazione si potesse realizzare un’educazione progressista e democratica. Citare ancora oggi l’opera e il pensiero di John Dewey e l’esperienza del Blackmountain College, finita poi nel 1957, significa tornare alle ‘ragioni’ che vi sono sottese, a quella visione critica e tutta contemporanea che guarda all’uomo e alla sua ‘vitale’ relazione con il mondo e che chiede che quella relazione possa essere nutrita dalle istituzioni e da un sistema educativo e formativo capace di mobilitare le possibilità ‘creative’, ‘attive’, dell’uomo e quindi di rigenerare il sistema sociale (e quindi economico e politico). Un progetto educativo, dunque, tutto puntato sullo sviluppo della capacità cognitiva e creativa, sull’unità pensiero-azione e sulla dimensione cognitiva sottesa ad ogni azione così da far emergere la pratica come parte qualificante dell’intero progetto e della sua intenzionalità pedagogica. Il questo senso l’arte è una forma di educazione, quella che ne esprime il continuo senso di incompiutezza e quindi la processualità, quella continua ricerca di senso che coglie il divenire come dimensione dell’essere: essere che, in quanto creatura vivente, è ‘opera’ sempre in fieri il cui prender forma emerge dal rapporto con l’ambiente nel quale si situa. Il significato e il valore dell’opera di Dewey, così come il significato e il valore pedagogico dell’arte, ovvero della pratica artistica in quanto esperienza estetica, possono essere meglio compresi se connessi alle cosiddette scienze cognitive e alla ricerca nell’ambito delle neuroscienze insieme alle applicazioni che queste scienze stanno trovando sia nell’ambito delle istituzioni educative quanto in quello delle istituzioni artistiche e museali. Un aspetto importante della ricerca cognitiva applicata all’arte e all’educazione sta nell’aver riconosciuto un ruolo decisivo all’esperienza estetica, ovvero alla dimensione estetica dell’esperienza, rendendo l’arte quello specifico e speciale ‘spazio’ nel quale ciascuno può attualizzare e sviluppare la propria capacità di dare e prender forma. L’interesse di Dewey per la ‘natura umana’ tocca e intreccia questioni del biologico e del filosofico così da proporre la ‘soluzione’ dell’antica quanto insoluta contrapposizione tra materia e la forma, azione ed intenzione. Quella che Bergson - contemporaneo di Dewey - chiamava evoluzione creatrice, diventa un obiettivo che mobilita intelligenza e coscienza in una totalità che costituisce le nuove sfide della ricerca pedagogica ed epistemologica che emergono in tanta ricerca sull’Intelligenza Artificiale e sull’estetica del virtuale e del 3D. L’attuale diffusione della tridimensionalità e di una certa interattività non sono altro, infatti, che la risposta alla ricerca di una profondità del reale, della sua stratificazione e della sua estensione, messa in relazione con l’esploratore di quella ‘realtà’ che se ne fa attuatore e creatore al tempo stesso. In questo senso, perciò, sembra importante rinnovare la mission pedagogica e partire dalle istituzioni museali nonché dal patrimonio artistico e culturale per realizzare una sperimentazione ‘accessibile’ che renda alcuni saperi funzionali a nuove pratiche fruitive che possano vedere superata la concezione descrittiva e trasmissiva della conoscenza e che chiamino il fruitore a farsene parte attiva, generativa e rigenerativa. In process ... | John Dewey, with its publication in 1934 of Arts as Experience, has systematized and explained a pedagogic perspective - called active - which set the esthetic experience as a fundament of the educational process, redeeming and legitimizing the perceptive dimension as the condition of each possible cognition and making arts the perfect educational space because of its power of recognizing the totality and complexity of the living creature. The centrality of the experience concept, as intended by Dewey - namely, proposed as the “emerging” of the relation between man and environment, and so as the rationalization of a perceptive-cognitive creative acts made by man towards its living world - regains the body and multisensorial scope as a part of the epistemological and methodic purpose which does not hesitate to recognize itself in a specific, pragmatic pedagogy which “uses” art as a key-concept through which the educational practice takes shape, which is education and the pedagogic knowledge as praxis. It has to be recalled that the Dewey’s pedagogic credo has been actuated by the founders of the Blackmountain College, which birth is due to John A. Rice in 1933 and coincides with the closing of the Bauhaus opera by Hitler in Germany and with the persecution of artist and intellectuals throughout Europe. The Blackmount college represented the most significant experience, capable of unifying the artistic and pedagogic research, basing of Dewey’s assumption that learning and arts are tightly connected, and that from this relation we could realize a progressivist and democratized education. Quoting John Dewey’s mindset and work and the Blackmountain’s experience, ended in 1957, means going back to the “reasons” which underlie them, to that contemporary and critical view, which looks at man and its vital relation with the surrounding world and inquires that the aforesaid relation can be feeded by government institutions and an educational system capable of moving the “creative and “active” possibilities of man, and so to restore social system (and, as a consequence, the economic and political ones). So, an educational project aimed at the development of cognitive and creative capacities, at the unity between thinking and acting, and at the cognitive dimension underlying each action so that the practice can emerge as a qualifying part of the whole project and from its pedagogic intentionality. In this direction, art is a form of education, the one which expresses a sense of incompleteness and, as a consequence, processuality, the constant seek of meaning which grabs the becoming as a dimension of existence: existence which, as a living creature, is an ongoing “work” from which the shape-taking comes from the relation with the environment in which it grows. The meaning of Dewey’s work, also as the meaning and pedagogic value of arts, which is the artistic practice as an aesthetic experience, can be understood even better if linked to the so-called cognitive sciences and to the research in the field of neurosciences together with the application which these sciences are finding in educational institutions as in the one of museum and artistic institutions. An important aspect of the cognitive research applied to arts and education is in the recognition of a decisive role of the aesthetic dimension, which is the aesthetic dimesion of experience, making art the specific and special “zone” in which anyone can create and develop its capacity of giving and taking shape. Dewey’s interest for “human nature” touches and crosses biological and philosophical problems so to propose the “solution of the ancient and unsolved counterposition between substance and shape, action and intention. What was called by Bergson - Dewey’s contemporary - creative evolution, becomes an objective which moves intelligence and conscience in a whole which builds the new challenges of pedagogical and epistemological research which emerge from a profound research about Artificial Intelligence and virtual aesthetics of the 3D. Today’s diffusion of tridimensionality and of a certain interactivity is, in fact, no more than the answer to a research of the profoundness of real, of its stratification and its extent, related to the explorator of that “real”, who makes himself actuator and creator at the same time. So, in this sense, it appears important to renew the pedagogic mission and start from the museum institutions, as well as the cultural and artistic heritage, to create an “accessible” experimentation which renders some knowledge functional for new fruitional practices which can see the overcoming of the descriptive and transmissive conception of knowledge and call the user to be an active part in it, generative and regenerative. ... In process |
Is it legitimate to refer to as Empathy in the Arts?
di Vittorio Dublino
Neuroesthetic is an area of recent scientific research, which emerges from premises founded on the study of the disciplines which descend from the region of interest of Neurosciences and Cognitive Sciences. These researches study how our neurocognitive system can analyze perceptive stimuli connected to Arts, and aesthetics in general, trying to supply analytic tools useful to comprehend creative processes which are either connected to the production and the fruition of Artworks. Essentially, as said by the scientist Semir Zeki, the brain “perceives” the world through senses and elaborates in two macro-areas the esthetics, one subjective and the other objective, resolving as a consequence its concept of “beautiful” and “homely”, assuming its reality as the result of the elaboration produced by the interaction between its “cognitive cortex” (influenced and conditioned by the cultural context and the environment where it has matured its own experiences) and its “emotional paleo-brain” in which we find the aforesaid biologic parameters. The studies of the neuro-anatomical and neuro-physical aspects conducted by some scientists refer to the neuroaesthetics research itself, such as the ones published by Antonio Damasio, Gerald Edelman and Vilayanur Ramachandran . These studies are conducted with the aim of redefining, through modern instruments of survey as the new technologies in diagnostic tools , some of the concepts on which cognitive sciences are based, as for example the relationship between “Emotion and Conscience” and the “Neural Darwinism”, in which “Mind and Body” are recognized as a single “Integrated System” which responds to the solicitations of the external world (perceptions) generating emotions (dictated by “Nucleal Conscience” or “Primary”) which product (after the rational elaboration) are the Feelings (led by the “Extended Conscience” or Secondary), we understand that the perception of the world of the Men happens based on the plans of the interactive and redundant between the different level of Conscience. In recent years, many researches are demonstrating that the emotional mechanisms which are triggered in the moment in which aesthetics of an artwork are admired, are not only determined by the cultural conditioning (and so, liable of evolutions and/or changes in function of the space/time context in which the Observer was born and his individual culture developed) In fact, it has been demonstrated that there are other biological factors, which are generally universal, which influence the aesthetic perception connected to the processes and neurophysical mechanisms which characterize and regulate the aesthetic experiences of Men. The recent researches in the neurophysical field have demonstrated irrefutably the existence of some biological factors, commonly present in each men, capable of determining, at least theoretically, the primary elaboration of the aesthetics perceptions. Factors which could be inborn and, about average, commonly present amongst all of us, factors which represent the principles of the Gestalt of the Human Brain; this also confirms what has been already theorized by Carl G. Jung with his theories about the "Collective Subconscious". If we add, to the aforesaid discoveries, the recent and revolutionary one relative to the presence, in the brain, of a particular category of nerve cells called “Mirror Neurons”, we can state that Science is moving in the direction in which it will assume the new concept of Sociality’s Biology in which the Neurophysical Human system represents the biological base of the social development of men. Can we state that, beyond any cultural and/or cognitive superstructure, there is a main, objective, universal component strongly connected to the “Power of the Image” (or “of the Symbol”)? A component which, as such, makes each Artwork “descending, for a main part of its esthetic connotation, as reason of its incarnated emotional resonance, of the action simulation, sensations and emotion which evokes in each one of us) . Is it legitimate to refer to as Empathy in the Arts, and with whom produces it? Science is demonstrating how this can be possible, and how the fruition of an artwork triggers a dynamically active process in which the observator can melt, empathically, with the artwork and the artist which created it, through an inverse creative approach. | La Neuroestetica è un'area della recente ricerca scientifica che emerge da premesse fondate sullo studio di discipline che rientrano nella sfera di interesse delle Scienze Cognitive e delle Neuroscienze. Tali ricerche si occupano di capire come il nostro sistema neuro-cognitivo possa analizzare gli stimoli percettivi legati all’Arte e, più in generale, all’estetica, cercando di fornire nuovi strumenti per l’analisi oggettiva, utili alla comprensione dei processi creativi, nella produzione, e dei processi d'apprendimento, nella fruizione, delle Opere d’arte. Padre di questa nuova disciplina, è lo scienziato Semir Zeki , il quale afferma che “il Cervello percepisce il mondo attraverso i sensi e ne elabora in due modi l’estetica: in una modalità soggettiva ed in un altra oggettiva, l’Uomo risolve conseguentemente il suo concetto di “bello” o di “brutto” assumendo la sua Realtà come il risultato dell’elaborazione prodotta dall’interazione tra la sua “corteccia cognitiva” (influenzata e condizionata dal contesto culturale e dall’ambiente dove ha maturato le sue esperienze) e il suo “paleo-cervello emozionale” in cui sono inscritti quei parametri biologici di cui sopra”. Alla ricerca neuro-estetica afferiscono anche gli studi sugli aspetti neuroanatomici e neurofisiologici condotti in altri campi da alcuni scienziati; tra questi citiamo le ricerche e le teorie di Antonio Damasio , Gerald Edelman e Vilayanur Ramachandran. Studi condotti allo scopo di ridefinire, attraverso i più moderni strumenti d’indagine, come le nuove tecnologie per la diagnostica, alcuni di quei concetti su cui si fondano le “Scienze cognitive”, come ad esempio il rapporto “Emozione & Coscienza” e il “Darwinismo Neurale” . Concetti in cui “Mente e Corpo” sono riconosciuti come un unico “Sistema integrato”. Un Sistema integrato, che risponde alle sollecitazioni del mondo Esterno (le Percezioni) generando le Emozioni. Nello studio dei processi cognitivi, anche le Emozioni acquisiscono valore cognitivo e, secondo i risultati degli ultimi studi, queste sono dettate dalla “Coscienza Nucleale” (o cosiddetta “Primaria” ). Il prodotto del processo cognitivo che ne risulta, dopo l’elaborazione razionale, sono i Sentimenti. I Sentimenti, dunque, sono dettati dalla “Coscienza Estesa” (o “Secondaria”). Assumendo questi principi alla base delle nuove teorie, andiamo a renderci conto che nell’Uomo, la percezione del Mondo avviene secondo percorsi interattivi e ridondanti tra diversi livelli di Coscienza. Le numerose ricerche avviate in questo campo negli ultimi anni, stanno dimostrando che i meccanismi emozionali che si innescano nel momento in cui si contempla l’estetica di un’opera d’Arte non sono determinati quindi solo da condizionamenti culturali , ma anche da fattori biologici. È stato dimostrato, infatti, che esistono anche fattori biologici che influenzano la percezione estetica. Questi fattori sono correlati a processi ed a meccanismi neurofisiologici che, pertanto, contribuiscono a caratterizzare e regolare le esperienze estetiche dell’Uomo. Le recenti ricerche in campo neurofisiologico stanno andando a dimostrare in maniera inconfutabile che esistono, quindi, fattori biologici, generalmente universali, e qui di presenti in tutti gli Uomini, in grado di determinare, almeno in linea teorica, elaborazioni primarie delle percezioni estetiche. La presenza di tali fattori, che sarebbero innati e comunemente presenti in tutti noi, rispettando i principi della Gestalt del cervello umano, confermerebbe anche quanto già teorizzato in maniera intuitiva da Carl G. Jung e definito con la sue teorie sull’Inconscio Collettivo . Se a queste scoperte aggiungiamo le recentissima e rivoluzionaria scoperta relativa alla presenza nel Cervello di una particolare categoria di cellule nervose chiamate “Neuroni Specchio” , possiamo affermare che la Scienza stia andando nella direzione di assumere il nuovo concetto di “Biologia della Socialità” in cui il sistema Neurofisiologico Umano rappresenta la base biologica dello sviluppo sociale dell’Uomo. Potremmo dunque affermare, che al di là di qualunque sovrastruttura culturale e/o cognitiva, esista una componente oggettiva universale legata al “Potere dell’Immagine” o del Simbolo? Tale componente oggettiva, in quanto tale , renderebbe una qualsiasi genere di Opera d’Arte (dal quadro alla scultura, dalla miniatura calligrafica all’architettura) “derivata, per una sua parte consistente della sua connotazione estetica, in ragione del tipo di risonanza emozionale incarnata, della simulazioni di azioni, sensazioni ed emozioni che evoca in noi”. Si può parlare, quindi, di Empatia nell’Arte e chi con Chi questa la produce? La Scienza ci sta dimostrando come ciò sia possibile e come la fruizione di un’opera d’arte inneschi un processo dinamicamente attivo in cui l’Osservatore può arrivare ad immedesimarsi empaticamente con l’opera e con l’artista che l’ha creata, mediante un approccio creativo inverso. |
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Antropologia & Comunicazione interculturale di V. Dublino
La Comunicazione interculturale è una delle funzioni più importanti da prendere in considerazione per qualsiasi azienda che abbia aspirazione di avere successo negli attuali mercati sempre più competitivi, ciò in particolare per quelle imprese che operano a livello internazionale. L’economia e i consumi stanno diventando sempre più globalizzati, al contempo i mercati delle nazioni interessate dalla globalizzazione reclamano il diritto del rispetto alla loro Cultura da parte delle aziende internazionali. Gli studiosi prevedono che il rispetto della Cultura di una nazione sia uno di quei fattori critici in grado di influenzare lo sviluppo economico, le politiche relative ai comportamenti demografici e le politiche aziendali di tutto il mondo. La redditività di una impresa sarà sempre più significativamente determinata dalle sue strategie di comunicazione e dalle sue competenze in grado di analizzare e valutare il Fattore Culturale; tuttavia, top manager di molte aziende che operano a livello internazionale ancora oggi trascurano l'importanza delle barriere invisibili rappresentate dalle differenze culturali nella Comunicazione d'impresa.
Nella comunicazione interculturale applicata al business, quindi nella pubblicità e nella comunicazione promo-comunicazionale e nelle relazioni pubbliche, l’antropologia entra a supporto della gestione delle relazioni e le negoziazioni tra le istituzioni e le organizzazioni nel coinvolgimento tra culture diverse, appartenenze etniche e sistemi sociali cross-culturali, nello sviluppo di materiale pubblicitario, nella pianificazione e nella valutazione dell’immagine aziendale e il suo posizionamento; nello studio delle strategie di comunicazione, nel supporto della definizione, la progettazione e la gestione del valore di marca con studi approfonditi sui cambiamenti che si verificano nella semantica relativamente alle diverse culture, l'approccio, l'accettabilità e gli effetti della pubblicità, spot pubblicitari e promozioni.
Allo scopo di rendere efficace la Comunicazione interculturale applicata al business diversi studiosi negli anni hanno definito e suggerito dei paradigmi operativi, partendo dalle pratiche di Edward Hall e passando per il modello di Ferraro , attualmente il “modello Hofstede” è ritenuto generalmente il più efficace per riconoscere ed analizzare le differenze Culturali. Questo modello è stato elaborato appunto da Geert Hofstede , per la definizione di strategie globali per il branding e la pubblicità; più recentemente alcuni ricercatori hanno dimostrato con la loro ricerca l’importanza di evitare di far guidare l’elaborazione di strategie pubblicitarie da vecchi stereotipi in particolare per alcune culture e hanno, quindi, spinto Hofstede a ridefinire il modello aggiungendo una nuova dimensione al suo modello, chiamandola “Dinamismo confuciano” , questo nuovo parametro è particolarmente utile per lo sviluppo di business nei mercati asiatici, in particolare quello Cinese.
Come riportato negli studi di molti autori, gli antropologi possono contribuire a risolvere una vasta gamma di problemi nello sviluppo del business moderno; sia nell’ambito delle nuove organizzazioni del lavoro che dei nuovi paradigmi produttivi come anche nella definizione e per lo sviluppo dei mercati di sbocco delle aziende internazionalizzate.
Si sta sempre più affermando nella comunità scientifica e conseguentemente nel management delle imprese il principio secondo il quale i metodi propri dell’analisi antropologica sono ritenuti utili alle imprese in diversi campi d’applicazione; quelli di nostro interesse, per quanto concerne i nostri scopi progettuali, sono ad esempio ritenuti molto efficienti nella:
pianificazione per il marketing strategico
- con lo studio del comportamento dei nuovi consumatori attraverso l'osservazione e l'analisi delle differenze di approccio ai prodotti e ai servizi, la loro accettabilità e di consumo attraverso i segmenti sociali, gruppi culturali e sottoculturali
- con l’analisi e valutazione dei rischi legati ai cambiamenti in tutto il mondo attraverso l'osservazione dei nuovi paradigmi morali e culturali,
- con l'individuazione di nuovi orizzonti di business valutando e definendo politiche imprenditoriali sostenibili a supporto di nuovi programmi e possibili strategie attraverso una valutazione della raccolta e l’analisi di dati qualitativi ;
- con l’inserimento in una cornice di Scenario planning di informazioni strategiche sui diversi contesti geo-culturali e la valutazione degli aspetti culturali dei potenziali partner
- l'influenza della famiglia, dei legami di parentela e di amicizia nelle dinamiche sull'uso di un prodotto o di un servizio;
- l'influenza dei modelli culturali in grado di creare tendenze sulla definizione di prodotti e di servizi, sulle preferenze di una marca e la fedeltà alla marca;
- l’influenza di una Cultura sulle variazioni di accesso e di risposta alla pubblicità e alla promozione
- il mantenimento dei ruoli sociali, immagini e percezione di Sé attraverso i significati simbolici associati a determinati prodotti o servizi e le loro modalità di consumo;
- progettazione e sviluppo di nuovi prodotti e servizi.
Antropologia Culturale | Cultural Anthropology a cura di V. Dublino
L’Antropologia Culturale è una scienza olistica ed interdisciplinare per natura, perché combina una serie di indagini empiriche, logiche ed intuitive, con osservazioni sul campo (aspetti fenomenologici), l’analisi critico/storica (diacronica) e comparativa (sincronica) e, alla fine, fornisce una interpretazione organica. Tenta di esplorare e interpretare i modelli impliciti e i significati che sottendono le credenze delle persone e dei comportamenti, delle comunità e delle organizzazioni. Tra gli Antropologi e nella sua costituzione come scienza, sostanzialmente nata in occidente, c'è sempre stata una sorta di “sottile arroganza etnocentrica” sottile nella costituzione ufficiale antropologia che era del tutto occidentale all'inizio. Con i contributi di antropologi non occidentali e l'emergere di una nuova generazione di antropologi occidentali la situazione è in qualche modo cambiata. Contenuti di tradizioni e culture vengono prese sul serio come valide fonti di ipotesi scientifiche. La Conoscenza etnica (etnobotanica, etnomedicina, etnofarmacologia, “sistemi” cosiddetti “nativi” di organizzazione e di gestione, l’etica, … ) sono sempre più oggetto di studio ed attenzione, ed è ormai ampiamente accettato che l'antropologia è un “qualcosa” costituito da attività di apprendimento aperte e continue: oggetto di studio delle culture, delle comunità e delle organizzazioni e, soprattutto, un modello per imparare dalle persone e condividere le proprie conoscenze e non solo la loro conoscenza. L’Antropologia, dunque, fornisce informazioni qualitative, in contrasto con le informazioni quantitative fornite dalle statistiche sociali ed economiche. L’Antropologia applicata cerca di trasformare la conoscenza 'implicita in esplicita”, valori e modelli in elementi operativi. L'ambito dell’Antropologia applicata è molto ampia. Qualsiasi organizzazione abbia a che fare direttamente o indirettamente con gli esseri umani (come gruppi, comunità, istituzioni, il personale, i consumatori, i clienti, i partner, i contribuenti, beneficiari, interlocutori, target, etc etc) non può permettersi di ignorare la complessità alla base dei comportamenti umani e delle organizzazioni. Oggi nessuno mette in dubbio il fatto che il Comportamento umano non sia solo una “catena lineare di stimoli e risposte. I Comportamenti e le Organizzazioni sono modellati dall'interazione di interazioni interpersonali, dotazioni biofisiche, situazioni materiali, fattori sociali e fattori di dinamismo interno agli Uomini come i Valori e la Coscienza. Tutto ciò è Cultura! La Cultura non è un prodotto, ma un processo in corso, a tempo indeterminato. Non è solo una variabile tra molte altre. E ' un tutto pervasivo, invisibile ed influente. È la totalità degli impulsi esterni e interni disposti come un enorme progetto per il Comportamento Individuale e Collettivo. Le sue ramificazioni si trovano nella Cultura d'Impresa e nella Cultura Organizzativa. Nessuna altra scienza sociale è così ben attrezzata come l'Antropologia per avere a che fare con questo problema, oggi più che mai importante come la Globalizzazione. | Cultural Anthropology is an holistic and interdisciplinary science by nature, because it combines different empirical investigation, which are logic and intuitive, with field observation (phenomenological aspects), historical/critical (diachronic) and comparative (synchronic) analysis and, in the end, it supplies an organic interpretation. It tries to explore and interpret the implicit models and the meanings which are beneath the beliefs of people and their behaviors, communities and organizations. Among the anthropologists and in its constitution as a proper science, which got life substantially in the West, there has always been a slight “ethnocentric arrogance” in the beginning. Through the contribution of non-western anthropologists and trough the emerging of a new generation of western anthropologists, the situation has changed somehow. Contents of traditions and cultures are seriously considered as valid sources of scientific hypothesis. "Ethnic knowledge" (ethnobotany, ethnomedicine, ethnopharmacology, the so-called native systems of organization and management, ethics, ...) is more and more object of studies and attention, and nowadays it is widely accepted that anthropology is “something” built by opened and continuous possibilities of learning: object of the study of cultures, communities and organizations and, mainly, a model to learn from people and share knowledge and not only experience. Anthropology, so, supplies qualitative information, which contrasts with the quantitative information supplied by social and economic statistics. Applied Anthropology tries to transform “implicit knowledge in explicit knowledge”, values and models in operative elements. The field of applied anthropology is very wide. Any organization which deals directly or indirectly with human beings (groups, communities, institutions, personnel, costumers, clients, partners, taxpayers, payees, interlocutors, target, etc.) can’t risk to ignore the complexity of the human behaviors and organizations. Today, no one doubts about the fact that the human behavior isn’t simply a “linear chain of stimuli and response. Behaviors and Organizations are modeled by interaction of interpersonal communication, biophysics endowment, material situations, social and dynamic factors inside the Human Being itself such as Values and Conscience. All of this is Culture! Culture is not a product, but an evolving process, with no end. It is not only a variable among the others. It is a pervasive “all”, influential and invisible, it is the totality of external and internal impulses which set as a huge project for the Individual and Collective Behavior. Its branching can be found in the corporate and management cultures. No other social study is so well equipped as Anthropology to deal with this problem, which is important now more than ever as Globalization. |
a cura di Vittorio Dublino
Nel 2010 a Bruxelles alla Royal Flemish Academy of Belgium for Science and the Arts , si è tenuta una importante conferenza sul tema “Arte e Percezione”. Nel corso della conferenza è emerso che la chiave di successo per lo studio della percezione dell'arte e dell'estetica sta nell’approccio interdisciplinare e nel confronto aperto per la discussione dei diversi punti di vista che intercorrono tra artisti e scienziati, tra gli studiosi di diverse discipline ( i.e. psicologia e storia dell'arte), nella definizione degli approcci alla ricerca (teorico, fenomenologico, empirico) ed in quale campo scientifico in particolare (psico-fisico, neuroscienze, ecc.). Lo scienziato Son Preminger, afferma in suo articolo, “la convinzione generale che si sta facendo strada è che l’Arte è un medium che induce esperienze. Le esperienze artistiche sono un veicolo per trasmettere significati, un modo per offrire motivo di benessere o mezzi di auto-espressione e di comunicazione.” “Ogni opera d'arte induce un’esperienza mentale nell'osservatore, nel partecipante o nello sperimentatore. È’ stato dimostrato che contemplare un'opera d'arte innesca processi percettivi: le arti plastiche innescano processi visivi di basso livello come l'orientamento e il rilevamento dei bordi, così come i processi di livello superiore, come ad esempio il riconoscimento di oggetti e la sua separazione dallo sfondo. Un'esperienza artistica coinvolgerebbe processi cognitivi aggiuntivi come le funzioni esecutive, la memoria, l'emozione, e altri processi cognitivi di alto livello. L'impegno di funzioni esecutive come la memoria di lavoro e l’attenzione, sono le basi di molte esperienze artistiche. Processi intrinseci come la memoria autobiografica, le emozioni e la Teorie sulla Mente possono essere guidati da elementi percettivi e dotare di significati e fornire l'essenza concettuale do un’opera d'arte. Quali combinazioni specifiche di funzioni cognitive siano impegnate dall’osservazione di un’opera d'arte dipendono dalla forma d'arte, dalla particolarità dell’Opera e dall’Esperienza dell'Osservatore. Ad esempio, le forme d'arte classiche come le arti plastiche, la musica e i film, guidano verso la sola esperienza mentale di tipo artistico; mentre le arti interattive, come ad esempio le installazioni interattive o i videogiochi coinvolgono anche le funzioni motorie (cinestesiche) e di controllo comportamentale come parte dell'esperienza indotta. A livello neurobiologico, le esperienze mentali si manifestano con l’attivazione delle corrispondenti reti neurali le cortecce visive e uditive, le reti dell’attenzione e della memoria, le regioni del cervello emotivo, le regioni frontali del cervello, in combinazione tra loro.” “È emerso come gli utenti possano percepire l’arte e l’estetica da un punto di vista psicologico e neuropsicologico e come questa visione possa cambiare lo stesso concetto di arte. Scopo di questa interazione eterogenea è quello di sviluppare abilità critiche, nuove e trasversali, e autogestione didattica, includendo livelli comunicativi virtuali modulati dalla semplice attività cerebrale e dall’attivazione attenzionale del soggetto, potenziando inoltre i livelli di motivazione dell’utente. Questo costrutto si fonda sulle teorie della Embodied Cognition, legata a recenti ricerche nel campo delle scienze cognitive, dei sistemi dinamici, dell’intelligenza artificiale, della robotica e della neurobiologia. Per la embodied cognition l’apprendimento multipercettivo permette di valutare come il sistema motorio e percettivo influenzi la cognizione e potenzi capacità e connettività cerebrali: il corpo modula i processi di apprendimento e aumenta le capacità attenzionali e motivazionali. In un classico contesto di didattica museale il corpo è parzialmente inattivo perché l’utente deve ‘vedere’ senza avere la possibilità di visionare fisicamente lo stimolo. I livelli che vengono attivati in un visitatore museale, in situazioni di elevata ‘competence’ dell’oggetto percepito, sono livelli simbolici e affettivi. In situazioni di elevata competenza artistica, si può presentare, davanti alla visione dello stimolo reale, oggetto di osservazione, uno scompenso affettivo ed emozionale, dovuto alla semplice interazione visiva con l’oggetto. Si tratta, in questo caso, di far parte di un ‘insieme’ gestaltiano5 di relazione con una sorta di oggetto transizionale immaginato di cui, in una situazione museale o legata ai beni culturali, si può avere un’esperienza diretta. Questa sindrome è chiamata Sindrome di Stendhal o sindrome da “hyperkulturemia”. Sintomi simili possono essere elicitati da esperienze culturali estreme, specialmente se vissuti a lungo e rappresentati da esperienze significative per il soggetto, anche a livello religioso, ad esempio nella Jerusalem syndrome che si presenta in siti storici o religiosi”. | In 2010, in the Royal Flemish Academy of Belgium for Science and Arts, Bruxelles, a very important conference on the theme “Arts and Perception” was held. During the conference, the concept that the key to success in the study of perception of arts and aesthetics can be found in the cross-disciplinary approach and in the open confrontation for the discussion of the different points of view among artists and scientists, among the professionals of the various disciplines (e.g. psychology and art history), in the definition of the approaches to research (theoretical, phenomenological, empirical) and in which specific scientific field (psychophysical, neurosciences, etc.) emerged. The scientist Son Preminger states in his article: “the general belief which is gaining its way is that in Arts it is a medium which induces experiences. Artistic experiences are a vehicle to transmit meaning, a way to offer wellness and means of self-expression and communication”. “Each artwork induces a mental experience in the observer, in the participant or in the experimenter. It has been demonstrated that the contemplation of an artwork triggers perceptive processes: plastic arts generate low-level visual processes as orientation and the bearing of borders and corners, and also superior level processes, for example the recognition of objects and their separation from the background. An artistic experience would involve additional cognitive processes such as the executive functions, memory, emotions, and other high end cognitive processes. The usage of executive functions such as work memory and attention are the bases of many artistic experiences. Intrinsic processes such as autobiographical memory, emotions and the Theories of Mind can be driven by perceptive elements and supply meaning and conceptual essence to an artwork. The specific combinations of cognitive functions to use in the observation of artworks depend on the form of art itself, from the peculiarities of the piece and from the experience of the observer. For example, the classical art forms such as plastic arts, music and movies, drive towards the unique artistic mental experience; while interactive arts, such as interactive installations or video games, also involve moving (kinesthetic) and behavioral functions as part of the induced experience. Neurobiologically, mental experiences are shown through the activation of the matching neural networks and visual/auditory cortices, the networks of attention and memory, the cerebral regions of emotion, the frontal regions of the brain, combinating mutually” “We have seen how the users can percept arts and aesthetics from a psychological and neural point of view and how this vision can change the concept of arts itself. The aim of the heterogeneous interaction is to develop new and crosswise critical abilities, and didactic self-management, including virtual communicational levels modulated by the simple cerebral activity and the attention triggering of the subject, also enhancing the levels of motivation of the user. This construct is based on the theories of the Embodied Cognition, connected to the recent researches in the field of cognitive sciences, of dynamic systems, of AIs, of robotics and neurobiology. For the embodied cognition, multi perceptive learning allows to estimate how the motor and perceptive system influences the cognition and enhances mental capacities and connectivity: the body modulates the learning processes and enlarges the attention and motivational capacities. In a traditional context of museum didactics, the body is partially inactive because the user has to “see” without having the possibility of trying physically the stimula. The levels which are activated in a museum visitor, in situations of high end “competence” of the perceived object, are symbolic and affective. In situations of high artistic knowledge, we can see, in front of the real stimulation, an affective and emotional decompensation, caused by the simple visual interaction. In this case, it comes to being part of a relational gestalt ‘ensemble’ with a sort of transition object of which, in a museum (or cultural heritage) situation, there can be a direct experience. This syndrome is called Stendhal Syndrome of ‘hyperkulturemia” syndrome. Similar symptoms can be elicited by extreme cultural experiences, especially if lived over a long period of time and represented by significant experiences for the subject, even on a religious base, for example the Jerusalem Syndrome which can be observed in historical or religious sites”. |
References:
Authors readings
Francesco C. Betti |
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